Home   Chi siamo   Novità   Trattati   documentazioni   Presentazione degli studiosi   Scambio delle info   opere   Contattaci  
 Oggi:
 
 
 Novità Più..
 
· Quinto Congresso Intern...   2014-12-06
· Notice of the Internati...   2013-03-15
· La premessa (volume II...   2013-03-07
· La premessa (volume I...   2013-03-07
· La premessa (Volume ...   2013-03-07
· Elenco delle bibliograf...   2012-12-12
· [Il 60° anniversario d...   2012-07-16
· Tavola rotonda di “ un...   2010-12-14
 
 opere Più...
  diritto romano  
 
GIUSEPPE VALDITARA: Profili del risarcimento del danno dalla Legge Aquilia al diritto odierno
Profili del risarcimento del danno dalla Legge Aquilia al diritto odierno
Sen. Prof. Giuseppe Valditara, Università di Torino, Senatore della Repubblica Italiana

Damnum alludeva in origine alla violazione della integrità fisica di un bene. Consisteva dunque nello stesso danneggiamento materiale del bene. Era dunque un attentato alla proprietà punibile con il damnas esto in virtù del quale il responsabile era verosimilmente soggetto immediatamente alla procedura esecutiva.
Si damnum faxit, che rappresentava ancora nella disciplina aquiliana la norma di chiusura delle fattispecie contemplate, doveva appartenere allo stesso genere di "si iniuriam faxit" e di "si furtum faxit" di cui si trova cenno nelle XII Tavole.
Nella lex Aquilia damnum allude certamente ad un pregiudizio di natura patrimoniale, pregiudizio conseguente tuttavia sempre alla violazione della integrità fisica di un bene, realizzata con certe modalità tipiche, con un comportamento qualificato, consistente come è noto in un occidere, ovvero in un rumpere, frangere, urere. La tipicità era ulteriormente rafforzata dalla scelta dei verbi: occidere si concretizzava infatti nell'ultimo atto fatale, mentre rumpere sembra presupporre (così D.9,2,27,17) azioni direttamente esplicantisi sull'oggetto danneggiato. Si affaccia nel capo II della legge la tutela del credito. Si trattava verosimilmente di una innovazione conseguente al diffondersi dell'impiego della adstipulatio, legato probabilmente all'attività del prestito bancario ed alla necessità di un'azione di recupero del credito, non esercitabile concretamente dallo stipulator-presta denaro, né attuabile nell'antico processo per legis actiones da rappresentanti processuali. Dubito tuttavia che il capo II abbia trovato una sua concreta applicazione con un'apposita previsione edittale. Comunque è sicuro che il capo secondo perse presto significato. Ne conseguì che la disciplina del damnum iniuria datum tornò a concentrarsi esclusivamente sulla protezione della proprietà. Proprio perché non destinata a risarcire un danno quanto piuttosto a punire l'autore di un illecito per un atto compiuto su un bene di proprietà altrui, la sanzione per i capi primo e terzo portava alla liquidazione di un valore corrispondente a quello avuto dalla cosa danneggiata nell'anno o nel mese anteriore. L'impiego della forma passata "fuit" esclude qualsiasi considerazione del significato che il bene aveva nel patrimonio del suo proprietario e quindi delle utilità che esso avrebbe eventualmente potuto apportare in futuro così come delle spese destinate all'eventuale reintegro del bene stesso.
Risulta evidente dunque la netta differenza fra la originaria fattispecie aquiliana e la disciplina prevista nei moderni codici civili di derivazione napoleonica. Se infatti il Code Napoleon recita "Tout fait quelconque de l'homme, qui cause à autrui un dommage", l'art.2043 del c.c. parla di "Qualunque fatto doloso o colposo che cagiona ad altri un danno ingiusto..". Alle fattispecie tipiche della lex Aquilia si contrappone qui la previsione di una fattispecie di carattere generale. D'altra parte se oggetto dell'azione aquiliana era essenzialmente il valore del bene danneggiato o distrutto, ben diversa è anche sotto questo profilo la concezione odierna. L'azione conseguente all'art.2043 c.c. porta infatti al risarcimento delle conseguenze economicamente valutabili della lesione dell'interesse protetto. Essa non solo porta al pieno risarcimento della cosiddetta differenza patrimoniale, la differenza cioè fra la situazione del patrimonio senza e a seguito dell'atto illecito, ma può consistere e in un pregiudizio patrimoniale e in un danno alla salute (danno biologico), o nelle sofferenze psichiche e psicologiche (danno morale), o anche nel pregiudizio alla vita di relazione (danno esistenziale).
E' interessante provare dunque a tracciare per rapidi cenni una linea evolutiva che, peraltro partendo e in buona misura evolvendosi all'interno proprio del sistema delineato dal plebiscito del 286 a.C., ha condotto alla situazione odierna. 对于侵权法的发展进程进行简短的一个梳理,是一件很有意思的事情,特别是从公元前286年护民官所建立的那个体系起源和发展,最终形成现代法上的局面。

Una esigenza evolutiva che si manifestò ad un certo punto fu quella di allargare l'ambito di applicazione della lex Aquilia, superando i limiti connessi alla tipicità delle azioni lesive sanzionate, tipiche di una impostazione arcaica risalente verosimilmente alla disciplina decemvirale.
Il caso più antico a noi noto in cui questa esigenza iniziò a manifestarsi è quello già discusso da Bruto della schiava o della cavalla pregne che avevano abortito a seguito di un colpo ricevuto (D.9,2,27,22). Qui l'esigenza di estendere la portata della legge, che presupponeva una ruptio del bene danneggiato, si realizzò giocando su una estensione concettuale dell'oggetto su cui si era svolta l'azione. Si considerò cioè il feto come se fosse una cosa unica con la madre.


