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LUIGI LABRUNA: Qualche riflessione sul possesso in diritto romano e sulle forme giuridiche della sua tutela
Qualche riflessione sul possesso in diritto romano
e sulle forme giuridiche della sua tutela

Prof. Luigi Labruna

(Facoltà di Giurisprudenza Università di Napoli Federico II)
L’interazione ormai più che decennale tra gruppi di ricerca di giuristi cinesi ed europei nell’ambito delle prospettive della codificazione civilistica ha dato fino ad ora risultati significativi. Ed ha consentito l’articolarsi di risposte - non occasionali né improvvisate ma consapevoli storicamente e dogmaticamente - alle esigenze di un nuovo modo di organizzarsi della società di questo grande Paese che ci ospita. In rapporto ai bisogni esistenti in una realtà straordinariamente complessa ed importante, per il concorrere e l’intrecciarsi di variegate specificità strutturali, etniche, mentali, culturali, scaturenti da un processo di civilizzazione più volte millenario, ed ora dinamicamente protesa, con profonda consapevolezza, in uno sforzo di grande trasformazione, per l’adeguamento di istituti e principi tradizionali alla logica della costruzione di un ordinamento giuridico che - certo, stabile, tecnicamente idoneo, sicuro, rassicurante - favorisca la modernizzazione, non solo economica, del sistema, e dia risposte concrete alle domande di giustizia.
Ed è significativo che – in controtendenza rispetto ad altre realtà in sviluppo – la Cina, per condividere e sviluppare questa importantissima progettualità sociale, si rivolga in primo luogo ai giuristi dei sistemi romanistici, non a quelli del Common Law. Come ciascuno può facilmente intendere, questo piano di lavoro, che s’impegna nel coinvolgimento della scienza giuridica, specialmente nelle attuali contingenze, è còmpito di grande interesse e responsabilità, da anni indicato come prioritario e seguito da un ampio gruppo di studiosi, di cui più volte si è fatta voce in un trentennio Index, la rivista di cui sono responsabile e a cui molti fra i Colleghi presenti, in particolare il presidente onorario del ‘Centro di Studi di diritto romano dell’Università della Cina’, professore Jiang Ping, il professore Huang Feng, la professoressa Fei Anling e l’animatore e dominus italiano di questi nostri incontri, Sandro Schipani con i suoi allievi, hanno autorevolmente più volte e in vario modo collaborato.
Nel sistema del diritto civile le cose (le res) assumono centralità rilevantissima, come uno dei più importanti punti di riferimento dell’esplicarsi materiale dell’attività dell’uomo. Addirittura, più che fondamentali sono stati indicati come «fondanti» il sistema giuridico da una autorevole, recente, non indiscussa posizione scientifica (Bretone). L’introduzione nell’ordinamento della Repubblica Popolare Cinese della nuova ‘Legge sui diritti reali’, ora in bozza, porta una serie di dati nuovi, significativi per l’intrecciarsi dell’esperienza giuridica di questo Paese con i concetti occidentali fortemente caratterizzati dalla matrice romanistica. In essa l’uso di categorie dommatiche di chiara derivazione pandettistica (e dunque romanistica) appare decisamente radicato. Ma già con l’introduzione, qualche anno fa, del sistema dell’‘appalto’ delle terre da coltivare alle famiglie contadine era nata la necessità di creare un sistema giuridico tale da rendere nitida la distinzione tra il diritto alla proprietà della terra (in via di principio collettivo) dal diritto all’uso della stessa. Ciò con importanti ricadute sulle riforme nelle aree urbane, sull’ampliamento delle capacità giuridiche delle imprese statali (con il diritto alla proprietà dei beni dello Stato nelle imprese statali destinato a continuare a spettare allo Stato, mentre il diritto al loro sfruttamento rimane nelle mani delle stesse imprese) e sui maggiori spazi consentiti all’iniziativa ed ai diritti dei privati.
Anche di questi argomenti, dell’essenza di un sistema bipolare che risiede nella distinzione del diritto alla proprietà dalle facoltà che competono in base ad essa, discutemmo insieme, giuristi cinesi ed europei, nel Congresso internazionale, per me indimenticabile, che si svolse, sempre qui a Pechino, nell’ottobre del 1994 su ‘Diritto romano, diritto cinese e codificazione del diritto cinese’, primo di questa nostra serie. Se questa teoria è divenuta un tema importante ed attuale nello studio e nella ricerca nel campo del diritto civile ed economico oggi in Cina si può verificare attraverso l’articolato della nuova ‘Legge sui diritti reali’, che nel Libro secondo, al titolo quinto, prevede e distingue la proprietà statale, quella collettiva e quella privata (agli artt. 50-72) e segue la traccia profonda del diritto romano e della sua tradizione, affiancando al concetto della proprietà quello del possesso, trattato nel Libro quinto al titolo 20. E certamente la ratio romana (voglio pensare anche attraverso il lavoro comune sviluppato in questi anni) traluce vivida nella definizione dell’istituto, inserita nelle disposizioni supplementari, all’art. 266, comma 7, in questi termini: «Per ‘possesso’ si indica il controllo effettivo del possessore sul bene mobile o sull’immobile». È evidente che per soddisfare e tutelare le esigenze emergenti dal nuovo modo di organizzarsi della società cinese all’interno di una evoluzione del processo economico che, con una crescita impetuosa, accelerata dagli ultimi anni di riforme, va speditamente in direzione del consolidamento di quello che è un innovativo sistema di bilanciamento tra pubblico e privato, uno degli schemi giuridici utilizzabili è (non può non essere) quello proprietario. Impiegato, naturalmente, tenendo ben conto del negativo e del positivo delle esperienze storiche particolari, il cui ricordo rimane inciso nella memoria sociale e al fondo persiste nonostante le vicissitudini delle mutazioni o degli sconvolgimenti politici. E ben valutando come non sempre sia importante o decisiva la formale e legale proprietà, quanto, piuttosto, il controllo (pubblico, collettivo, privato), ‘effettivo’ insomma (come recita la ‘Bozza’ citata), dei mezzi di produzione e degli altri beni essenziali. Lo schema proprietario va, dunque, utilizzato, con tutti i necessari adeguamenti alle odierne realtà delle sue specifiche tradizionali connotazioni di diritto esclusivo, personale ed elastico di dominio delle cose. Con l’ampia gamma di compressioni o limitazioni dettate dalle singole variabili esigenze contingenti.
