(seminario ottobre 2005, Pechino)
Proprietà fondiaria pubblica e disponibilità dei privati nel diritto romano
Prof. Oliviero Diliberto
1. Ritengo di un qualche interesse occuparmi in questa relazione del tema concernente il rapporto tra la proprietà pubblica sui beni immobili (la terra, principale mezzo di produzione nella Roma antica) e la materiale disponibilità su di essi da parte dei privati. Alla vigilia della promulgazione, nella Repubblica Popolare Cinese, della Legge sui diritti reali, mi sembra che un tema come questo, relativo alla “gestione privata dei beni pubblici”, rappresenti un utile contributo alla discussione in corso, da parte del Legislatore e dei giuristi cinesi. Il tema è peraltro connesso anche con la “Legge sulla gestione delle terre in concessione nelle aree rurali”, promulgata in Cina lo scorso anno. Spero quindi di offrire materiali non inutili alla discussione in atto in Cina sulle riforme, che seguo con interesse e apprezzamento, nella mia duplice veste di parlamentare e di studioso del diritto.
In primo luogo, giova ricordare che i romani conoscono la proprietà privata della terra (dominium ex iure Quiritium) sino dalle età più remote della loro storia. Addirittura, la prima assegnazione in proprietà privata di un (modesto) appezzamento di terra a ciascun capofamiglia è attribuita al primo re, Romolo (i c.d. bina iugera: due iugeri di terra, antica unità di misura). La proprietà privata nascerebbe dunque – nella stessa percezione della tradizione che i romani avevano di sé – sin dall’origine della città.
Accanto, però, a tale rapporto reale, che con terminologia moderna possiamo senz’altro definire proprietà privata, i romani conoscono, da altrettanta antichità, la proprietà fondiaria pubblica: l’ager publicus, di proprietà del populus Romanus inteso come una soggettività giuridica (analoga alle nostre persone giuridiche) distinta da quelle dei singoli cittadini.
Nella sistematica moderna, abbiamo chiara la differenza tra i pubblici poteri e i diritti privati: lo Stato può imporre, ad esempio, tributi o gravami di altra natura sulla terra di proprietà dei privati, senza avere su di essa alcun diritto di natura privatistica; così come lo Stato può essere esso stesso proprietario della terra, sulla base del diritto privato. Tra i popoli antichi questa distinzione non era così chiara. Presso i popoli dell’antico Egitto o dell’Asia, ad esempio, la terra era considerata tutta di proprietà del sovrano e i privati potevano solo averne il godimento, sulla base di una concessione del sovrano medesimo. Nello stesso diritto medioevale, peraltro, i giuristi discutevano (anche in cause celebri, a noi note) an princeps sit dominus rerum particularium: e su tale presupposto – la proprietà della terra da parte del sovrano – si fondava tutto il sistema feudale. Solo nel XVI secolo si inizia ad affermare con una qualche sicurezza che il sovrano medesimo ha un dominio di tipo pubblicistico, distinto dalla proprietà privata, fermo restando che egli può naturalmente essere titolare di proprietà privata di terra non in quanto sovrano, ma in quanto privato.
2. L’ager publicus era, dunque, la terra conquistata dai romani ai popoli stranieri. Esso diventava di proprietà pubblica, ma poteva – in vario modo e con diverse procedure – essere messo a disposizione dei privati, che non ne diventavano per ciò stesso proprietari, ma potevano liberamente disporne e sfruttarlo economicamente. Coesistevano, così, una proprietà giuridicamente formale e una disponibilità di fatto che venivano regolate – nei loro reciproci rapporti – da disposizioni che noi moderni in verità fatichiamo a distinguere e a comprendere appieno.
La materia è infatti quanto mai complessa ed altrettanto controversa nella dottrina gius-romanistica. Ma – come si vedrà appresso– appare altrettanto controversa anche agli occhi degli stessi giuristi romani. La complessità è dovuta, tra l’altro, alla circostanza che la disciplina concernente l’ager publicus muta anche notevolmente a seconda delle epoche di Roma e dei rapporti di forza tra le classi sociali, poiché proprio l’assegnazione dell’ager publicus medesimo è stata oggetto dei conflitti più aspri nello scontrosociale della Roma antica.