E' con l'assimilazione tra rumpere e corrumpere (guastare) che l'interpetatio fa un decisivo passo avanti. Questa evoluzione interpretativa comportava la possibilità di estendere la disciplina del danno aquiliano a tutta una serie ulteriore di fatti e in primo luogo alle varie ipotesi di corruzione fisica, adulterazione e deterioramento di un bene.
Inizia qui il lungo cammino che dovette portare al superamento della tipicità dell'illecito extracontrattuale.
Tutto ciò non era però ancora sufficiente. Il pretore dovette dunque iniziare a concedere in via decretale, di volta in volta, per singoli casi actiones in factum che consentivano una protezione anche per ipotesi non contemplate, né contemplabili dalla legge. Si seguì qui un orientamento che ispirò anche l'intervento del pretore in tema di convenzioni atipiche la cui protezione venne realizzata proprio ricorrendo ad apposite actiones in factum che consentirono di aprire una breccia nell'ambito della tipicità contrattuale.
Allo sviluppo di distinte azioni in fatto in materia di danni non derivanti da inadempimento di contratto dovette contribuire indirettamente anche la lex Cornelia de sicariis et de veneficiis che, perseguendo finalità di prevenzione dell'omicidio, prevedeva la generica fattispecie di causam mortis praebere. Questa venne dunque applicata, forse per la prima volta da Ofilio (D.9,2,9,3), alle ipotesi di omicidio del servo. "Causam mortis praebere" aveva una portata di gran lunga più vasta rispetto ad "occidere": si finiva così con il sanzionare l'omicidio del servo in qualsiasi modo causato. Ciò che contava diventava così il risultato, non più il tipo di azione che lo aveva determinato. E' possibile che le singole actiones in factum di volta in volta concesse fossero azioni autonome non ricalcate sullo schema di quella aquiliana.
Probabilmente posteriore è lo sviluppo di actiones utiles in tema di danni. Si trattava, invece, della stessa azione aquiliana la cui applicazione veniva estesa a nuove fattispecie tramite l'utilizzo di una fictio. Dopo l'identificazione di rumpere con corrumpere fu questo il più significativo passo avanti verso la estensione della portata della disciplina aquiliana. Si procedeva, diversamente da quanto si era realizzato con le azioni in fatto, verso un più deciso allargamento dell'ambito applicativo della legge. Peraltro quando suggerire l'applicazione di un'actio in factum autonoma piuttosto che di un'actio utilis ex lege Aquilia sembra, almeno in alcuni casi, dovuto alla diversa sensibilità del singolo giurista. Ragionando su quanto emerge dalle Istituzioni di Giustiniano e anche alla luce di alcune differenti posizioni fra giuristi di età severiana, si può forse immaginare che laddove mancasse un solo elemento per ravvisare la fattispecie aquiliana si proponesse l'impiego della fictio e dunque dell'actio utilis; laddove invece la fattispecie fosse irrimediabilmente distante da quella prevista dalla legge si desse l'actio in factum.
Nelle fonti compaiono anche espressioni come actio in factum ad exemplum legis Aquiliae. Pomponio parla di actiones in factum accomodatae legi Aquiliae. Questa terminologia denota una progressiva attrazione dell'actio in factum nell'ambito aquiliano. Lo strumento dell'actio ad exemplum richiama del resto il meccanismo dell'analogia. "Ad exemplum" sta più in particolare ad indicare che l'azione era modellata su quella ex lege Aquilia. Indicativo è comunque che in età post-classica actiones in factum venissero qualificate come quasi damni iniuriae: probabilmene non si trattò di un'idea completamente avulsa da radici classiche. Significativo è peraltro nel passo di Pomponio l'uso del plurale "actiones in factum accomodatae legi Aquiliae", il che sta a signifcare come non vi fosse ancora una actio generalis con funzione integrativa rispetto a quella ex lege.
Probabilmente l'esigenza di allargare le situazioni protette fu ulteriormente stimolata dall'affiorare di una concezione più moderna dell'azione di danni, come volta a garantire una più ampia tutela del patromonio.
Il passaggio conclusivo lo si ha indiscutibilmente con Giustiniano. Come è noto, nelle Istituzioni, dopo essersi osservato che l'actio legis Aquiliae presuppone il requisito della causazione di un danno corpore e corpori, si aggiunge che pertanto si concedono azioni utili nei confronti di coloro che abbiano cagionato danno senza l'esistenza del primo requisito. Nell'ipotesi peraltro in cui il danno non fosse stato cagionato né mediante un rapporto di causalità diretta e nemmeno tramite una lesione dell'integrità fisica di un bene, ma in qualsiasi altro modo, si dava l'actio in factum. Ritengo significativo il cambio della forma rispetto al citato passo di Pomponio: qui si parla di actio in factum al singolare come rimedio unitario e di carattere generale.
L'actio in factum, non più concepita come azione decretale, ma come rimedio di natura generale, integrativo per tutte quelle ipotesi in cui non risultasse applicabile un'azione aquiliana, era dunque ufficialmente attratta nel contesto aquiliano, venendo in sostanza assimilata all'azione di legge di cui rappresentava lo strumento integrativo e complementare. L'actio in factum, almeno così come venne concepita da Giustiniano, fu dunque lo strumento che consentì di rompere la tipicità dell'illecito aquiliano. Essa ebbe una portata analoga a quella che in tema di tipicità contrattuale aveva avuto la disposizione di Leone del 472 d.C. che considerò valide tutte le stipulationes "quibuscumque verbis pro consensu contrahentium compositae". E' proprio in questa actio in factum di portata generale che, come si vedrà meglio più avanti, affonda le sue radici la atipicità dell'atto illecito così come sancita nell'art. 2043 c.c. e come già stabilito dall'art.1151 cod.civ. del 1865 e ancora prima dall'art.1382 del Code Napoleon, da cui entrambi i codici italiani, per questo aspetto, direttamente discendono.
E veniamo ora alla evoluzione dei criteri di stima del danno subito.
Come è noto l'azione aquiliana nasce come azione penale. Danneggiamento e furto: due attentati alla proprietà del pater. Era dunque il rapporto con quella cosa, il meum esse, che veniva protetto. Verosimilmente per entrambi si dava subito seguito alla manus iniectio. In questa ottica, come per il furto, la reintegrazione del patrimonio era solo una conseguenza, non lo scopo. Certo quando ad un certo punto si dovette consentire all'autore dell'illecito di offrire il pagamento di una somma di denaro, anzichésocciacere alla procedura esecutiva sulla propria persona che poteva concludersi con la messa a morte, il significato economico del bene risultò chiaramente preso in considerazione; così come quando damnum assunse il significato di pregiudizio patrimoniale e in questi termini si pose come presupposto per l'esperibilità dell'azione, risultarono sottolineate le conseguenze dell'illecito sul patrimonio e non più soltanto il mero attentato alla proprietà. Il criterio di stima della aestimatio rei stabilito dalla legge, è comunque pienamente congruente con il carattere penale dell'azione: si liquidava il valore del bene e cioè il valore della proprietà. Affermato il principio della aestimatio rei, era d'altro canto inevitabile, per un'azione di danni che presupponeva come ipotesi normale la distruzione di un bene fisico, il riferimento ad un momento del passato, in cui il bene fosse ancora esistente. Pure coerente con il principio della retrodatazione è il plurimi, che nulla ha a che vedere con una prospettiva risarcitoria.
Nel I sec.a.C. si inizia peraltro a manifestare la consapevolezza che il bene non è isolato, ma che esso svolge, all'interno della sfera del suo proprietario, una certa funzione. E' pertanto probabile che già nel I sec.a.C. alcuni giuristi intendessero attenuare la portata del riferimento della valutazione al maggior valore nell'anno anteriore per quei casi in cui il bene distrutto avesse subito una alterazione delle sue qualità, precedente rispetto all'illecito così da vederne già diminuito il valore e modificata la funzione (D.9,2,23,3).