Proprio in tale ottica dieci anni fa auspicavo, nella relazione che pronunciai qui a Pechino, una «più esplicita, attenzione rivolta anche alle concezioni romane della possessio». Ciò «anche ai fini di una duttile e rapida valutazione e tutela delle più diverse situazioni di disponibilità e appartenenza». Non v’è dubbio che – anche su questo punto – molta parte di una strada ardua è stata percorsa. Ben tendendo presente, naturalmente, che ulteriori dubbi e difficoltà debbono esser affrontati e superati se è vero che anche in un’esperienza codicistica come quella italiana vi è ancora estrema difficoltà, oggi, ad oltre sessant’anni dall’approvazione del Codice civile del 1942 (che regola la materia al titolo VIII del terzo libro, agli articoli 1140-1170), ad elaborare una pacifica e pienamente condivisa teoria giuridica in grado di formalizzare in modo unitario le situazioni originate da una relazione di ordine materiale tra una persona ed una cosa, a determinare con limpidità il concetto e la struttura del possesso (o, meglio, dei possessi), qualificandone l’esercizio ed esplicitandone in modo chiaro il fondamento della tutela. E ciò nonostante che nel Codice civile vigente - diversamente da quanto previsto in quello del 1865, in cui la nozione di «possesso» era espressa più genericamente in termini di «detenzione di una cosa o godimento di un diritto che uno ha per se stesso o per mezzo di un altro, il quale detenga o eserciti il diritto in nome di lui» - venga reso esplicito non solo il sottile rapporto che esiste tra un’indeterminata ed atecnica situazione di fatto e la messa in opera di una formale situazione di diritto, individuato sulla base empirica della sua concreta «manifestazione», ma combinando il generico potere sulla cosa con lo specifico suo esteriorizzarsi in una attività «corrispondente all’esercizio di un diritto reale» («il possesso – recita infatti testualmente l’art. 1140, co 1, del vigente nostro Codice civile - è il potere sulla cosa che si manifesta in un’attività corrispondente all’esercizio della proprietà o di altro diritto reale»).
Anche per questo è, forse, non inutile riprendere ed integrare le considerazioni che proprio qui sottoposi alla vostra attenzione or è un decennio, per tornare a quel grande tesoro della giurisprudenza romana – non immune, com’è ovvio, anch’essa, nonostante stereotipate enunciazioni, da influenze politiche, economiche, ideologiche – per riverificare insieme gli aspetti salienti della storia e dei dommi relativi al possesso o, per meglio dire, alle possessiones.
Con il termine possessio si indica, nel corso dell’evoluzione storica del diritto di Roma antica una situazione di preminenza materiale in cui si trova un soggetto in ordine ad una cosa concreta di cui ha la fisica disponibilità con esclusione di qualsiasi altro. Il possesso classico ha per oggetto le sole cose corporali: «possideri autem possunt, quae sunt corporalia», scriveva Paolo, giurista dell’età dei Severi, nel 54o libro del suo commentario edittale (D. 41.2.3 pr.). Solo più tardi sarà ammessa una quasi possessio, sulle cose incorporali, con riferimento specifico alla situazione di chi esercita di fatto sulla cosa un diritto reale limitato senza che si tenga conto del fatto che egli ne sia o meno titolare (Gai 4.139; Ulp. in D. 43.16.3.17). Secondo l’etimologia comunemente ammessa, possidere deriva da una radice (pot-), comune a vocaboli quali potis, posse, potestas, a indicare appunto una nozione di «potere», e dal verbo sedere, inteso nel senso di «stare su», «insistere materialmente». La rilevanza giuridica di tale preminenza, o disponibilità materiale o signoria di fatto, è diversa e muta a seconda delle circostanze, delle epoche, dell’oggetto. E — da un certo periodo in poi — anche a seconda che colui che insiste sulla cosa da signore lo faccia con l’animus, l’intenzione, di avere un proprio potere e conservare la cosa per sé (rem sibi habendi), oppure no. Solo nel primo caso si parlerà di possesso in senso giuridico e stretto: possessio iuris civilis, contrapposta ad una cd. possessio naturalis, detta anche semplice «detenzione» (detentio), provvista (lo vedremo) di una molto più flebile tutela.
Nel linguaggio giuridico della fase più antica della storia di Roma repubblicana il termine possessio fu impiegato per indicare la situazione di privati — di fatto appartenenti quasi esclusivamente ai ceti egemoni — che esercitavano in vario modo un ampio potere di utilizzazione e sfruttamento delle terre che, per essere considerate appartenenti nei tempi più antichi all’intera collettività gentilizia e quindi, in età storica, a tutto il populus Romanus, non erano (e non potevano essere, proprio perché formalmente «pubbliche») oggetto di proprietà privata (mancipium, poi dominium). Come è noto, sconfitta la Lega latina, verso la metà del quarto secolo a.C., Roma intraprese una decisa politica espansionistica allargando sempre più la sua sfera di influenza e la sua concreta supremazia, sì da giungere ben presto a governare in varie forme, già alla fine del terzo secolo — cioè ben prima dell’inizio della fase più spinta del suo imperialismo - quasi tutta la penisola appenninica, la Sicilia, la Sardegna, la Corsica, oltre alle coste della Spagna e ad alcuni distretti greci. L’organizzazione del dominio romano sulle regioni ed i popoli sottomessi non seguiva schemi rigidi, ma si realizzava utilizzando abilmente strumenti giuridici e diplomatici diversi a seconda delle esigenze contingenti, delle condizioni economiche e politiche, strategiche. Abbastanza rare furono le volte in cui le comunità soggiogate furono private interamente delle loro terre. In molti casi solo una parte del territorio già abitato da popolazioni ostili veniva confiscato. La terra in tal modo acquistata era distribuita, secondo le circostanze, in piena proprietà a cittadini romani (ager privatus, viritanus) ovvero restava nella condizione di ager publicus. Quest’ultima era durante la Repubblica, la destinazione prevalente; tanto che le fonti usano come sinonime le espressioni ager ex hostibus captus, cioè tolto ai nemici, ager occupatorius, nel senso primitivo di «occupato dal vincitore», ed ager publicus (populi Romani), cioè passato nel dominio del popolo romano ed amministrato quindi dal Senato che ne decideva e regolava il tipo di utilizzazione, eventualmente anche deducendovi «colonie», latine o di propri cittadini (cd. ager colonicus). In genere Roma consentiva che le terre non utilizzate così (ed erano le più) fossero occupate, senza alcun corrispettivo, da chi, fra i propri cittadini potesse sfruttarle. Si parlava allora di ager occupatorius in senso ben diverso da quello che abbiamo visto: in una prospettiva, cioè, che sottolineava la disponibilità di quelle terre (possessiones) ad essere occupate da privati, che ne diventavano così «possessori». Ne acquistavano cioè il pieno godimento, ben presto considerato addirittura trasmissibile tra vivi e anche mortis causa ai propri successori, e — almeno dai primi decenni del II secolo a. C., lo vedremo — erano tutelati contro i terzi che comunque tentassero di disturbarne il possesso con degli strumenti processuali speciali, che furono detti interdetti possessori (interdicta da interdicere, cioè «vietare», «proibire»), primo fra tutti l’uti possidetis, sul quale dovremo tornare.
