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LA DISCIPLINA DELL’IMPRESA FAMILIARE
LA DISCIPLINA DELL’IMPRESA FAMILIARE

LA DISCIPLINA DELL’IMPRESA FAMILIARE
A cura di Laura Galli


La disciplina dell’impresa familiare è contenuta nell’art.230 bis c.c., come introdotto dalla L.151/75 sulla riforma del diritto di famiglia.
La norma in esame definisce l’impresa familiare come l’impresa a cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo e dispone che, salvo quando sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare gode dei seguenti diritti:
- diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia;
- diritto di partecipazione agli utili e/o agli incrementi dell’azienda in proporzione alla qualità e quantità del lavoro prestato.
La ratio giuridica sottesa all’introduzione dell’art.230 bis è da ricercarsi nella regolamentazione del lavoro nella famiglia che, prima della riforma ex L.151/75, trovava la propria collocazione tra gli obblighi imposti per accrescere la quantità dei beni dei quali il capofamiglia possedeva disponibilità e controllo assoluti.

L’esigenza di un inquadramento giuridico fu dettata dalla proliferazione di imprese di questo tipo che, a fronte della collaborazione di familiari nella gestione aziendale, non attribuiva a questi ultimi alcuna tutela giuridica.
L’art.230 bis trova, in tal modo, il proprio fondamento nell’apprestare una tutela minima ad un rapporto di lavoro che non trova altra e diversa configurabilità. Per tali ragioni, è stato ritenuto, anche dalla giurisprudenza prevalente, che l’istituto in esame abbia natura residuale e sia, quindi, inapplicabile quando i rapporti tra i componenti della famiglia trovino la loro collocazione sistematica in un diverso specifico rapporto negoziale, quale ad esempio il rapporto di lavoro subordinato, il contratto di società o di associazione in partecipazione.
In particolare, la giurisprudenza ritiene ravvisabile l’istituto del rapporto di lavoro subordinato solo se vi sia stata tra le parti un’espressa pattuizione in tal senso, volta ad inquadrare in tale rapporto l’attività del familiare. In mancanza di una pattuizione specifica, si è nell’ambito dell’art.230 bis.
Per quanto riguarda il rapporto societario, invece, l’eventuale sussistenza di un patto societario va accertato con riferimento ai rapporti interni, da cui si possano desumere gli elementi costitutivi della società stessa (affectio societatis, conferimenti, ripartizioni di utili e perdite).
Ancora sulla natura giuridica dell’impresa familiare ex art.230 bis c.c., la giurisprudenza è divisa sulla configurabilità della stessa quale impresa individuale o collettiva.
La tesi prevalente accoglie la natura individuale per un duplice ordine di ragioni. Anzitutto, è elemento indicativo la circostanza che l’istituto di cui all’art.230 bis sia stato collocato nel libro delle persone e della famiglia anziché in quello del lavoro o delle società, intendendo così chiaramente escludere la creazione di una nuova forma di esercizio collettivo dell’impresa.
In secondo luogo, la configurabilità dell’impresa familiare in termini di impresa individuale ha, quale legale conseguenza, che è imprenditore il solo familiare titolare dell’impresa, escludendo ogni forma di partecipazione alla gestione ordinaria della stessa da parte dei familiari; ciò che avviene, di contro, nell’istituto affine dell’azienda coniugale.
Presupposto di quest’ultima è, infatti, una necessaria cogestione dell’impresa stessa da parte di entrambi i coniugi, con conseguente assunzione di solidale responsabilità da parte di entrambi dei rischi di impresa
Estendere la responsabilità delle obbligazioni aziendali al coniuge svuoterebbe di significato la ratio giuridica dell’art.230 bis. La norma nasce, infatti, quale intento protettivo del legislatore nei confronti del coniuge, parenti o affini, che collaborano con l’imprenditore.
Il primo elemento che conferma la ratio protettiva è il diritto al mantenimento in capo al familiare.
Il diritto al mantenimento è riconosciuto indipendentemente dalla qualità e quantità del lavoro prestato e dall’effettivo andamento dell’impresa. Ciò significa che la collaborazione del familiare all’impresa dà diritto al mantenimento quantunque l’impresa non desse profitti o fosse in perdita.
Per collaborazione si intende un contributo continuativo, non occasionale, pur potendo l’attività essere espletata anche part-time o comunque non costituire l’unica attività del soggetto. Essa può essere di qualunque tipo, intellettuale o manuale, esecutiva o direttiva e può essere prestata sia nell’ambito
dell’impresa che della famiglia. In quest’ultimo caso, tuttavia, deve essere funzionale all’attività dell’impresa, nel senso che possa consentire all’imprenditore di dedicarsi in toto all’esercizio dell’impresa.
Ciò costituisce espressione di un revirement giurisprudenziale della Cassazione che ha concepito il concetto di collaborazione comprensivo anche del lavoro casalingo o domestico purché funzionale ed essenziale all’attività produttiva.
Pertanto, l’orientamento giurisprudenziale più recente ha attribuito rilievo anche al lavoro svolto dal coniuge casalingo esclusivamente nell’attività domestica facilitando l’altro coniuge nella gestione aziendale in un’ottica di divisione strumentale dei compiti. In tal senso, la prestazione lavorativa del coniuge, in qualunque modo esercitata, rientra nella fattispecie di lavoro tutelata dalla norma in esame.
Ciò implica un duplice ordine di conseguenze: in primo luogo, la collaborazione del coniuge o familiare, qualora possieda i requisiti della continuità, coordinazione ed esplicazione prevalentemente personale, determina un rapporto associativo preordinato alla tutela del lavoro del familiare e va inquadrata nelle ipotesi previste dall’art.409 n. 3 c.p.c. in tema di rapporto di collaborazione con carattere di parasubordinazione, trovando la propria fonte in un rapporto contrattuale da cui scaturiscono precisi diritti ed obblighi tra le parti.
Secondariamente, per giurisprudenza costante, si esclude che l’art.230 bis preveda una presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative, poiché quest’ultima richiede la prova della c.d. “causa affectionis benevolentiae”, che ex art.143 c.c. impone a ciascun coniuge l’obbligo di contribuire, in relazione alle proprie sostanze ed alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, ai bisogni della famiglia.
Il diritto al mantenimento è cumulabile con il diritto di partecipazione agli utili dell’impresa, commisurato alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Dibattuta in giurisprudenza è stata la questione della rilevanza del momento in cui hanno cessazione tali diritti. Premettendo che tra le cause di cessazione del rapporto, occorre distinguere lo scioglimento dell’impresa dallo scioglimento del rapporto tra imprenditore e singolo partecipe, si rende opportuno, in questa sede, esaminare le cause attinenti al secondo ordine di motivi.
A fronte di un orientamento giurisprudenziale più restrittivo che si è espresso contrariamente alla prosecuzione del rapporto in caso di estromissione o perdita della qualità di familiare in seguito a separazione personale per il venir meno di quella comunione di tetto e di mensa su cui si fondava l’impresa familiare, la giurisprudenza maggioritaria tende ad escludere che la separazione personale dei coniugi costituisca di per sé causa dello scioglimento dell’impresa familiare, in primis perché con la separazione non cessa il rapporto di coniugio (che si estingue con il divorzio) ed in secundis perché non mette automaticamente fine al rapporto di impresa.

 
 
 

Centro di studio del diritto romano e italiano presso Universita
della Cina di scienze politiche e giurisprudenza
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