Di certo, si trattava, originariamente, di grandi estensioni di terra (i latifondi, contro i quali molti autori latini si scagliavano, anche per via di uno sfruttamento economico fondato sull’agricoltura estensiva, non particolarmente redditizia): dal punto di vista giuridico, questa disponibilità dei privati sull’ager publicus era costruita come una forma (invero, come diverse forme) di possessio, trasmissibile di norma agli eredi. Una proprietà di fatto, dunque, ma non di diritto. In teoria, il popolus Romanus poteva revocare tale possessio, ma di fatto ciò non avveniva. Ad avvalersi di tali concessioni erano, come ben noto agli studiosi, soprattutto – almeno sino al IV secolo a.C. – i patrizi, cui si contrapponevano i plebei, le cui richieste erano, appunto, concentrate sulla possibilità di limitare le assegnazioni dei primi e di ottenere – questa volta in proprietà – una parte, minore, delle terre. Le leggi che si succedettero per venire, gradualmente, incontro a tali richieste plebee non attengono allo scopo di questa mia comunicazione (leggi Licinie-Sestie, del 367 a.C. e poi le ben più incisive riforme dei fratelli Gracchi, 133 e 123 a.C.; infine la lex Thoria (?), detta comunemente legge agraria epigrafica, forse del 111). Di certo, dopo tali leggi – e specialmente delle ultime ricordate – le estensioni di terra in concessione ai privati dovettero essere molto limitate rispetto alla prima fase dell’espansionismo romano. Così come, di pari passo, soprattutto a cavallo tra il I sec. a.C. e quello d.C., le concessioni di ager publicus ai privati (ad esempio ai veterani delle guerre civili) avvenivano con sempre maggior frequenza non più in possesso, ma in proprietà. Le concessioni in materiale disponibilità della terra ai privati, tuttavia, non scomparvero mai del tutto, alimentando anzi non poche discussioni tra i giuristi romani. Tutto ciò, dunque, esula dagli intendimenti di questa relazione, ma è utile per comprendere il fenomeno dal punto di vista economico, sociale e politico.
In questa sede interessa, invece, il rapporto tra la proprietà pubblica e la concreta disponibilità dei privati, che dialetticamente dava vita a rapporti giuridici che gli stessi giuristi romani faticavano ad inquadrare dogmaticamente nell’ambito dei diritti reali o delle obbligazioni.
3. L’ager conquistato dai romani diventava, dunque, sempre di proprietà pubblica. Ma esso poteva avere due diversi destini giuridici: poteva essere assegnato in proprietà privata (ager divisus et adsignatus) e poteva essere invece concesso, come detto, nella disponibilità materiale dei privati: si trattava di forme di possessiones, nessuna delle quali portava ad usucapione (acquisto della proprietà attraverso il decorso del tempo). Vediamo, dunque questo secondo aspetto. Le ipotesi sono molteplici e giova soffermarsi su quelle di maggior rilevanza (e intrinseca problematicità) giuridica:
a. Ager occupatorius. Per alcuni autori, si trattava della terra occupata militarmente dall’esercito romano e poi assegnata precariamente ai privati; per altri, quella ottenuta dai privati in virtù dell’occupatio, modo di acquisto della proprietà a titolo originario delle res nullius: probabilmente, nonostante il titolo di acquisto, si trattava comunque di una forma di possessio, senza pagamento del canone (Albanese).
b. Concessioni a collettività (ad esempio, l’ager compascus): si tratta di territori di proprietà pubblica, assegnati a gruppi di persone o comunità per l’esercizio del pascolo, forse dietro il pagamento di un canone periodico (ma non sembra certo che tale canone rappresentasse elemento fondamentale).
c. Ager vectigalis: è la terra di proprietà pubblica assegnata in disponibilità assoluta e perpetua a privati, dietro il pagamento di un canone periodico (vectigal).
d. Ager privatus vectigalisque: è la terra di proprietà pubblica assegnata all’asta dal questore o dal pretore (magistrati rappresentanti il populus Romanus, che ne era proprietario). Il privato non acquistava – nonostante l’asta pubblica – la proprietà, ma una possessio, dietro il pagamento di un canone periodico (vectigal), trasferibile sia inter vivos che mortis causa. In questo caso, il pagamento da parte del privato è duplice, al momento dell’assegnazione (all’asta) e attraverso il canone periodico. Sia il populus Romanus che il privato godevano di un diritto reale sulla terra, la proprietà per il primo, una possessio difesa da un’azione modellata sulla rei vindicatio (difesa della proprietà), il secondo. Secondo il De Martino, si tratterebbe del precedente storico dell’enfiteusi.