Queste possessiones erano, da un punto di vista giuridico, sempre revocabili. Ma, una volta ottenute — anche se in modo abusivo — si rivelavano in pratica definitive. Ne godevano, infatti, come si è detto, quasi esclusivamente gli appartenenti ai ceti egemoni, in tempi antichi i membri delle genti patrizie (ed è discusso se i plebei ne fossero esclusi giuridicamente o solo di fatto), nella libera repubblica soprattutto gli esponenti della nuova nobiltà patrizio-plebea (nobilitas). Erano questi, naturalmente, ad avere le occasioni politiche e soprattutto i mezzi economici per impadronirsi delle terre dello Stato che essi stessi gestivano e per valorizzarle investendovi anche molti capitali, in opere di dissodamento o di bonifica, in piantagioni, sementi, animali, schiavi. Ed è chiaro che, per essere remunerativi, tali investimenti esigevano sfruttamenti duraturi, ai quali i possessori non rinunciavano certo facilmente ed estensioni di terreno sempre più vaste. I possessori ampliavano perciò, sempre di più, nel modo più largo e spregiudicato, le aree occupate stabilmente in esclusiva, sino ad entrare non di rado in conflitto anche tra loro stessi. Come prova, del resto, la tradizione, che ricorda l’approvazione nel 367 a.C., nel contesto del compromesso politico che segnò la fine della lotta patrizio-plebea ed un riassetto degli equilibri politici ed istituzionali nella repubblica ormai matura, di una legge, che fissava un limite (modus) alle appropriazioni individuali di terre pubbliche, sancendo che nessun padre di famiglia ne potesse possedere più di 500 iugeri (Liv. 6.35.5: è da dire, però, che questo limite, di 125 ettari, sembra troppo alto per l’epoca). Il divieto, narrano le fonti, fu ben presto e ripetutamente violato.
Problemi analoghi, e non diversa conflittualità, creava spesso all’interno degli stessi ceti possidenti, lo sfruttamento di quella parte delle terre pubbliche che era destinata a pascolo (ager compascuus) e che lo Stato concedeva alla utilizzazione collettiva di alcune comunità ovvero a gruppi di proprietari o possessori di fondi ad esse contingui, da una certa epoca in poi (IV secolo probabilmente) dietro pagamento di un canone (scriptura) esatto dai publicani (l’ager cosi posseduto era detto scripturarius). Anche le terre pubbliche destinate a pascolo vennero sfruttate sempre più largamente dai ricchi che — in genere grandi proprietari e nello stesso tempo possessori di vaste estensioni di ager occupatorius — avevano aziende agricole, schiavi ed armenti cospicui che mandavano a pascere su quelle aree, in pratica senza limitazione alcuna. Anche rispetto allo sfruttamento dei pascoli pubblici, dunque, la situazione di conflittualità tra i vari possessori divenne ben presto preoccupante. Perciò ancora una volta nei primi decenni del II secolo avanti Cristo fu approvata una nuova, più articolata, legge limitatrice dei possessi agrari sulla quale si tornerà più avanti, perché strettamente connessa con la storia della tutela interdittale. E qui il discorso si apre — ma si deve rinviare ad altra occasione — sul problema, che stava diventando sotto molti aspetti drammatico, dell’affermarsi su larga scala del cd. latifondo schiavile, a conduzione capitalistica, che soppiantò allora in quasi tutta Italia la piccola proprietà contadina, spazzata via dalle devastazioni e dai guasti sociali provocati dalla guerra annibalica. La misura che abbiamo or ora ricordato traeva la sua ragion d’essere, infatti, da un lato dal distacco dei nuovi ceti dirigenti dal tradizionale esercizio diretto dell’agricoltura e dalle nuove esigenze organizzative dei latifondi, dall’altro dalle mutate condizioni di quello che — tramontata la vecchia schiavitù. di tipo patriarcale — era ormai considerato solo un essenziale fattore della produzione, un puro e semplice «strumento parlante» (instrumentum vocale, dicono le fonti), da sfruttare in meri termini di lucro e dal conseguente emergere della necessità politica di un più rigido controllo degli schiavi, le cui condizioni di vita rappresentavano un’ovvia premessa di quelle espressioni di disagio che sfociarono nelle successive sanguinose grandi rivolte servili. Non è un caso che contemporaneamente all’approvazione di quella legge, che tendeva ad impedire conflitti, spesso violenti, tra i vari possessori ed abusi nello sfruttamento smodato di terre pubbliche, sia stato introdotto dal pretore nell’ordinamento giuridico romano lo strumento processuale di cui abbiamo parlato: l’interdetto uti possidetis, che consisteva in un ordine perentorio, emesso appunto dal magistrato, mirante a proteggere i possessori di agri publici da molestie o spossessamenti violenti.
L’ introduzione di tale interdetto - che fu poi detto «proibitorio» giacché l’ordine del magistrato si manifestava con le parole «vim fieri veto», cioè «vieto che sia fatta violenza» – rappresenta un segno forte di una svolta nella valutazione politico-giuridica della violenza (vis) che - lo abbiamo detto – ormai sempre più di frequente si manifestava nel mondo romano (naturalmente, non solo per il controllo della terra) e quindi della conseguente reazione ordinamentale. Come è noto, infatti, nella storia del diritto romano, il concetto di vis (forza, violenza) non ebbe, alle origini, significato negativo: nei concetti di vis ac potestas (ad esempio tra le prerogative del pater familias) era insita, infatti, l’idea della esplicazione di una potestà, di una forza positiva. Fu, appunto, soltanto agli inizi del II secolo a.C., con la creazione da parte del pretore, a tutela del possesso fondiario, del nostro interdetto uti possidetis, che emerse esplicitamente la volontà pubblica di reprimere la vis individuata, per le contingenze innanzi segnalate, come elemento negativo da combattere da parte dello Stato. All’uti possidetis ed agli altri interdetti muniti della clausola «vim fieri veto» contenente il divieto esplicito di fare violenza (l’utrubi per i beni mobili, l’unde vi e poi l’interdictum de vi armata ancora per gli immobili), seguì quindi nell’ultimo secolo della repubblica, nel periodo convulso delle guerre civili, una serie di misure vòlte, in modo diretto, a combattere la violenza sia nell’ambito del diritto privato che di quello pubblico che culminò - assunto il potere da parte di Augusto - nella lex Iulia de vi publica et privata del 17, con la quale si realizzò una sorta di corpus normativo organico in cui furono individuate le nozioni di violenza pubblica e privata, si ribadì il divieto di usucapione delle res vi possessae e furono introdotte varie e nuove sanzioni.
Il testo dell’interdetto uti possidetis ci è riferito più volte, con diversi dettagli, nelle fonti. Innanzi tutto dalla glossa festina sv. «possessio», p. 260 L. (Uti nunc possidetis eum fundum quo de agitur, quod nec vi nec clam nec precario alter ab altero possidetis, ita possideatis adversus ea vim fieri veto), quindi da Ulpiano , 69 ad ed., ora in D. 43.1.7.1 pr. (Ait praetor: ‘uti eas aedes, quibus de agitur, nec vi nec clam nec precario alter ab altero possidetis, quo minus ita possideatis, vim fieri veto’) e da Gaio, 4.160, che ne riferisce il nucleo essenziale (… summa conceptio eorum interdictorum haec est: ‘uti nunc possidetis, quominus ita possideatis, vim fieri veto’; item alterius ‘utrubi’… ). Infine dalla Parafrasi greca di Teofilo (4.15.7b).