La individuazione di una funzione anche reipersecutoria del rimedio aquiliano pare comunque affiorare, forse per la prima volta, con Labeone laddove suggeriva al pretore, nel caso di preventivo esperimento della reivindicatio contro il possessre della cosa che la avesse anche deteriorata, di far promettere all'attore di non agire successivamente con l'actio legis Aquiliae. La necessità della prestazione di una apposita promessa sta peraltro ad indicare come non operasse ancora il criterio della prevenzione e dunque non fosse ancora riconosciuto come proprio dell'azione un elemento reipersecutorio. Giusto Labeone, del resto, per il caso della rottura di una botte da parte del muratore incaricato di intonacarla, che avesse comportato la fuoriuscita del vino, risolveva la questione del risarcimento del valore del vino perduto ricorrendo ad un discorso di causalità mediata, suggerendo pertanto la concessione di un'actio in factum. (D.9,2,27,35).
Il passaggio decisivo è comunque l'emersione del criterio che ebbi a definire come del "prezzo formale". D.9,2,37,1, passo chiaramente interpolato, è emblematico di come operasse questo criterio. Non potendosi direttamente liquidare l'interesse dell'attore perché la formula non lo consentiva, si arriva ad una reinterpretazione del termine res così da ricomprendere nel suo pretium anche quelle utilità che avevano reso di maggior valore per il suo proprietario il bene distrutto o guastato. In altre parole si stimavano tutti quei commoda che la disponibilità di quel bene nella sua integrità materiale avrebbe garantito al proprietario. Punto di partenza era dunque il pretium corporis a cui si aggiungeva una entità che le fonti classiche indicavano come causa rei e che rappresentava il valore ulteriore che quel bene aveva per il suo proprietario.
Il criterio innovativo di stima mirava pertanto ad una valutazione complessiva della posizione del dominus in riferimento al bene danneggiato. Si concepiva dunque il bene non più staticamente, nel suo isolamento, come era nella prospettiva legislativa, ma nell'ambito di una considerazione patrimoniale più allargata che ravvisava nel bene anche una funzione strumentale e lo considerava dinamicamente come possibile oggetto di una serie di rapporti ulteriori. A seguito di questo mutamento di prospettiva si insinuano nella valutazione del danno aquiliano, ancora peraltro attraverso lo strumento della causa rei, due entità nuove presenti con lucida consapevolezza nella esemplificazione fatta dalle fonti: quelle che saranno poi definite come lucro cessante e danno emergente. Emblematici sono i due casi scelti da Nerazio (D.9,2,23 pr.) e da Giavoleno (9,2,37,1) dell'uccisione del servo in precedenza istituito erede e dell'uccisione della cavalla responsabile di pauperies, fatto che obbligava il proprietario a pagare il danno cagionato dalla bestia anziché potersi liberare consegnando l'animale, evidentemente di minor valore e che costituiscono rispettivamente una perdita di un guadagno atteso e un esborso ulteriore, ipotesi non casualmente riassunte da Sesto Pedio insieme con quella relativa alla valutabilità del prezzo di affezione (D.35,2,63 pr.). Esempi di lucro cessante e di danno emergente sono altresì riassunti esemplarmente da Gaio con riguardo, oltre alla solita ipotesi dell'uccisione del servo erede, a quella della uccisione di un servo inserito in una compagnia di comici il cui valore sia stato deprezzato a seguito dell'illecito (Gai.3,2,2.).
La grande conquista della giurisprudenza di questo periodo appare dunque quella di porre ad oggetto della aestimatio aquiliana il danno subito dal dominus rei, pur con il vincolo del plurimi e della retrodatazione e con l'obbligo di valutare comunque il pretium corporis. Ciò è espresso con grande efficacia da Gaio. Il danno dunque da presupposto dell'azione è diventato oggetto della stima giudiziale. Ritengo fra l'altro che già per Gaio l'azione aquiliana, ancorchè esercitata per il simplum,fosse considerata di natura mista: e penale e reipersecutoria. Potrebbe non essere nemmeno un caso che almeno nella redazione definitiva dell'editto l'actio legis Aquiliae risulti affiancata alla reivindicatio e alle altre azioni reipersecutorie poste a tutela di diritti reali, nella sezione dell'editto dedicata a quelle cose quae cuiusque in bonis sunt, con un significaivo spostamentorispetto ad altre azioni penali come l'actio furti e l'actio vi bonorum raptorum. E' altresìindicativo della novità di un tale accostamento, il fatto che invece, nelle trattazioni di ius civile, la materia aquiliana seguiva quella del furto, in ossequio con quella che era l'impostazione originaria schiettamente penale del rimedio.
Impostasi l'idea che l'azione aquiliana mirava in primo luogo a risarcire il danno cagionato dall'illecito, era d'altro canto ben vivo nella giurisprudenza classica il convincimento che i danni fossero idoneamente risarcibili solo con l'attribuzione di un valore equivalente all'id quod interest. Non è un caso che un giurista come Ulpiano accosti criterio dell'id quod interest ed aestimatio damni, intendendo il primo come strumento per realizzare la seconda.
Quali che siano state le motivazioni, ho già ritenuto verosimile in altra sede la genuinità delle fonti tardo-classiche laddove giungono a concepire come criterio di stima direttamente quello dell'interesse. In perfetta coerenza con questa evoluzione Paolo concludeva che: "in lege Aquilia damnum consequimur: et amisisse dicemur, quod aut consequi potuimus aut erogare cogimur" (D.9,2,33 pr.).
L'azione aquiliana da strumento a difesa della proprietà mirava dunque ora in primo luogo a reintegrare il patrimonio: l'oggetto dell'azione era ormai innanzitutto il risarcimento di una perdita subita. Alla luce di tutto ciò il principio dell'interesse appare proprio come quello volto a calcolare la complessiva differenza patrimoniale, cioè la differenza tra quella che sarebbe stata la situazione patrimoniale del danneggiato senza l'illecito e la situazione determinatasi a causa di esso.
Appare dunque coerente con questa impostazione e con la concezione, già di età antoniniana, dell'azione aquiliana come azione mista, l'affermarsi fin da Gaio del criterio della prevenzione per le ipotesi di concorso con azioni contrattuali come l'actio pigneraticia, l'actio commodati, l'actio depositi, l'actio locati. Risultano genuine dunque le espressioni di Paolo per cui l'actio legis Aquiliae rei persecutionem continet e ad rei persecutionem respicit. A testimonianza della progressiva depenalizzazione dell'azione aquiliana è pure indicativo il fatto che questa azione venne concessa, almeno a partire da Ulpiano, anche contro gli eredi del danneggiante nei limiti del loro arricchimento.
Si comprende quindi come Giustiniano giunga ad affermare in I.4,3,9 che l'azione si sarebbe potuta trasmettere dal lato passivo se la litis aestimatio non avesse mai superato l'entità dei danni, in altre parole se non ci fosse stato il plurimi ed eventualmente il duplum per il caso di infitiatio, il che sta a confermare che l'azione era sentita come ormai destinata al mero risarcimento del danno, eccettuata l'appendice ormai sterile discendente dalla presenza del plurimi.
I.4,6,19, del resto, dopo aver affermato che "interdum", cioè qualche volta, anche nel simplum l'azione è mista, cioè sia penale, sia reipersecutoria, aggiunge subito: "come nel caso della uccisione di un uomo zoppo o cieco che nell'anno anteriore era stato integro e di gran valore" ove dunque oltre al danno, in virtù del plurimi, si liquida una somma ulteriore. Risulta evidente, stante il collegamento tra interdum e l'applicazione del plurimi esprimente la funzione penale dell'azione, che si è ormai acquisita l'idea della mera occasionalità della funzione penale dell'azione aquiliana e nel contempo della normalità di quella reipersecutoria. Non è pertanto un caso che nonostante il divieto di esperire azioni ex delicto fra coniugi, per l'actio legis Aquiliae i compilatori abbiano mantenuto la libera esperibilità prevista per diritto classico, anche se in uno scolio ai Basilici ci si è poi sentiti in dovere di precisare che fra coniugi l'azione non si esperisce nel doppio.
I Basilici, d'altro canto chiariscono bene la funzione risarcitoria del rimedio parlando di azione destinata eis to azemion. E' inoltre significativo di quella che era ormai la chiara concezione bizantina, il fatto che in uno scoliaste tardo, l'Agioteodorita, lo schema dei delitti privati sia alterato con la eliminazione del damnum iniuria datum e l'inserimento del dolo.