e. Ager quaestorius: si tratta della terra (forse in lotti non grandi: 50 iugeri) assegnata ai privati in forza di una lex o di un sentusconsultum, dietro condizioni (es: coltivazione di un certo prodotto) e pagamento di un vectigal. Molto simile (ma assai controverso) al precedente.
f. Ager locatus ex lege censoria: è la terra appartenente al populus Romanus, assegnata in locazione (dunque, contrattualmente) ai privati, al migliore offerente (asta). Forse, all’origine, era concepita come una vendita dei frutti della terra e non come una locazione, ma il punto è molto discusso.
g. Vendita con patto di riscatto: sembra risalente al 210 a.C. (periodo delle guerre puniche). Il populus Romanus, in crisi economica, gravato di debiti versi i privati, vendeva, con patto di riscatto, appezzamenti di terra pubblica. I compratori (creditori verso Roma) versavano alle casse pubbliche una somma (il terzo del loro credito o, secondo altri, del valore della res); il populus poteva tuttavia esercitare il riscatto, riprendendosi le terre. Il privato non ne aveva la proprietà ma sembra che, in assenza del riscatto da parte del pubblico, potesse esercitare egli stesso tale opzione, acquisendo la proprietà piena sulla terra.
h. Assegnazioni di terra dietro l’impegno a svolgere determinate attività. E’ il caso dell’ager viasiis vicanis datus, pezzi di terra lungo le strade consolari, assegnati (non in proprietà, e revocabili, se non fosse stata svolta l’attività) al fine di garantire la manutenzione delle strade.
4. Le forme di assegnazione sono dunque molteplici e non tutte ci sono chiare dal punto di vista della configurazione giuridica. D’altronde, in questo campo sono sicuramente intervenute nel corso dei secoli modificazioni legislative anche profonde che hanno reso incerta, ai nostri occhi di moderni, l’intera materia.
Peraltro, a conferma dell’incertezza di collocazione della materia all’interno delle categorie note al diritto privato romano, nella legge epigrafica del 111 a.C., già ricordata, si usano le (assai generiche) espressioni di habere, possidere, frui. In molte fonti giurisprudenziali si parla, ancor più genericamente, di usus. I giuristi romani hanno, in definitiva, come vedremo meglio appresso, significative difficoltà ad inquadrare le fattispecie di cui trattiamo dal punto di vista sistematico.
Le fonti, di norma, parlano tuttavia comunemente del rapporto tra un diritto di proprietà (pubblico) e forme di possessio dei privati. Una possessio, peraltro, che si consolidava con l’andar del tempo, senza che avvenisse alcuna revoca da parte del populus Romanus e, dunque, il godimento della terra diventava tendenzialmente sempre perpetuo, anche attraverso il passaggio agli eredi del concessionario e agli eredi di essi:
D. 6. 3. 1 pr. (Paul. l. 21 ad ed.): Agri civitatium alii vectigales vocantur, alii non. Vectigales vocantur qui in perpetuum locantur, id est hac lege, ut tamdiu pro his vectigal pendatur, quamdiu neque ipsis, qui conduxerint, neque his, qui in locum eorum successerunt, auferri eos liceat (etc.).
Gli agri vectigales, dunque, erano definiti, dal giurista Paolo, come locati in perpetuum. Assistiamo quindi ad una prima anomalia. La locazione infatti era costruita a Roma, per definizione, come a termine, prevedendo essa – ci torneremo – la restituzione della cosa locata al proprietario. Ma andiamo avanti.
La stessa possibilità di disporne attraverso atti inter vivos rendeva sempre più stabile il rapporto del privato con la terra, quasi a configurarsi come una signoria di fatto su di essa. Nasceva, così, una sorta di conflitto tra la realtà economica e sociale e l’astratta configurazione giuridica di tali istituti, tanto è vero che le stesse rivendicazioni popolari erano tese al ritorno al populus Romanus di amplissimi appezzamenti di terra, al fine di procedere ad una nuova redistribuzione dell’ager publicus a favore dei soggetti che ne erano stati esclusi.