Di tali formulazioni, la più antica è, come ben si comprende, quella riferita da Festo, che deriva dal De verborum, quae ad ius pertinent, significatione et usu di Elio Gallo, vissuto in età repubblicana, probabilmente nel I secolo a.C. Essa rispecchia la formula edittale di quell’epoca ed è da notare che fa riferimento al «fondo», mentre quella riportata secoli dopo da Ulpiano si riferisce alle «case» (aedes). E’ evidente che non si tratta di una mera utilizzazione di «termini di stile» intercambiabili. L’impiego di fundus in Festo, come del resto quello di homo, cioè «servo» (il bene mobile più prezioso che esistesse in un’economia a schiavi come quella romana d’epoca tardorepubblicana) nell’interdetto utrubi, a tutela delle cose mobili («Utrubi vestrum hic homo, q.d.a., nec vi nec clam nec precario ab altero fuit, apud quem maiore parte huiusce anni fuit, quo minus eum ducat, vim fieri veto» : cfr. Gai 4.150 e Ulp. 72 ad ed. D.43.31.1 pr), non è dovuto al caso. Rispecchia la situazione politico-economica in cui quegli interdetti furono introdotti ed impiegati. Fundus nell’uti possidetis conferma, tra l’altro, che la repressione giuridica della violenza (vis) si impose come problema da affrontare e risolvere proprio durante la corsa all’accaparramento delle terre, resa frenetica dalle ben note condizioni di devastazione ed inurbamento che si verificarono in Italia alla fine della guerra annibalica e che, tra l’altro, determinarono una grave crisi della piccola proprietà contadina. L’acquisizione allo Stato di vaste zone di ager publicus offrì allora ampie opportunità di arricchimento ai ceti dominanti, con la creazione dei latifondi che lo Stato, conformemente all’ideologia tradizionalista della maggior parte dei senatori legati all’idea dello sfruttamento della terra come unica attività decorosa, incoraggiava anche perché sembrava l’unica via per risollevare l’economia italica stremata. A tacitare la plebe ed i piccoli contadini e ad aumentare la sicurezza necessaria per garantire il successo della politica espansionistica agli albori provvedeva contemporaneamente una altrettanto intensa politica di deduzione coloniaria.
Il requisito dell’attualità del possesso per la concessione dell’ uti possidetis (espressa dal nunc della formula presente in Festo e Gaio e sottinteso in Ulpiano), fu molto probabilmente presente sin dalla prima concessione dell’interdetto, ma è in contrasto con la cd. exceptio vitiosae possessionis (nec vi, nec clam, nec precario), introdotta probabilmente in un secondo momento, allorché per inquadrare e limitare ancora più fortemente varie forme di violenza, si stabilì il principio che fosse indegno di tutela chi avesse posseduto vi, clam o precario.
E’ da precisare, comunque, che l’uti possidetis mentre forniva le garanzie che si è detto ai grandi possessori di terre, risultava utile anche ai piccoli contadini che rischiavano lo spossessamento violento (in qualche modo così arginato, se non certo completamente impedito) da parte dei più ricchi ed era strumento di ideologia, tutelando gli interessi dei ceti dirigenti che volevano vivere in pace. Il recente tentativo di un giovane e valoroso studioso italiano che si è occupato della questione, Giuseppe Falcone, teso a retrodatare la storia dell’ager occupatorius e di conseguenza anche quella dell’interdetto uti possidetis è certo interessante, ma si fonda su basi testuali alquanto deboli e non riesce a smontare una relazione che ritengo, invece, rilevante tra rapporti agrari e dinamiche economico-politiche che trovano, a mio parere, una connotazione significativa nella lettura ideologica della repressione della violenza a partire dall’età postannibalica.
E’ da sottolineare che il nostro interdetto provvedeva in pratica anche alla tutela di posizioni proprietarie data la inevitabile indiscriminabilità economica che si produsse all’interno delle grandi e medie aziende tra l’ager publicus di cui abbiamo parlato e l’ager privatus appartenente in proprietà viritana (mancipium, poi dominium ex iure Quiritium) ai patres. Nelle varie aziende i due tipi di terra si integravano funzionalmente fra loro al punto tale che la rapida difesa dell’utilizzazione di fatto dell’una non avrebbe avuto senso ed efficacia se non fosse stata estesa in qualche modo pure all’altra.
Si aggiunga che già per un periodo molto risalente v’è traccia nelle fonti di uno spiccato interesse della Città (e quindi di una riconosciuta rilevanza sociale, prima ancora che giuridica) per il concreto esercizio di poteri di fatto da parte dei padri di famiglia in diversi àmbiti.
Innanzi tutto ( a ) sulle res mancipi, cioè le case ed i fondi in agro Romano, le bestie da soma o da traino come i buoi, i cavalli, i muli, gli asini e gli schiavi, mancipia per antonomasia (cfr. Gai 1.120). Su quelle cose o persone, cioè, che, per essere essenziali alla sopravvivenza della famiglia patriarcale nell’economia agricolo-pastorale della Roma primitiva, vennero sempre considerate (insieme con i figli in potestà, le donne in manu e gli altri uomini liberi sottopostisi più o meno volontariamente al potere di un altro capofamiglia o a questi ceduti dal proprio pater) oggetto di un rapporto di appartenenza (mancipium: da manu capere, prendere con la mano) particolarmente intenso e particolarmente tutelato. Sul piano dell’esclusività della loro diretta utilizzazione non solo, ma anche (e di conseguenza) su quello della loro eventuale cessione ad altri che, per garantirne la visibilità e quindi il controllo sociale, si poteva realizzare solo attraverso atti complessi e solenni sul piano giuridico-simbolico (mancipatio, in iure cessio);
Quindi ( b ) sulle res nec mancipi, cose importanti e magari preziose in epoca più evoluta, ma non essenziali per la sopravvivenza ed il mantenimento dell’equilibrio socioeconomico tra le varie famiglie nel momento in cui il diritto primitivo dei Romani si era venuto formando e perciò non sottoposte al mancipium. Si pensi al denaro, ai gioielli, alle navi, agli animali da cortile o a quelli esotici, naturalmente quando furono conosciuti e utilizzati dai Romani.
Ebbene già una norma delle XII Tavole, riferita concordemente da Cicerone (top. 23) e da altre fonti, stabilì che delle res mancipi si potesse usu capere: si potesse acquistare cioè il mancipium anche tramite l’usus. Vale a dire, attraverso una utilizzazione esclusiva (usucapio) da parte di un pater familias, protratta indisturbata - quindi, di fatto, con il consenso degli altri patres, compreso l’eventuale titolare del mancipium, che in una piccola comunità come quella romana del V/IV secolo a. C. non potevano non esserne a conoscenza - per un certo periodo di tempo: due anni per i fondi, uno per le altre cose (usus auctoritas fundi biennum est . . . ceterarum rerum omnium . . . annuus est usus: Tab. 6.3; la auctoritas è la garanzia contro l’evizione nascente dalla mancipatio). L’usucapione pare istituto ignoto agli altri diritti antichi dell’area mediterranea.
