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Andrea Di Porto:Inquinamento e Tutela delle Res Publicae sulle Originidi Un Problema


INQUINAMENTO E TUTELA DELLE RES PUBLICAE
SULLE ORIGINI DI UN PROBLEMA
Andrea Di Porto
Ordinario di Diritto romano
"Sapienza" Università di Roma

SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. Il fenomeno dell'inquinamento - 3. Le forme di tutela. Gli interventi del pretore - 4. (Segue) Il contributo di Labeone - 5. (Segue) Prima e dopo Labeone: uno sguardo al panorama giurisprudenziale - 6. Res publicae: appartenenza e tutela. Linee per una ricerca.
  
  
  1. Premessa. - Nel prendere la parola, come studioso del diritto romano, in questo convegno su un tema quale "Il diritto umano all'ambiente. Ipotesi di modifiche costituzionali" sento il bisogno innanzitutto di motivare la mia stessa presenza.
  In linea generale penso che, in una fase dell'esperienza giuridica qual è quella attuale, caratterizzata, fra l'altro, dalla crisi delle categorie tradizionali di fronte all'emersione di nuovi fenomeni (basti pensare proprio al fenomeno inquinamento) e a rivoluzionarie scoperte scientifiche (come ad esempio quelle in campo genetico) e dall'esigenza di individuare, in grandi aree di mercato comune, principi giuridici uniformi, lo studio del diritto romano possa assumere un significato particolare. Lo studio del diritto romano infatti è, tra l'altro, studio di quelle fonti su cui sono state individuate ed elaborate dette categorie e che hanno costituito altresì la base comune sulla quale sono stati edificati i diversi sistemi nazionali rientranti nella c.d. famiglia romanistica. In quanto tale, consente pertanto di ricostruire il "percorso scientifico" che ha portato alla individuazione ed elaborazione delle ricordate categorie e dunque di rendersi "autonomi" dalle costruzioni concettuali sottese per contribuire così, con piena consapevolezza, al dibattito in corso volto appunto a ripensarle. Inoltre, con il recupero, attraverso l'opera di "pulizia concettuale", delle nozioni e soluzioni proprie dei giuristi romani, nozioni e soluzioni che, come è noto, su alcuni grandi temi (basti pensare al contratto, alle res publicae, alla configurazione dei centri di imputazione di rapporti giuridici diversi dalle persone fisiche, alla stessa concezione di diritto), si presentano profondamente differenziate tra i vari giuristi e nelle diverse epoche della storia di Roma, lo studio del diritto romano può in qualche caso offrire spunti e idee per rivedere moderne impostazioni (che magari si riallacciano ad uno dei diversi filoni della giurisprudenza romana) e per individuare nuove soluzioni1. Infine può dare un contributo al processo di elaborazione di "tavole" di principi comuni su cui edificare uno o più sistemi giuridici sovrannazionali.
  In riferimento specifico poi al tema di questo incontro penso che il mio contributo possa consistere nella riflessione:
  A) sul fenomeno dell'inquinamento nel mondo romano;
  B) sulle forme di tutela adottate;
  C) e, in tale ambito, sulla nozione di res publicae sotto il profilo dell'appartenenza e dell'altro, intimamente connesso, della tutela.
  
  
  2. Il fenomeno dell'inquinamento - Il problema dell'inquinamento e dell'adozione di forme di tutela adeguate si affaccia nella storia di Roma nel periodo in cui:
  - si va definendo il nuovo profilo urbanistico della città, caratterizzato, fra l'altro, dalla presenza, specie in alcuni quartieri come l'Aventino e il Celio, di edifici a più piani (insulae) ad alta densità abitativa ed ammassati gli uni agli altri, da un certo sovraffollamento e da strade strette. Cicerone, nel De lege agraria (2.96), nel celebre paragone fra Roma e Capua, si immagina i Capuani tutti intenti a deridere e disprezzare Roma, "situata in cima ai suoi colli e in fondo alle sue valli, sollevata e sospesa con le sue case a parecchi piani, con brutte strade e strettissimi vicoli"2;
  - si va compiendo lo sviluppo dei traffici commerciali e delle attività produttive e, in relazione a ciò, si va ramificando il sistema viario;
  - si va affermando nel campo dell'attività agricola l'economia della villa.