Con l’andar del tempo, quindi, a seguito di tale consolidamento della posizione dei privati assegnatari delle terre pubbliche, si tende a raffigurare il diritto del populus Romanus non tanto più sotto il profilo del diritto di proprietà, bensì come diritto alla riscossione del canone. Le diverse forme di assegnazione, d’altro canto, tendono esse stesse, in età imperiale, a confondersi tra loro e ad uniformarsi sotto la figura dell’ager vectigalis. E quest’ultimo viene costruito giuridicamente dai giuristi romani come un rapporto reale, ma al contempo come una (anomala) locazione: in primo luogo, il rapporto tra il privato e la terra era infatti valevole erga omnes e veniva tutelato processualmente come se fosse un diritto reale. La circostanza è abbastanza chiara: al privato era infatti concessa un’ actio in rem vectigalis per ottenere la restituzione del fondo contro chiunque se ne fosse eventualmente impossessato. Al medesimo privato erano, inoltre, estese in via utile le actiones aquae pluviae arcendae, finium regundorum, arborum furtim caesarum, tipicamente attribuite al proprietario (su tutto ciò, Albanese).
Ma, al contempo, la difesa e la stessa possibilità di trasmettere il diritto sia inter vivos, che mortis causa, erano subordinate al pagamento del canone (vectigal). Si veda, a questo proposito, ancora ciò che afferma il giurista Paolo, al quale i Compilatori del Digesto aggiungono subito dopo un’ulteriore esplicitazione di Ulpiano:
D. 6. 3. 1. 1 (Paul. 21 ad ed.): Qui in perpetuum fundum fruendum conduxerunt a municipibus, quamvis non efficiantur domini, tamen placuit competere eis in rem actionem adverus quamvis possessorem, sed et adversus ipsos municipes.
D. 6.3. 2 pr. (Ulp. l. 17 ad Sab.): ita tamen si vectigal solvant.
Paolo afferma con chiarezza che la terra concessa in perpetuum (termine ormai consueto) non può essere sottratta al privato, definito esplicitamente conduttore (dunque siamo ancora in un ambito contrattuale, per quanto anomalo, di locazione): ma vi è sempre la necessità del pagamento di un canone (vectigal). Anzi, il suo diritto sulla cosa dipende dal pagamento del canone, ne è elemento costitutivo: solo nel caso di mancato pagamento del vectigal, infatti, il populus Romanus – o, come più di frequente avveniva, i municipia, le civitates o le coloniae – potevano revocare la concessione: ma questa constatazione ci porta a concludere che proprio tale vectigal fosse l’unico elemento ritenuto tale da giustificare, anche sul piano teorico, la proprietà della terra da parte del populus e non del privato che la sfruttava economicamente e si comportava, relativamente a tutti gli altri aspetti, domini loco.
5. La situazione giuridica dell’ager vectigalis era dunque tutt’altro che chiara sul piano sistematico. I giuristi oscillano, nella collocazione della fattispecie, tra diritto delle obbligazioni e diritti reali. Ma anche nell’ambito contrattuale, è difficile definire se si tratti effettivamente di una locazione. Da un passo di Labeone appare evidente che esistessero opinioni diverse al riguardo:
D. 18.1.80.3 (Labeo, l. 5 posteriorum a Iavoleno epitomatorum):
Nemo potest videri eam rem vendidisse, de cuius dominio id agitur, ne ad emptorem transeat, sed hoc aut locatio est aut aliud genus contractus.
Il grande giurista sostiene (ma il punto è controverso anche tra gli studiosi di diritto romano: v. da ultimo Fiori) che non si possa in questo caso trattarsi di compravendita, ma di locazione o di un altro genus contractus. Labeone, dunque, se da un lato esclude trattarsi di emptio venditio, dall’altro avverte, tuttavia, anche la difficoltà di inquadrarlo con certezza nella locazione, né riesce a proporre con precisione di quale altro contratto possa trattarsi.