Egualmente, sulle cose nec mancipi - per salvare la pace sociale ed impedire violenti contrasti tra coloro che volevano impossessarsene o tentavano di spossessarne chi già ne godeva - si finì con il riconoscere ben presto a chi di fatto ne disponeva una posizione di preminenza, anch’essa socialmente tutelata nei confronti di tutti gli altri, finché durava, analoga al potis sedere o, se si vuole, alla possessio che abbiamo visto riconosciuta a chi utilizzava come, proprie — avendone ottenuto il godimento o essendosene appropriato — porzioni dell’ager publicus.
La evoluzione degli schemi giuridici, frutto di una sempre più limpida emersione dei loro contenuti economici, conseguente alla relativa modernizzazione ed allo sviluppo della società romana, «portò a fondere – così scrive limpidamente Giuseppe Grosso - nella concezione del possesso sia l’antico usus che l’antica possessio, colla sistemazione dei vari effetti che al possesso si ricollegavano». E, quindi ( a ) con il riconoscimento dell’usus come strumento giuridico idoneo a far acquistare la proprietà civilistica (oramai schematizzata come dominium) anche sulle res nec mancipi (cd. possessio ad usucapionem, detta anche possessio civilis: esercizio di fatto del diritto assoluto, basato su di una iusta causa legittimante la tradizione e l’usucapione, e perciò capace di produrre effetti per lo ius civile); e ( b ) con una inevitabile successiva sostanziale unificazione dei mezzi di tutela riservati dal pretore, nelle più rilevanti ipotesi di possessio, ai possessori nei confronti di tutti: se del caso, persino contro il dominus che intervenisse a contrastarlo, dovendosi la questione di proprietà decidersi in sede di revindica, nel giudizio cd. petitorio (rei vindicatio) e non in questo possessorio (cd. possessio ad interdicta).
In tal modo la tutela interdittale possessoria – introdotta, come si è visto, a tutela dei possessori delle terre pubbliche - fu estesa a tutti coloro (non importa se proprietari o meno, se in buona o in mala fede, dunque anche se ladri) avessero la disposizione di fatto di una cosa (possessio corpore) con animus possidendi: cioè, con l’intenzione di tenerla per sé e nel proprio interesse, comportandosi rispetto ad essa uti domini, cioè come se fossero i proprietari (cd. possessio pro suo). Tale tutela venne inoltre concessa, in via eccezionale, in talune ipotesi di possessio pro alieno: quella del precarista (l’istituto del precario derivava dalle antiche concessioni di terra effettuate dai patrizi ai propri clienti, affini alle concessioni di ager publicus), del creditore pignoratizio (del quale era evidente l’interesse a possedere la cosa pignorata a garanzia del credito), del sequestratario (al quale si ritenne opportuno dare tutela possessoria sino a quando non fosse risolta la controversia circa l’appartenenza della cosa affidatagli in sequestro). Una concomitante possessio civilis, diretta all’usucapione, veniva riconosciuta al debitore pignorante (D. 41.3.16; D. 41.2.1.15).
Al di fuori dei casi di cui si è detto, non venne riconosciuta tutela interdittale a quanti avevano di fatto a disposizione una cosa senza l’animus possidendi, cioè senza volerla tenere come propria, ma anzi riconoscendo di averla per conto di altri (cd. possessio naturalis, o possessio alieno nomine o pro alieno). In queste ipotesi i giuristi ritenevano che vi fosse l’animus di «consentire, con la propria attività, ad altri di possedere» (alienae possessioni ministerium praestare: Cels. D. 41.2.18 pr.): si pensi al depositario, al comodatario, al locatario, all’usufrutturario. La tutela possessoria spettava perciò a coloro in nome dei quali essi possedevano: negli esempi ora fatti (cfr. Gai 4.153), al comodante, al locatore, al nudo proprietario, ai quali dunque si riconosceva un animus possidendi anche se poi possedevano corpore la cosa attraverso terzi che erano in relazione materiale con essa e che la dottrina oggi chiama «detentori», mentre le fonti romane, oltre a detinere (ad es. in D. 43.5.3.2), usano a tal proposito espressioni quali in possessione esse (contrapposta a possidere ad es. in Gai 4.153), oppure naturaliter possidere o ancora naturalis possessio (rispettivamente in D. 10.3.7.11 e D. 41.5.2.1-2 ad es.) per sottolineare che, proprio perché «naturale», tale possessio non era in grado di produrre a loro vantaggio gli effetti giuridici della vera e propria possessio «civile»: cioè la tutela interdittale e l’acquisto della cosa posseduta per usucapione.
L’animus possidendi doveva essere continuo (perseverans). Era tuttavia sufficiente che esistesse al momento dell’acquisto del possesso e che successivamente non si verificassero eventi o si tenessero comportamenti dai quali risultasse esser venuto meno.
Non erano considerati tali ad esempio il sonno del possessore e neppure la sopravvenuta sua pazzia (cfr. D. 41.2.27; D. 41.3.4.3; D. 41.3.31.3), anche se il furiosus, in quanto incapace, non poteva acquistare il possesso. Così l’infante; anche se l’impubere infantia maior sembra potesse acquistare anche senza la interpositio auctoritatis del tutore. In epoca classica non erano ritenute capaci di possedere le persone giuridiche; e naturalmente, privi com’erano di propria autonoma capacità patrimoniale, non potevano possedere, almeno per sé, i sottoposti ad altrui potestà quali gli schiavi (D. 41.2.24), i figli di famiglia (D. 50.17.93), il liber homo bona fide serviens (D. 41.1.54.4).
Come già sappiamo: «Possideri autem possunt, quae sunt corporalia» (cfr. D. 41.2.3 pr.). Oggetto di possesso, dunque, potevano essere, in epoca classica, solo cose corporali, naturalmente in commercio (erano escluse quelle extra commercium: ad esempio, i luoghi religiosi o sacri: D. 41.2.30.1). In ogni caso, nelle visuali romane sino ad epoca classica avanzata, si possedeva la res non l’eventuale diritto sopra la stessa. E poiché la proprietà non fu mai vista come astratto ius, ma ancora nel pensiero dei giuristi classici si identificava con la cosa, il diritto di proprietà non fu mai classificato tra le res incorporales, sì che chi teneva una cosa come proprietario, era ritenuto possedere direttamente la cosa stessa.