  è in questo scenario che si pongono infatti, in tutta la loro complessità, i problemi di inquinamento. Sono sostanzialmente tre.
  a) Il problema, innanzitutto, dello scarico dei rifiuti dalle abitazioni come delle sostanze inquinanti derivanti da talune attività produttive e commerciali (basti pensare alle fullonicae e alla lavorazione della lana) e della loro canalizzazione mediante un sistema di cloache (pubbliche e private), e quello, connesso, della manutenzione (riparazione e spurgo) delle cloache stesse. La rilevanza di un tale problema parmi dimostrata dalla introduzione da parte del pretore degli interdetti de cloacis (privatis e publicis), la cui esistenza nell'ultimo secolo della repubblica è attestata in modo certo da un noto luogo della Pro Caecina (36) di Cicerone e da una testimonianza del giurista Venuleio Saturnino (in D. 43.23.2), che, per il fatto di richiamare il pensiero di Aulo Ofilio e Trebazio (oltre che quello di Labeone) sul problema dell'applicazione, in via estensiva, dell'interdetto de cloacis privatis al caso di costruzione di nuove cloache, potrebbe addirittura indurre a pensare come, nella seconda metà dell'ultimo secolo della repubblica, almeno tale interdetto fosse già da tempo ampiamente applicato, tanto da profilarsi, attraverso un dibattito oramai maturo, un nuovo e più esteso campo di applicazione.
  b) Il problema poi della salubrità dell'aria, ammorbata dalle esalazioni di particolari attività produttive (ad esempio le tabernae casiariae, le fornaces plumbi, ecc.), dai fumi delle cucine, oltre che naturalmente dagli scarichi non adeguatamente canalizzati e dalle cloache mal funzionanti. Cicerone, in un noto brano delle Verrinae (2.5.27), racconta che Verre, quando usciva in lettiga, si attrezzava contro il lezzo insopportabile grazie a cuscini di rose, a corone di rose al collo e intorno alla testa, a una reticella di lino sottilissimo ricolma anch'essa di rose, che accostava alle narici. Il giurista Nerva padre, secondo quanto apprendiamo da Ulpiano, in D. 43.8.2.29, ritiene debba applicarsi il generale interdetto "ne quid in loco publico vel itinere fiat" al caso in cui un locus sia pestilentiosus, evidentemente per l'esistenza di un fenomeno di inquinamento atmosferico. Ulpiano del resto, più tardi, parlerà di caelum pestilens come conseguenza della cattiva manutenzione delle cloache (D. 43.23.1.2). Seneca in un'epistola a Lucilio (104.6), nel descrivere la sua fuga dalla città verso il podere nomentano per motivi di salute, afferma che, lasciati alle spalle l'atmosfera malsana della città e l'odore delle cucine fumanti (che messe in azione diffondevano insieme alla polvere esalazioni pestilenziali) aveva sentito subito un beneficio per la sua salute. Frontino (De aquaeductu, 88) infine, dopo aver affermato che le acque di scolo ammorbano l'aria e la rendono irrespirabile, si rallegra che al tempo suo questi inconvenienti a Roma siano stati eliminati mentre in passato avevano contribuito alla cattiva reputazione della città.
  c) Il problema infine della purezza delle acque e quello della conservazione delle condizioni naturali dei fiumi. Per rendersi conto di quanto fosse sentito il problema della purezza delle acque basta ricordare le testimonianze di Vitruvio e di Plinio il Vecchio. Il primo, nel De architectura (8.6.1-11), sottolinea come fra i vantaggi che offrono le tubazioni di terracotta rispetto a quelle di piombo, vi sia che "l'acqua che esse portano è molto più salubre di quella che arriva attraverso condutture di piombo" per il fatto che "il piombo inquina l'acqua" e come "bisogna dunque usare il meno possibile condutture di piombo se vogliamo un'acqua dalle qualità salubri". Nella Naturalis Historia (31.34) Plinio precisa che l'acqua di cisterna è nociva al ventre e alla gola per la sua durezza e che per di più "in nessun'altra sono contenuti più fango e animali che fanno ribrezzo". L'esigenza d'altronde di garantire la salubritas aquae è sottesa all'introduzione da parte del pretore, fra la fine del II secolo e la metà del I a.C., degli interdetti de rivis e de fonte volti a tutelare l'attività di purgatio e refectio, rispettivamente, degli impianti di conduttura dell'acqua e dei fontes.