E’ il giurista Gaio, nelle Istituzioni, manuale elementare di diritto romano del II secolo d.C., a noi giunto pressoché integro, a fornirci gli elementi della discussione che doveva svolgersi tra i giuristi romani: discussione, quest’ultima, quanto mai interessante, attenta alle esigenze economiche del fenomeno quanto a quelle di costruzione sistemica:
Gaius, inst. 3.145: Adeo autem emptio et venditio et locatio et conductio familiaritatem aliquam inter se habere videntur, ut in quibusdam causis quari soleat, utrum emptio et venditio contrahatur an locatio et conductio. Veluti si qua res in perpetuum locata sit, quod evenit in praediis municipum, quae ea lege locantur, ut quamdiu (id) vectigal praestetur, neque ipsi conductori neque heredi eius praedium auferatur. Sed magis placuit locationem conductionemque esse.
Il giurista si sta occupando della distinzione tra vendita e locazione. La differenza, infatti, nella logica dei contratti consensuali del diritto romano, non sempre era chiara e netta: ed in effetti, la difficoltà di inquadramento delle due fattispecie è intrinsecamente alta. Giova ricordare, a questo proposito, che nella distinzione tra locazione e vendita la stessa terminologia delle fonti antiche è quanto mai incerta, forse per via dell’instabilità e dell’intrinseca genericità dei due concetti all’origine della configurazione degli istituti (Amirante, Mayer-Maly, da ultimo Fiori).
Gaio afferma, dunque, che laddove vi sia una res locata in perpetuum (espressione da noi già ritrovata nei testi del giurista Paolo e conservata nel Digesto), come nel caso dei terreni pubblici, che vengono locati dietro il pagamento del vectigal (canone), tale locatio è da considerarsi non revocabile, né rispetto al titolare, né rispetto agli eredi. Il punto è, giuridicamente, molto delicato e controverso. Una tale locazione in perpetuum è ancora da considerarsi come una vera e propria locazione? I giuristi non erano concordi. Gaio conclude che la dottrina prevalente (magis placuit), evidentemente dopo una discussione non pacifica, fosse dell’opinione che si trattasse comunque di una locatio (in virtù del pagamento del canone). Possiamo peraltro oggi escludere che la dottrina maggioritaria citata da Gaio sia da ascrivere ad un ambiente giurisprudenziale postclassico (come sosteneva a suo tempo Biondi: contra, per tutti, convincentemente, Gallo). La scelta a favore del contratto di locazione appare senz’altro risalente al diritto classico: e d’altro canto la scelta a favore della locazione (per quanto con le incertezze rilevate), si ritrova già in Labeone (cfr. il citato D. 18.1.80.3).
Peraltro, l’opinione prevalente non sembra in verità soddisfare del tutto Gaio. Egli, infatti, nel paragrafo successivo (Gaius, inst. 3.146), molto noto agli studiosi, conclude nel senso che l’elemento distintivo tra vendita e locazione consiste nella restituzione della res al termine del contratto: restituzione presente nella locatio e assente, invece nell’emptio-venditio. Dunque, a rigore, non essendo prevista alcuna restituzione da parte dei privati nel caso della disponibilità dell’ager publicus, dovrebbe ritenersi trattarsi di vendita. Ma Gaio non porta il suo ragionamento sino a tale conseguenza, pur lasciandola intuire. Certo, una locatio in perpetuum sembrerebbe una sorta di contraddizione in termini, se si seguisse sino in fondo il ragionamento gaiano.
6. La discussione svoltasi nell’ambito della giurisprudenza romana classica è ricordata anche nelle Istituzioni di Giustiniano, che riprendono il tema della concessione di agri publici in perpetuo, rammentando le incertezze del passato, ma risolvendo anche definitivamente la questione:
Inst. Just. 3.24.3:
Adeo autem familiaritatem aliquam inter se habere videntur emptio et venditio, item locatio et conductio, ut in quibusdam causis quaeri soleat, utrum emptio et venditio contrahatur, an locatio et conductio. Ut ecce de praediis, quae perpetuo quibusdam fruenda traduntur, id est ut, quamdiu pensio sive reditus pro his domino praestetur, neque ipsi conductori neque heredi eius, cuive conductor heresve eius id praedium vendiderit aut donaverit aut dotis nomine dederit aliove quo modo alienaverit, auferre liceat. Sed talis contractus, quia inter veteres dubitabatur et a quibusdam locatio, a quibusdam venditio existimabatur: lex Zenoniana lata est, quae emphyteuseos contractui propriam statuit naturam neque ad locationem neque ad venditionem inclinantem, sed suis pactionibus fulciendam, et si quidem aliquid pactum fuerit, hoc ita optinere, ac si naturalis esset contractus, sin autem nihil de periculo rei fuerit pactum, tunc si quidem totius rei interitus accesserit, ad dominum super hoc redundare periculum, sin particularis, ad emphyteuticarium huiusmodi damnum venire. Quo iure utimur.