Al contrario, coloro che esercitavano servitù o usufrutto, qualificati (almeno a partire dalla metà del I secolo a. C. il secondo: lex Scribonia) iura e quindi res incorporales, non furono considerati possessori anche quando avevano la disponibilità materiale della cosa (possedevano, rispettivamente, il proprietario del fondo servente e il nudo proprietario; ben diversa, come si sa, era la situazione del superficiario, protetto già in periodo repubblicano da un apposito interdetto de superficiebus). Tuttavia già in epoca classica il pretore al fine di risolvere rapidamente situazioni di litigiosità diffusa, ‘interpose la sua autorità’ (v. Gaio 4.139), creando una estensione della tutela interdittale possessoria all’usufruttuario, concedendogli, in via utile, l’uti possidetis. Analogamente concesse a chi esercitava di fatto talune servitù prediali (di passaggio, di acquedotto, di attingere acqua, di cloaca) una difesa interdittale ad hoc, analoga alla possessoria, con vari interdetti (de itinere actuque, de aqua, de fonte, de rivis, de cloacis). In età postclassica-giustinianea, venuta meno la distinzione tra interdictum directum e utile, si fece strada l’idea di una quasi possessio iuris: di un possesso, cioè, avente ad oggetto anziché la cosa il diritto reale limitato.
Il possesso di cose composte non implicava possesso delle singole parti, sicché al possessore dell’edificio, ad esempio, non si riconosceva il possesso delle tegole o delle, travi (cfr. Paul. D. 41.2.3 pr.).
Il corpore possidere e l’animus possidendi rilevavano, dunque, in diritto romano classico, a proposito di acquisto, conservazione e perdita del possesso. Riassumendo e schematizzando, sulla base dell’ampia casistica presente nelle fonti e a cui solo in parte si è sinora accennato, si può dire in linea generale che il possesso si acquistava dal momento in cui un soggetto idoneo avesse avuto la possibilità di disporre di una cosa avendo l’intenzione di trattenerla come propria («apiscimur possessionem corpore et animo, neque per se animo aut per se corpore . . .» scrisse Paolo, ora in D. 41. 2.3.1; cfr. PS. 5.2.1). Si conservava sino a che perdurava questa possibilità senza smettere l’animus. Si perdeva quando veniva meno la possibilità di disporre della cosa e contemporaneamente l’animus di possederla per sé; mentre la situazione si presentava in modo alquanto più complesso — lo vedremo — quando veniva meno solo il primo di questi due elementi.
Per quanto riguarda l’acquisto del possesso, il requisito del corpore possidere venne inteso in epoca classica in modo non rigido. Superando la concezione materialistica iniziale, si ritenne sufficiente l’instaurarsi di una situazione di disponibilità di fatto della cosa adeguata alle concezioni ed alle esigenze economico-sociali dell’epoca. Quindi, talvolta realizzata anche senza una effettiva apprensione corporale della stessa («. . . non est enim corpore et tactu necesse adprehendere possessionem, sed etiam oculis et affectu . . .» scrisse ancora Paolo nel 54o libro del suo commentario all’editto, ora in D. 41.2.1.21). E, del resto, a parte l’occupatio e l’adprehensio di res derelictae come modo d’acquisto oggi diremmo a titolo originario, il corpore possidere si acquistava ormai sempre più frequentemente (oggi diremmo: a titolo derivativo) attraverso la traditio. Cioè tramite la consegna della cosa dal tradente all’acquirente, accompagnata dall’intenzione dell’uno e dell’altro di trasferire e, rispettivamente, acquistare il possesso della stessa. Ora, solo in epoca relativamente primitiva, quando veniva utilizzata soprattutto per trasmettere la disponibilità delle cose mobili (inizialmente il dominio delle res nec mancipi), la traditio era effettivamente e rigorosamente manuale. Quando nella prassi essa fu resa applicabile anche alle cose immobili, è evidente che non si poté più pretendere nessuna consegna manuale in senso letterale delle stesse. Si ritenne dunque effettuata, ad esempio, con il semplice abbandono del fondo da parte del tradente nel momento in cui vi entrava l’acquirente (ad es. D. 18.1.78.1.) o soltanto con l’ingresso dell’acquirente nel fondo su invito dell’alienante a recarvisi (D. 41.2.33); o, addirittura, senza che neppure l’acquirente ci entrasse, nell’ipotesi in cui l’alienante glielo avesse messo a disposizione mostrandoglielo dall’alto di una torre vicina (D. 4 1.2.18.2). In questo e in altri analoghi (cfr. D. 46.3.79, relativo a pecunia tradita), i giuristi medioevali parlarono di traditio longa manu. Mentre dissero traditio symbolica quella, relativa a cose mobili, che si ammise si potesse realizzare immediatamente (confestim) tramite la pura e semplice consegna delle chiavi del magazzino in cui le merci, ad esempio, erano riposte, purché le chiavi fossero state date all’acquirente apud horrea, cioè in prossimità del magazzino stesso (D. 18.1.74). Si parlò, inoltre, di traditio brevi manu con riferimento all’ipotesi in cui un detentore (un conduttore di un fondo, ad esempio, o un comodatario o usufruttuario di una cosa mobile), col permesso dell’alienante, cessasse di tenere la cosa pro alieno e cominciasse a possederla con l’intenzione di tenerla come propria, assumendo cioè nei suoi confronti l’animus rem sibi habendi: questo, unito al già esistente corpore possidere, si ritenne integrasse a favore dell’acquirente entrambi gli elementi del possesso, che si ammise perciò venisse acquistato solo animo, senza bisogno che si procedesse ad una nuova traditio (etiam sine traditione: cfr. D. 41.1.9.5). Nel caso inverso, in cui il possessore avesse trasferito il possesso della cosa ad altri, continuando però, d’accordo con lui, a detenerla con un nuovo animus di alienae possessioni ministerium praestare (cfr. Cels. D. 41.2.18 pr.), sempre i giuristi medioevali, forzando un’affermazione di Ulpiano ora in D. 41.2.17, parlarono di «costituto possessorio» (constitutum possessorium).
Oltre che personalmente, la possessio poteva essere acquistata per mezzo di altri che attuassero la semplice apprensione materiale della cosa. «Possessionem adquirimus et animo et corpore», dicono le tarde Pauli Sententiae, che però precisano: «animo utique nostro, corpore nostro vel alieno» (PS. 5.2.1). Nessun problema naturalmente era mai esistito per l’acquisto del possesso effettuato da un pater familias tramite i suoi sottoposti, figli e servi, se appositamente autorizzati da lui o dotati di peculio (cfr. D. 41.4.2.11). Ma solo in età classica avanzata si attenuò, per quanto riguarda il possesso, il principio, fondamentale nella disciplina romana della rappresentanza, secondo cui non era possibile acquistare per mezzo di persona libera estranea. Si ammise allora che, anche se non ne avesse scienza (etiam ignorans), potesse acquistarlo il dominus per il tramite di un (verus) procurator (cfr. D. 41.3.41; D. 41.1.13 pr., richiedendosi tuttavia, pare, apposita ratifica speciale successiva, ratihabitio, D. 41. 2.42.1), nonché il pupillo, etiam ignorans, per mezzo del tutore (D. 41.1.13.1).