La progressiva caratterizzazione dell'azione come strumento destinato alla reintegrazione di un danno patrimoniale, da una parte dovette far sorgere l'esigenza di un allargamento delle situazioni protette, dall'altra suggerì di estendere la legittimazione attiva a soggetti non proprietari che pur potevano aver subito un pregiudizio economico da un fatto del terzo avente ad oggetto beni o addirittura persone non asservite, da cui traevano o intendevano trarre una qualche forma di utilità.
E' significativo come dalle fonti sembri affiorare una contestualità cronologica fra la estensione della prospettiva risarcitoria ed il porsi, per opera degli stessi giuristi, il problema di una estensione del rimedio aquiliano a soggetti diversi dal dominus rei.
Così sappiamo che Giuliano si era chiesto espressamente se una tutela aquiliana potesse essere estesa all'usufruttuario, al commodatario, al pater per le ferite arrecate al figlio e forse per lo stesso liber homo posseduto in buona fede. Celso si era posto il problema di una eventuale tutela aquiliana del conduttore per danni cagionati da terzi.
La verosimiglianza di un quesito relativo all'esperibilità dell'azione aquiliana per il ferimento o l'uccisione del figlio di famiglia in epoca adrianea è indirettamente confermata, oltre che dalla posizione di una analoga questione in tema di actio de pauperie, anche dalla concessione, pur se nell'ambito della cognitio extra ordinem, di un risarcimento per le spese affrontate dal padre nel celebre caso relativo alla uccisione di un certo Claudio da parte di Mario Evaristo di cui in Coll.1,11,1-4.
Il fatto che la legge riservasse la legittimazione al dominus rei poteva superarsi facilmente una volta introdotto lo strumento delle azioni utili, dato che queste consentivano di presupporre, tramite l'inserimento della fictio nella formula, l'esistenza dell'elemento necessario per ius civile e qui tuttavia mancante.
Sennonché la legge presupponeva anche una aestimatio rei. Anche la rinnovata interpretazione attuata dalla giurisprudenza fra I e II sec. d.C. portava pur sempre alla liquidazione del prezzo del bene danneggiato di cui comnque il corpus -e cioè quella entità su cui si doveva comunque svolgere l'azione lesiva- costituiva una entità irrinunciabile, ancorchè non più esclusiva. Dati questi presupposti non era possibile concepire una legittimazione ad agire in favore di figure come il pater familias o il liber homo posseduto in buona fede: per principio radicato in diritto romano infatti liberum corpus non recipit aestimationem. Per quanto concerne poi le ipotesi relative all'usufruttuario, al creditore pignoratizio, al titolare di una servitù, al commodatarioche lamentasse danni propri, se è pur vero che in questi casi l'oggetto leso era suscettibile di un valore commerciale, è anche vero però che le pretese di questi soggetti non andavano al pretium della res danneggiata, ma ad un valore diverso.
Un conto è infatti il valore del credito o la somma capitalizzata dei frutti che si sarebbero potuti percepire, un altro è invece il valore di mercato del corpus aumentato di quello eventuale della causa rei. La liquidazione del prezzo del corpus come valore essenziale era anzi una condizione ritenuta indispensabile ancora da Giuliano, come indica D.9,2,23,2, passo interpolato dai giustinianei. In questa ottica i frutti, per esempio, lungi dal rappresentare il pretium rei ne costituivano piuttosto una parte. Come si è giustamente sottolineato (De Robertis) a proposito dell'actio furti, attribuendo all'usufruttuario, ma così anche al commodatario o al creditore pignoratizio, l'intero valore della cosa, si sarebbe andati oltre i limiti del loro diritto. Oltretutto, posto che il proprietario conservava il diritto di agire ex lege Aquilia per il maggior valore del bene, una soluzione di questo tipo doveva venir giudicata iniqua dalla stessa giurisprudenza classica, come indica fra l'altro D.9,2,30,1.
Non è peraltro da escludere che già giuristi di età anteriore a quella dei Severi, tra cui Celso e magari lo stesso Giuliano, riconoscessero in alcune circostanze una qualche protezione in favore del danneggiato non proprietario suggerendo la concessione di actiones in factum. E' questa per esempio la soluzione che sembra affiorare da D.9,2,27,14 dove pare affiorare fra l'altro la tutela del credito, in specie relativo ad un rapporto di locatio-conductio.
Una volta sostituito il criterio dell'id quod interest a quello dell'aestimatio rei la prospettiva cambiava radicalmente. Dopo aver riconosciuto infatti che l'azione aquiliana poteva condurre a liquidare una somma corrispondente a quanti interfuit nostra servum (etc.) non esse occisum (ma anche vulneratum etc.) non sussistevano ostacoli per estendere la tutela ex lege Aquilia con lo strumento delle azioni utili anche a non proprietari.
Significativamente la protezione dell'ususfruttuario sarebbe stata riconosciuta per la prima volta da Ulpiano e da Paolo. Ulpiano riconosce la protezione del possessore di buona fede. Ancora a Paolo e Ulpiano rimonterebbe la protezione aquiliana in favore del padre per le lesioni arrecate al figlio, laddove non fosse possibile esperire l'actio iniuriarum. In questa ipotesi si condannava il danneggiante al pagamento delle spese mediche affrontate per la guarigione del figlio e della somma corrispondente al guadagno che il giovane avrebbe in futuro presuntivamente conseguito ex operis suis in assenza della mutilazione e che sarebbe pertanto andato a beneficio del patrimonio paterno . Sempre Ulpiano avrebbe ammesso la possibilità di una tutela del titolare di una servitù di acquedotto, mentre Paolo avrebbe riconosciuto la possibilità per il creditore pignoratizio di ottenere la condanna del danneggiante nei limiti del valore del credito, ancorchè questo fosse inferiore al pretium rei, consentendo altresì al dominus di agire con l'actio directa per il residuo.
E'anche possibile che Ulpiano abbia concesso per la prima volta una tutela in via utile in favore del commodatario.
Analogamente Ulpiano pare essere stato il primo giurista ad aver esteso la tutela aquiliana in via utile al liber homo posseduto in buona fede.
La estensione della tutela ai non proprietari apare quindi coerente con la trasformazione del rimedio aquiliano da azione volta a proteggere la proprietà a strumento per una più ampia protezione del patrimonio.