Nelle Istituzioni gisutinianee, dunque, si ricorda che esiste una qualche “familiarità” tra locazione e vendita, che ne determinava la difficoltà di distinzione, provocando opinioni diverse tra diversi giuristi classici: e ciò proprio in relazione ai fondi pubblici assegnati in perpetuo. Ma la questione era stata risolta, già un secolo prima, con un importantissimo intervento legislativo dell’imperatore Zenone:
Zeno, C. 4. 66. 1 pr. Ius emphyteuticarium neque conductionis neque alienationis esse titulis addicendum, sed hoc ius tertium sit constitutum ab utriusque memoratorum contractuum societate seu similitudine separatum, conceptionem definitionemque habere propriam et iustum esse validumque contractum, in quo cuncta, quae inter utrasque contrahentium partes super omnibus vel etiam fortuitis casibus pactionibus scriptura interveniente habitis placuerint, firma illibataque perpetua stabilitate modis omnibus debeant custodiri : ita ut, si interdum ea, quae fortuitis casibus sicut eveniunt, pactorum non fuerint conventione concepta, si quidem tanta emerserit clades, quae prorsus ipsius etiam rei quae per emphyteusin data est facit interitum, hoc non emphyteuticario, cui nihil reliquum mansit, sed rei domino, qui, quod fatalitate ingruebat, etiam nullo intercedente contractu habiturus fuerat, imputetur : sin vero particulare vel aliud leve damnum contigerit, ex quo non ipsa rei penitus laedatur substantia, hoc emphyteuticarius suis partibus non dubitet adscribendum. * Zeno a. Sebastiano pp. a. 480 (?).
L’imperatore Zenone, dunque, sicuramente intorno alla fine del quinto secolo d.C., forse nel 480 (ma la data è controversa in dottrina), stabilì che le preesistenti concessioni di terra in perpetuo, anche di natura diversa, costituissero da quel momento in avanti, un istituto autonomo: l’enfiteusi.
In tale istituto venivano riunificate concessioni di terra ai privati, come detto, di natura diversa tra loro. Da una parte, si trattava sicuramente di fattispecie di origine ellenistica: conosciamo infatti, sin da età piuttosto antiche, forse sin dal V sec. a.C. (Volterra), forme di concessione in perpetuo – di ambiente appunto ellenistico –, configurate come locazione, di fondi incolti, con l’obbligo per il concessionario di renderli economicamente produttivi, dissodandoli e coltivandoli.
Conosciamo, inoltre, anche forme di assegnazione pressoché coattadi privati su appezzamenti di terra con l’obbligo di dissodarli, soprattutto durante l’impero di Diocleziano, a seguito della ben nota drammatica crisi economica del periodo. Si tratta di assegnazioni operate da parte del princeps o di potentiores.
Infine, convergevano in questo nuovo istituto dell’enfiteusi le concessioni – ad esse, come sappiamo, molto simili – dell’ager publicus ai privati dietro il pagamento del vectigal.
L’enfiteusi diventa così un istituto molto importante e diffuso, la cui natura va brevemente indagata. Con Zenone, la sua configurazione appare ancora un po’ incerta. La stessa terminologia impiegata nelle fonti riflette tale incertezza: in esse si parla infatti, genericamente, di ius colendi o ius possidenti ac fruendi o, ancora di ius colendi heredique suo relinquendi.
A fronte di tale incertezza, alcuni autori (Guarino) sostengono trattarsi di un “rapporto assoluto reale in senso improprio”, come se fosse una “locazione mista a vendita”; altri (Burdese) parlano di un “tipo a sé di contratto”; altri ancora (Volterra) ritengono trattarsi di un diritto reale nuovo e a se stante. Di certo, con la costituzione del 480 (?), la natura giuridica dell’istituto dell’enfiteusi è ancora incerta e diventerà un diritto reale a tutti gli effetti solo con la Compilazione giustinianea. Ma la concreta disciplina di esso è già chiara ed autonoma con la citata costituzione di Zenone. L’imperatore, come si legge nella costituzione riportata, unifica definitivamente le diverse categorie di concessioni già ricordate. Non si tratta più di inquadrare quegli istituti nella locazione o nella vendita (come accadeva nella discussione della giurisprudenza romana classica), bensì di un istituto del tutto nuovo, che riassume situazioni preesistenti in un’unica, autonoma disciplina.