Nel caso dell’acquisto del possesso al dominus ignaro, le fonti sono costrette ad ammettere che esso veniva effettuato, contro i principi, non solo corpore, ma anche animo alieno (cfr. D. 4 1.2.3.12), cercando di giustificare ciò in vario modo. Per lo più, adducendo motivi di utilità (di «utilitatis causa iure singulari receptum» scrisse, ad esempio, Papiniano nel 23o libro quaestionum, ora in D. 41.2.44.1). In ogni caso, si richiedeva che l’intermediario attraverso cui si acquistava il possesso avesse quello che Paolo chiamava intellectum possidendi: il che impediva, ad esempio, l’acquisto tramite uno schiavo pazzo (servus furiosus, D. 41.2.1.9-10). Al contrario, uno schiavo sano di mente poteva ben esser impiegato per acquistare il possesso ad un padrone pazzo o infante (cfr. D. 41.3.28; D. 41.2.1.5).
Come si acquistava, così il possesso si conservava — lo abbiamo detto — corpore et animo. Tuttavia già in diritto classico questa regola venne intesa abbastanza elasticamente, ammettendosi, in base a criteri connessi con la normale utilizzabilità economica dei beni, varie eccezioni. Ce ne informa nel suo manuale istituzionale Gaio (4.153), secondo il quale ormai ai suoi tempi la maggior parte dei giuristi (plerique) ammetteva che in taluni casi il possessore che avesse perduta la disponibilità di fatto della cosa, ne potesse conservare egualmente il possesso se persistesse nell’intenzione di tenerla come propria. Si diceva allora che la possessio era solo (ovvero nudo) animo retenta: era, cioè, conservata grazie al semplice permanere dell’animus possidendi. Ciò avveniva nel caso in cui qualcuno si fosse immesso in un immobile all’insaputa del possessore, sino a che questi, saputolo, non avesse reagito oppure, avendo reagito, fosse stato respinto dal nuovo occupante (arg. ex D. 41.2.3.8; cfr. D. 41.2.25.2). E, ancora, nel caso, discusso, del possesso dello schiavo fuggito dai padrone, sino a che non se ne impossessasse un altro (PS. 4.14.3; del resto il servus fugitivus, pur essendosi sottratto con la fuga al controllo del padrone, acquistava e conservava per lui le cose di cui comunque si trovasse materialmente a disporre). Infine: nel caso del possesso dei pascoli estivi o invernali (saltus hiberni et aestivi), di cui si ammetteva che i pastori conservassero il possesso solo animo durante i periodi dell’anno in cui, non essendo utilizzabili, li abbandonavano (ad esempio, D. 41.2.3.11; D. 41.2.27; D. 41.2.44.2; ecc.).
Tranne che nei casi che or ora abbiamo visto, il venir meno della disposizione di fatto della cosa, pur persistendo nel possessore l’animus possidendi, era sufficiente a far perdere il possesso. A maggior ragione esso si perdeva con il venir meno di entrambi gli elementi necessari per costituirlo: era il caso tipico della traditio o dell’abbandono (derelictio) delle cose possedute. Il possesso si perdeva anche solo animo, dicono le fonti, quando il possessore pur mantenendo la disposizione di fatto della cosa, cessasse di volerla tenere come propria: sempre il giurista Paolo, nel 54o libro del suo commentario all’editto, sottolinea che «non si può non tener conto dell’affectio di colui che possiede» e che perciò «se anche resta nel fondo ma non vuole più possederlo» ne perde immediatamente il possesso (In amittenda quoque possessione affectio eius qui possidet intuenda est: itaque si in , , , , fundo sis et tamen nolis eum possidere, protinus amittes possessionem. Igitur amitti et animo solo potest, quamvis adquiri non potest: D. 41.2.3.6).
Come si è detto, il possesso era difeso dal pretore attraverso gli interdetti (interdicta), provvedimenti di urgenza che le fonti qualificano magis imperii quam iurisdictionis. Su questi occorre ancora dire qualcosa prima di terminare.
Essi si fondavano essenzialmente sull’imperium, il potere di comando originariamente militare, del magistrato giusdicente (D. 2.1.4; D. 50.1.26 pr.) che, al fine di pervenire ad una rapida definizione della controversia, li adottava causa non cognita, su richiesta del possessore che ne avesse interesse. Consistevano in comandi direttamente rivolti alla persona o alle persone che l’impetrante avesse condotto in ius (cd. interdicta simplicia) o anche, contemporaneamente, all’impetrante stesso ed alla controparte (cd. interdicta duplicia: cfr. Gai 4.157- 158). In base al contenuto — a seconda, cioè, che il pretore comandasse di restituire o esibire alcunché oppure vietasse di tenere un determinato comportamento — erano detti restitutori, esibitori e proibitori (restitutoria, exhibitoria, prohibitoria: Gai 4.140).
Proibitorio era il più antico interdetto possessorio di cui abbiamo già trattato, l’uti possidetis. Come è stato giustamente sottolineato in dottrina (Guarino), in realtà fu soltanto con esso che si ebbe «una vera e propria tutela del possesso attuale rispetto a chi volesse eliminarlo», giacché «soltanto con questo interdetto, ed in questa ipotesi delle cose immobili, il possessore attuale era sicuro di poter scacciare dal possesso delle sue cose chiunque volesse impadronirsene, salvo che il possesso non fosse stato da lui acquistato, nei riguardi dell’aggressore (alter ab altero) vi clam o precario». In tale prospettiva, l’uti possidetis adempiva, dunque, in ogni caso, oltre quella conservativa, anche una funzione recuperatoria del possesso immobiliare.
Il possessore attuale delle cose mobili, invece, non era sempre e comunque tutelato dall’interdetto utrubi, che vietava di disturbare nel suo possesso chi avesse posseduto senza vizi nei confronti della controparte la cosa o le cose mobili per il maggior periodo di tempo nell’ultimo anno antecedente alla concessione dell’interdetto: «praetor ait: ‘ utrubi hic homo, quo de agitur, maiore parte huiusce anni fuit, quo minus is eum ducat, vim fieri veto’» (D. 43.31.1 pr., cfr. Gai 4.150 cit.). Era possibile computare a proprio favore anche il tempo in cui aveva posseduto legittimamente il precedente possessore iustus dal quale si fosse ricevuto il possesso (cd. accessio possessionis: Gai 4.151). Anche l’interdetto utrubi, dunque, poteva essere utilizzato in funzione recuperatoria nei confronti del possessore iniustus o di chi, pur essendo possessore iustus, avesse posseduto per minore tempo durante l’ultimo anno rispetto alla controparte. Infatti poteva accadere che in esecuzione dell’ordine pretorio in questione, le cose mobili del cui possesso si controverteva fossero assegnate non a chi attualmente le possedeva, ma a chi se ne volesse impadronire, se questi le avesse possedute per un maggior spazio di tempo negli ultimi dodici mesi. Proprio a ragione di questo ben più flebile tipo di difesa assicurata allo iustus possessor attuale dall’utrubi rispetto a quella garantita all’analogo possessore dell’immobile dall’uti possidetis, in epoca giustinianea si finì con l’applicare anche alle cose mobili il regime previsto per quest’ultimo.