Con Giustiniano, dunque, a conclusione di un lungo processo evolutivo, la tutela aquiliana presuppone la causazione di un danno patrimoniale arrecato al proprietario, al possessore di buona fede, al titolare di diritti reali, alla persona libera, e, quantomeno a seguito dell'esperibilità di un'actio in factum, al titolare di un diritto di credito. L'azione è destinata in via tendenziale al risarcimento del danno emergente e del lucro cessante. Grazie allo strumento dell'actio in factum, che viene ricondotta nell'ambito aquiliano, ci si avvia verso il superamento dlla tipicità dei fatti rilevanti: quantomeno come linea di tendenza qualunque fatto che abbia cagionato un danno al patrimonio è idoneo a dar vita ad un'azione di risarcimento. Piuttosto la persistenza in sede privata di azioni come l'actio furti, l'actio iniuriarum, l'actio de effusis vel deiectis( , l'actio de pauperie , era ancora un forte limite alla conquista della atipicità ed alla costruzione di una categoria unitaria del fatto illecito. Le offese all'onore o i furti che di per sé avessero causato un danno patrimoniale non rilevavano infatti autonomamente in via aquiliana. Non erano peraltro ancora risarcibili i danni derivanti dalla uccisione di una persona libera per la incapacità di individuare un soggetto a cui attribuire la titolarità dell'azione.