L’enfiteusi è dunque un diritto, alienabile e trasmissibile, sia inter vivos che mortis causa, consistente nel pieno ed esclusivo uso e godimento di un fondo altrui, con l’obbligo di non deteriorarlo e di pagare un canone annuo. L’accordo tra il proprietario della terra ed il concessionario di essa, teso alla concessione in perpetuo, diventava così ius emphyteuticarium, che si costituiva dunque per via contrattuale. Il concedente aveva il diritto di opzione nel caso l’enfiteuta intendesse cedere ad altri la terra (ius protimeseos) e nel caso non intendesse esercitarlo aveva comunque il diritto al laudemio (2% del prezzo di vendita o della stima).
L’obbligo della prestazione periodica non viene mai meno, neppure in caso di variazione di destinazione o danneggiamento anche grave del fondo, ma cessa solo in caso di completa distruzione di esso: a questo proposito, nelle fonti si parla di rischio (come se fossimo ancora in materia contrattuale) a carico del proprietario o dell’enfiteuta a seconda, appunto, del perimento o del deterioramento(della cosa (la terra).
L’enfiteusi risolve così antiche discussioni. La condizione del concessionario è, nei fatti, analoga a quella del proprietario della cosa, anche dal punto di vista della tutela processuale (gli è concessa la rivendica in via utile, l’actio confessoria utilis e gli altri mezzi a difesa della proprietà): egli ha l’unico obbligo (come già nel caso del vectigal sull’ager publicus) di pagamento del canone. In caso di mancato pagamento di tre annualità, il titolare del diritto di enfiteusi decade da esso.
L’istituto dell’enfiteusi, poi, come già visto, sarà ripreso nelle Istituzioni di Giustiniano, che ancora ricordano come la riforma di Zenone avesse chiarito la vecchia discussione tra i giuristi classici sulla configurazione delle concessioni in perpetuo. Lo stesso Giustiniano ne completerà e preciserà la disciplina, che diventa a tutti gli effetti quella di un diritto reale a se stante.
Il diritto medioevale, infine, proprio a partire dall’analisi e dal commento dei testi del Corpus iuris civilis in tema di enfiteusi, elaborerà la teoria della distinzione tra dominio diretto (quello del proprietario) e dominio utile (quello dell’enfiteuta): si tratta di una distinzione ignota ai romani, che tuttavia esplicita piuttosto bene la natura del rapporto tra proprietà ed enfiteusi nella sua concreta dinamica giuridica ed economia.
7. E’ tempo di concludere. La disponibilità di fatto da parte dei privati della terra pubblica nasce da una precisa esigenza economica: lo sfruttamento della terra – bene primario quale mezzo di produzione del mondo antico – per il quale si riteneva che i privati meglio potessero provvedere, rispetto alla proprietà pubblica. Ma i giuristi classici restano sempre incerti nel qualificare l’istituto, che oscilla tra il diritto delle obbligazioni e i diritti reali e, anche nei due diversi ambiti ricordati, in una dialettica irrisolta tra locazione e vendita e tra possessio e forme di proprietà fattuale. In fondo, è lo stesso Gaio che – a proposito in un istituto di altra natura, il dominio c.d. “bonitario” (in bonis habere o esse) – parlò di un duplex dominium: del proprietario astrattamente concepito e del proprietario fattuale. Siamo in ambito evidentemente diverso (anche perché in questo caso la situazione è transitoria per definizione, sino all’usucapione da parte del secondo “proprietario”), ma anche quanto sin qui studiato non appare lontano, nella realtà dei fatti, da una coesistenza di due forme di dominio sulla res, questa volta destinate a durare in perpetuum.
Solo con la riforma complessiva di Zenone (ripresa da Giustiniiano) si avrà una definitiva risoluzione dell’anomalia sin qui ricordata, attraverso la nascita e la completa affermazione del diritto reale di enfiteusi, autonomo rispetto agli altri diritti reali e del tutto distinto dalla materia delle obbligazioni, risolvendosi così ogni incertezza sistematica e le stesse discussioni dei veteres。