Come bene sottolinea nelle sue Istituzioni Gaio, entrambi gli interdetti retinendae possessionis di cui abbiamo sinora discusso avevano, oltre a quelle viste, una funzione preparatoria fondamentale per lo svolgimento della rei vindicatio. Erano, infatti, di solito utilizzati per fissare i ruoli processuali reciproci dei litiganti in ordine alla proprietà della cosa: per stabilire cioè in via pregiudiziale chi dovesse esercitare l’azione e chi invece, possedendo, dovesse esser chiamato in giudizio: «Retinendae possessionis causa solet interdictum reddi, cum ab utraque parte de proprietate alicuius rei controversia est, et ante quaeritur, uter ex litigatoribus possidere et uter petere debeat; cuius rei gratia comparata sunt ‘uti possidetis’ et ‘utrubi’» (4.148).
Probabilmente intorno alla metà del I secolo a. C., nel corso delle drammatiche vicende dell’epoca delle guerre civili, quando, come abbiamo visto, il problema della repressione della violenza illecita, la vis, si pose prepotentemente al centro dell’attività del pretore, della formazione repressiva della legislazione criminale, della riflessione del pensiero politico aristocratico e della giurisprudenza nobiliare, al fine di far riottenere ai possessori di immobili violentemente spogliati la possessio tolta loro da altri, furono introdotti due nuovi interdetti cd. recuperandae possessionis: l’interdictum unde vi (detto anche de vi cottidiana) e l’interdictum de vi armata. Con il primo, il magistrato ordinava all’attuale possessore che avesse cacciato con la violenza (vi) esercitata personalmente o tramite i suoi schiavi da un immobile il precedente possessore di restituirglielo, a meno che il vi deiectus non fosse stato a sua volta iniustus possessor nei suoi confronti: «Praetor ait: ‘unde tu illum vi deiecisti aut familia tua deiecit, de eo quaeque ille tunc ibi habuit tantummodo intra annum, post annum de eo, quod ad eum qui vi deiecit perveneril, iudicium dabo’» (cfr. Ulp. D. 43.16.1 pr.). L’interdetto aveva dunque carattere penale, era esperibile solo entro un anno dallo spoglio e passivamente intrasmissibile; dopo un anno e contro l’erede erano comunque concesse apposite azioni in factum nei limiti dell’arricchimento. Più rigoroso del precedente, il secondo tutelava qualsiasi possessore — quindi anche il possessor iniustus — che fosse stato violentemente cacciato dai suoi beni con l’impiego di uomini armati riuniti in bande reclutate allo scopo: vi hominibus coactis armatisve. Data la estrema gravità del fatto, non vi erano limiti di tempo per ricorrere ad esso.
L’ordinamento vigente oggi in Italia riconosce al possessore il diritto alla preservazione, alla reintegrazione ed alla conservazione inalterata del suo «potere sulla cosa», disponendo a tal fine, quali rimedi processuali specifici, le azioni possessorie. Il possessore, dunque, è tutelato in quanto tale: in nessun modo rileva, ai fini della garanzia processuale della sua condizione, la buona fede o la titolarità del diritto reale.
Nel Codice Civile del 1942 sono previste, in via esclusiva per il possessore, due azioni distinte: l’azione di reintegrazione (artt. 1168 e 1169), per le ipotesi di spoglio violento o clandestino, e l’azione di manutenzione (art. 1170), per l’ipotesi di molestia. Sono inoltre riconosciute al possessore, sebbene non in via esclusiva, le c.d. azioni di nunciazione (denunzia di nuova opera, art. 1171, e di danno temuto, art. 1172).
Presupposto fondamentale della reintegrazione è la materiale sottrazione della cosa al possessore, rispetto alla quale l’azione è diretta al ripristino della situazione possessoria violata. È opportuno sottolineare come, sebbene costituisca il riferimento essenziale di tale tutela possessoria, lo spoglio non risulti esplicitamente definito all’interno della norma codicistica. Se in dottrina si suole configurare lo stesso come la privazione totale o parziale della cosa, come il fatto che impedisce al possessore l’esercizio del possesso, in giurisprudenza risulta invece consolidata l’identificazione dello spoglio con ogni attività che genericamente impedisca al possessore il godimento della cosa o di una sua parte.
Rispetto alla reintegrazione, tesa a restaurare lo status quo ante, la manutenzione ha ad oggetto la conservazione della situazione possessoria, garantendone l’attività e ponendola al riparo da ogni situazione di pericolo che ne minacci la perpetuazione. È bene ricordare che, diversamente dagli interdetti retinendae possessionis romani, la moderna azione di manutenzione tutela esclusivamente situazioni possessorie particolarmente qualificate, con riferimento all’oggetto del possesso, alla durata ed ai caratteri esteriori dello stesso (deve essere ultrannale, continuo, non interrotto né viziato da violenza o clandestinità); non tutela le cose mobili di cui intralcerebbe – si dice – la circolazione giuridica (il che suscita severe critiche in dottrina).
Nota. - Le mie persuasioni sui temi trattati si trovano soprattutto in Vim fieri veto. Alle radici di una ideologia (Napoli 1971); Les racines de l’idéologie répressive de la violence dans l’histoire du droit romain, in Index 3 (1972) 525 ss.; Tutela del possesso fondiario e ideologia repressiva della violenza nella Roma repubblicana2 (Napoli 1986); Astronomi e storici: due leggi ‘immaginarie’ nella pro Rhodiensibus di Catone, in Studi in onore di A. Biscardi III (Milano 1982) 119 ss. La violence, instrument de lutte politique à la fin de la république, in DHA. 17 (1991) 119 ss.; Appunti sulla ‘possessio’ per servire a qualche riflessione concernente la codificazione del diritto civile nella Repubblica Popolare Cinese, in Adminicula3 (Napoli 1995) 219 ss.. L’intreccio con i problemi di storia costituzionale e del diritto criminale si trovano esaminati nella raccolta di saggi Nemici non piú cittadini ed altri testi di storia costituzionale romana2 (Napoli 1995), oltre che in diversi luoghi del volumetto su Marco Emilio Lepido e la sua rivolta [con un’Appendice di C. Cascione] (Napoli 2000).
Il richiamo a M. Bretone si riferisce alla sua monografia I fondamenti del diritto romano. La natura e le cose (Roma-Bari 1998). L’ampio saggio di G. Falcone, Ricerche sull’origine dell’interdetto ‘uti possidetis’ si può leggere in AUPA. 44 (1996); su di esso si v., almeno, le rec. di F. Reduzzi Merola, in Index 27 (1999) 333 ss., e di L. Capogrossi Colognesi, in Labeo 43 (1997) 445 ss. Per la disamina dei temi trattati è stato utile, come sempre, il confronto con A. Guarino, Diritto privato romano12 (Napoli 2001), ricco di riferimenti alle fonti ed alla letteratura.
Per la disciplina delle varie fattispecie possessorie nell’ordinamento giuridico italiano, si v., da ultimo, nel Trattato di diritto civile del Consiglio nazionale del Notariato diretto da P. Perlingieri, il volume III/9 di B. Troisi, C. Cicero, I possessi (Napoli 2005)。
Seminario Pechino ottobre 2005
发布时间:2009-01-06  
 

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