Uno degli aspetti che caratterizzano l'evoluzione dell'actio legis Aquiliae nel periodo del diritto intermedio, già fin dai glossatori , è la tendenza verso una sempre più ampia applicazione del rimedio, verso cioè il definitivo superamento della tipicità delle fattispecie di danno, secondo un processo che, in conformità ad una tendenza già ben evidente nelle fonti romane e in particolare in quelle giustinianee, porta alla generalizzazione dell'azione aquiliana.
Così Rogerio e Azone ritengono si possa esperire l'actio legis Aquiliae, seppur in via utile, anche nelle ipotesi di uccisione della persona libera, adducendo che se è vero che non si può stimare la persona libera morta, tuttavia dalla uccisione possono conseguire altri danni per i congiunti . Guglielmo Duranti ritiene ormai pacifica l'esperibilità dell'azione di danno in favore degli eredi, chè, se anche non vi fossero state spese, si sarebbe comunque potuto agire per i guadagni derivanti da quella attività lavorativa che l'ucciso avrebbe potuto svolgere sino al tempo in cui era verosimile attendersi che sarebbe vissuto.
Accursio, commentando l'actio in factum di cui in D.9,2,33,1, richiama la funzione dell'actio praescriptis verbis che, come è noto, aveva contribuito a rompere la tipicità in ambito contrattuale.
Ancora più notevole è l'allargamento dell'ambito applicativo dell'azione aquiliana presso i commentatori . Il rispetto delle fonti romane è conservato tramite il ricorso alla solita actio in factum. Interessante è a questo proposito il parallelismo che Bartolo, sulla linea di quanto già evidenziato da Accursio, istituisce tra l'actio in factum quae oritur ex contractu e cioè l'actio praescriptis verbis e l'actio in factum ex delicto , come la definisce lui, con funzione integrativa per le ipotesi di danno aquiliano. Degno di nota è fra l'altro il fatto che per la prima volta si parli di actio ex delicto: grazie a quest'actio in factum ed alla sua portata generale sembrano dunque porsi le premesse per una costruzione unitaria del delictum, inteso qui genericamente come fatto illecito. Prendendo spunto dall'impiego in via utile dell'actio legis Aquiliae Baldo parla espressamente di due funzioni dell'azione: una destinata a risarcire il danno, l'altra alla restituzione in pristino .
Anche nella giurisprudenza dei tribunali il rimedio aquiliano assume sempre più una portata generale che consente fra l'altro di aggiungere alla funzione risarcitoria una eventuale funzione di restituzione. La funzione anche restitutoria dell'azione è affermata per esempio in una decisione della Rota romana a proposito di monili dati in uso alla moglie e da questa portati con sé. E' evidente che in ipotesi siffatte non vi è più alcun rapporto con il danneggiamento materiale di un bene.
Sempre come conseguenza dell'applicazione ormai generale dell'actio legis Aquiliae, nella giurisprudenza dei tribunali si riscontra addirittura il superamento del requisito della patrimonialità del danno. Una decisione del 1653 riferita dal Mevio concede l'azione per i danni morali cagionati al padre per l'uccisione del figlio.
E' interessante a questo punto notare come non solo si fosse ormai acquisita la atipicità dell'illecito aquiliano, ma ci si avviasse verso una nozione generale di danno, idonea a ricomprendere anche le sofferenze fisiche e morali. Anzi è evidente dalle fonti come i due fenomeni procedano parallelamente. Del resto già Sesto Pedio implicitamente si poneva il problema delle affectiones che erano il termine di valutazione del danno morale all'interno di un sistema che partiva dalla aestimatio rei.
Alla accennata evoluzione ritengo abbia comunque contribuito in maniera decisiva la considerazione dell'azione aquiliana come rimedio ex delicto per eccellenza. Sviluppando uno spunto che era già in Bartolo, fra gli interpreti del diritto comune si afferma infatti la tendenza a non considerare l'azione aquiliana come uno strumento destinato a colpire una ipotesi specifica, il danneggiamento, bensì come l'actio ex delicto, con cioè una posizione di preminenza di fronte a tutte le altre singole azioni nascenti da un illecito e quindi esperibile elettivamente in luogo di una qualsiasi altra azione speciale. Stando al Boehmer si ricava che nella pratica dei tribunali il rimedio si esperirebbe ovunque si tratti di conseguire un risarcimento. Tutto questo significa che l'azione aquiliana è ormai azione generale anche nei confronti, per esempio, di un'azione come l'actio iniuriarum, che nel diritto romano era destinata proprio a ristorare le offese morali.
Il fenomeno ha carattere generale: il Molineo attesta che anche in Francia l'azione di danno è l'azione più frequentemente applicata. Lo Stryck le riconosce la funzione di riparare "ogni danno". E' ancora grazie all'artifizio dell'actio in factum, peraltro ormai pacificamente definita come legis Aquiliae, che il Westenberg accorda una protezione "ogni qualvolta risulti equo che competa un rimedio per un danno".
E' ormai presente l'idea di una figura generale di illecito sanzionata con l'actio legis Aquiliae. Il Muehlenbruck parla espressamente di iniuria nel senso ormai di fatto illecito anche se poi riserva l'actio legis Aquiliae ai casi di iniuria colposa, mentre per le ipotesi dolose suggerisce l'uso dell'actio doli.
Il terreno era dunque pronto per l'evoluzione conclusiva fatta dai cultori del diritto naturale.
Qui si trova finalmente affermato in modo esplicito e come principio generale che "il fatto illecito come tale genera l'obbligazione al risarcimento del danno da esso cagionato". Come ha ben visto il Rotondi, "una figura generale di responsabilità ex maleficio diretta al puro risarcimento si sostituisce o si sovrappone alle figure singole a cui le fonti romane riconnettono le singole obbligazioni, con funzione, non sempre, di risarcimento, ma con natura sempre penale".
Fra queste "figure singole" ora ricomprese nella figura generale di responsabilità ex maleficio vi era pure quella punita con l'actio iniuriarum e ciò non è senza significato per quella concezione amplissima di danno che caratterizzerà poi le successive codificazioni. Si rifletta al proposito sul concetto generalissimo che per il Grozio assume il termine damnum, che appunto contempla fra l'altro ogni lesione al corpo, alla reputazione, al pudore della persona, ove è chiara dunque la conseguenza di ricomprendere anche quelle fattispecie che trovavano una sanzione nell'actio iniuriarum. Proprio il Grozio considera il damnum iniuria datum come la fonte unica e generale delle obbligazioni da fatto illecito: per questo aspetto la bipartizione originaria delle fonti di obbligazione pare ora strutturarsi attorno a contratto, da una parte, e danno aquiliano, dall'altra.
Un altro autore che ebbe un'influenza notevole nella formazione della cultura giuridica del XVIII secolo, l'Eineccius, giunge ad affermare che dal principio generale di uguaglianza fra gli uomini discenderebbe l'obbligo al reciproco amore, da cui, a sua volta, l'obligatio di neminem laedere. In particolare laedere significherebbe rendere l'altro più infelice; le lesioni possono essere pertanto cagionate sia al corpo che allo spirito, arrecate non solo con azioni, ma anche con parole. E' inoltre principio conforme al diritto naturale che colui che abbia determinato un danno lo debba riparare; a questo proposito la satisfactio, cioè la riparazione del danno, sarebbe per l'Eineccius "praestatio eius quod lex a laedente exigit", il risarcimento pertanto di quelle lesioni corporali o spirituali: il danno consisterebbe quindi anche nella sofferenza.
Riassumendo dunque, risponde ad una esigenza "generalissima" del diritto naturale, come ebbe a scrivere il Rotondi, che ovunque vi sia lesione giuridicamente rilevante lì l'azione aquiliana può essere applicata.

Dati questi presupposti appare naturale ritrovare nella prima vera codificazione settecentesca, il codice prussiano , la comparsa ufficiale del fatto illecito ("unerlaubte Handlungen") come fonte generale dell'obbligo al risarcimento; nel contempo il danno è inteso genericamente come un peggioramento della condizione di una persona quanto al corpo, alla libertà, all'onore, ai beni.
Anche il codice austriaco, fin dal progetto pubblicato nel 1767, prevedeva un capo intitolato "Von den Verschulden" dove Verschulden è qualsiasi atto od omissione che violi un dovere giuridico verso altri. Nella redazione definitiva del 1811 il capo trentesimo della parte seconda fu genericamente intitolato, con significativa variazione, "Von dem Rechte des Schadenersatzes" a cui proprio lo Zeiller volle aggiungere il riferimento alla riparazione morale, la "Genugthuung", per i cosiddetti danni immateriali. Il titolo si spostava dunque dalla fonte dell'obbligazione all'oggetto dell'obbligo riparatorio. Danno è così (par.1293) ogni pregiudizio che qualcuno abbia subito al patrimonio, ai propri diritti o alla sua persona.
Egualmente interessante è constatare nel Trattato sulle obbligazioni del Pothier l'ormai pacifica acquisizione dell'ampia portata della figura di delitto, identificato come quel fatto con il quale una persona per dolo o per malizia reca qualche danno o ingiuria ad alcuno. Si arriva così alla formula generalissima dell'art.1382 del codice Napoleone: "Tout fait quelconque de l'homme, qui cause à autrui un dommage, oblige celui par la faute duquel il est arrivé, à le réparer". Questo articolo venne poi tradotto letteralmente diventando l'art.1151 del codice civile italiano del 1865: "Qualunque fatto dell'uomo che arreca danno ad altri, obbliga quello per colpa del quale è avvenuto, a risarcire il danno". Come si legge nei lavori preparatori, la disposizione prevista dal codice francese "embrasse dans sa latitude tous les genres de dommages". Alla luce di una formulazione così generale la successiva giurisprudenza francese con un indirizzo decisamente prevalente ha finito con il ricomprendere nella definizione di "qualunque danno" anche il cosiddetto danno morale. Ciò risulta del resto in perfetta sintonia con le caratteristiche che l'azione aquiliana aveva assunto nel corso dei secoli come azione generale valida per qualsiasi tipo di illecito sanzionato civilmente e dunque comprensiva anche delle ipotesi già rientranti nella sfera dell'actio iniuriarum. Era dunque ben giustificata quella dottrina e quella giurisprudenza che anche in Italia, contro la strenua opposizione di civilisti come il Chironi, riteneva che il danno non dovesse consistere necessariamente in una diminuzione del patrimonio, ma potesse avere anche le caratteristiche del danno morale.
Cosa si intendesse per danno morale lo chiariva bene il Ferrini: riguarda sia le "afflizioni psicologiche sia quello che colpisce le cose materiali appartenenti all'individuo come la salute, l'integrità e l'aspetto della persona ancorché non formanti parte del suo patrimonio". Non accettabile, alla luce della generalità dell'indirizzo sottolineato, appare peraltro il tentativo dello stesso Ferrini di limitare la riparazione del danno morale escludendo quei beni di natura essenzialmente soggettiva, "che non sono apprezzati da tutti gli uomini normali e sempre poi sono apprezzati in modo diversissimo". Proprio questo era semmai il risultato a cui portava l'applicazione dell'actio iniuriarum che presupponeva addirittura una stima soggettiva da parte dell'offeso e questa è d'altro canto la ratio che impone la riparazione delle sofferenze psicologiche. La limitazione della stima del danno morale appare infine in contrasto con la più generale acquisizione di un criterio soggettivo di stima quale è appunto quello dell'interesse.
La riparazione del danno morale venne fra l'altro prevista anche dagli altri codici approvati nei decenni immediatamente successivi che avevano risentito dello stesso processo culturale. Così infatti il codice svizzero nell'art.47 parla espressamente di riparazione morale conseguente alla morte o al ferimento di una persona e il BGB, dopo aver precisato nel paragrafo 823 che il risarcimento del danno consegue alla illecita e colpevole violazione della vita, dell'integrità fisica, della salute, della libertà, della proprietà o di un altro altrui diritto, al paragrafo 847 contempla espressamente il cosiddetto "Schmerzengeld" e specificamente nei casi di lesione corporale o di danni alla salute o di privazione della libertà così come, per una donna, nei casi di offese alla sua moralità. E' la trasposizione dell'actio iniuriarum all'interno del damnum iniuria datum secondo un processo evolutivo plurisecolare iniziato peraltro già in età romana.

E veniamo così al codice vigente. La riforma del 1942 venne anticipata dal progetto italo-francese del codice delle obbligazioni e dei contratti, il cui testo definitivo era stato approvato a Parigi nell'ottobre 1927. In questo progetto si era fra l'altro risolta affermativamente la "vessatissima questione" del risarcimento dei danni morali, intendendosi per danno morale quello che "in nessun modo tocca il patrimonio, ma arreca solo un dolore morale alle vittime".
Rispetto al codice del 1865 in quello del 1942, per l'aspetto che a noi qui interessa , se da una parte si ribadisce la atipicità dell'illecito aquiliano, dall'altra si richiede esplicitamente il carattere ingiusto del danno, che deve dunque consistere nella violazione di una posizione giuridica protetta. Si sopprime inoltre la categoria dei delitti e dei quasi delitti. Ciò significa anche sottolineare il carattere ormai puramente e pienamente risarcitorio del rimedio aquiliano.
In linea con la finalità della norma volta a ristabilire ovunque la posizione giuridica violata e quindi ad allargare il più possibile la sfera risarcitoria, appare dunque l'indirizzo giurisprudenziale che ha esteso il risarcimento ai danni al credito cagionati da terzi. Si tratta di una prospettiva già presente nelle stesse fonti romane e ricomprensibile altresì nella amplissima enunciazione prevista dal codice francese e da quello italiano del 1865, in cui, come fu a suo tempo sottolineato, sarebbe stato possibile persino far rientrare i danni contrattuali solo che non fossero stati espressamente disciplinati in via separata.
Così come perfettamente coerente con l'indirizzo accolto nel nostro codice appare il più recente orientamento giurisprudenziale che estende l'azione risarcitoria ai danni alla salute, al danno esistenziale e alla lesione di interessi legittimi.
Un deciso passo indietro rispetto alla formulazione contemplata nel progetto del '27 e alla stessa evoluzione giurisprudenziale conseguente al codice del 1865 appare invece la norma prevista dall'art.2059 in tema di risarcimento dei danni morali. Se nel progetto italo-francese essi erano risarciti senza alcun limite ("tutti i danni morali"), proprio in ottemperanza a quel principio di allargamento della prospettiva risarcitoria già implicito nello stesso accoglimento dell'actio iniuriarum nella generale azione di danni, attuatosi tra diritto comune e diritto naturale, la resistenza della giurisprudenza ha portato ad un arretramento . Il risarcimento dei danni non patrimoniali, terminologia che allude, come chiarisce il confronto con l'art.85 del progetto del '27, ai danni morali, è stato così limitato alle ipotesi previste dalla legge e dunque, nei fatti, ai soli casi di reato.
Peraltro in linea con una tendenza evolutiva plurisecolare la giurisprudenza ha in parte aggirato il blocco costituito dall'art.2059 ricorrendo al concetto di danno biologico e di danno esistenziale.

In conclusione, nel corso di uno sviluppo durato più di due millenni l'azione aquiliana è passata da azione posta a tutela della proprietà, ad azione finalizzata ad una più ampia tutela del patrimonio per finire ad essere quella che è oggi: un'azione posta a tutela della persona in tutte le sue possibili esplicazioni, contro lesioni alla sua sfera di interessi. Era questa già la prospettiva a cui tendevano il codice civile austriaco (par.1293) e il codice tedesco (par.823): nel primo si legge infatti che danno è ogni pregiudizio arrecato al patrimonio, ai diritti, o alla persona; nel secondo il danno può conseguire ad una violazione della vita, del corpo, della salute, della libertà, della proprietà o di un altro diritto.
Si richiama la prospettiva del più antico diritto romano in cui l'atto non giustificato per eccellenza (l'iniuria delle XII Tavole), fonte di un obbligo di natura privata, era quello diretto contro la persona。

GIUSEPPE VALDITARA, Ordinario di Istituzioni di diritto romano, Torino

发布时间:2008-12-26  
 

Centro di studio del diritto romano e italiano presso Universita
della Cina di scienze politiche e giurisprudenza
京ICP备05005746 Telefono:010-58908544 Fax:010-58908544 技术支持:西安博达软件股份有限公司