  Per quanto riguarda poi i fiumi, v'è da dire che, mentre il loro inquinamento era sostanzialmente legato a fattori occasionali come i sacrifici cruenti e le battaglie lungo il loro corso e dunque rappresentava un fenomeno sporadico di breve durata3, ben più rilevante era il problema della modificabilità o meno delle loro condizioni naturali, che si presentava anche per l'indiscriminato prelievo delle risorse naturali e per il massiccio disboscamento4. Tale problema si impose, in tutta la sua urgenza e drammaticità, a Roma, nell'anno 15 d.C. Tacito, in un passo degli Annales (1.79), che appare ai presenti fini di straordinaria importanza, racconta del serrato dibattito svoltosi in senato, appunto nell'anno 15, sulla questione "se per regolare le piene del Tevere si dovessero deviare i fiumi e gli emissari dei laghi, per causa dei quali esso cresce". Le soluzioni all'esame prevedono tutte interventi radicali di notevole portata: deviare il corso del Chiana, affluente del Tevere, in modo da farlo confluire nell'Arno; dividere in tanti rivi il Nera; chiudere lo sbocco per cui il lago Velino si scarica nel Nera. Contro tali soluzioni si pronunciano però i rappresentanti di alcuni municipi e colonie interessati, che vengono ascoltati in senato: i Fiorentini si oppongono al progetto che riguarda il Chiana perché avrebbe provocato un'inondazione dell'Arno; quelli di Terni motivano la loro posizione contraria alla divisione del Nera "dicendo che le più fertili pianure d'Italia sarebbero state rovinate"; quelli di Rieti manifestano il timore che le acque del lago Velino, senza sbocco nel Nera, avrebbero allagato i campi adiacenti. Tutti comunque affermano che "al bene degli uomini ha provveduto nel migliore dei modi la natura, la quale ha assegnato ai fiumi le loro fonti, il loro corso e così le sorgenti come le foci; che si deve anche rispettare il sentimento religioso degli alleati, i quali hanno dedicato cerimonie e boschi sacri ed altari ai fiumi patrii; che anzi il Tevere stesso non vorrebbe assolutamente scorrere meno glorioso, senza il tributo dei suoi affluenti". Come si vede i rappresentanti dei municipi e delle colonie, oltre ai motivi fondati sulle loro rispettive esigenze e preoccupazioni, adducono argomenti di carattere "naturalistico", religioso e connessi alla dignità del Tevere. La conclusione è che non se ne fa di nulla.
  Leggiamo le parole con cui Tacito termina il racconto: "sia che abbiano prevalso le preghiere delle colonie o la difficoltà dei lavori o le preoccupazioni religiose, il fatto è che venne accettato i1 parere di Gn. Pisone, secondo il quale non si doveva fare alcun mutamento". Dunque non risulta se la decisione venga assunta sulla base di un unico argomento, un argomento per così dire vincente, o piuttosto, come sembrerebbe più probabile stando al racconto di Tacito, tenendo in conto tutti gli argomenti addotti dai rappresentanti delle colonie e dei municipi5. Quel che comunque ai presenti fini mi sembra significativo è che tra le motivazioni portate a sostegno della soluzione di non intervenire vi sia quella di carattere "naturalistico" ("al bene degli uomini ha provveduto nel migliore dei modi la natura, la quale ha assegnato ai fiumi le loro fonti, il loro corso e così le sorgenti come le foci"); che la decisione adottata consista in ogni caso nel non alterare l'ambiente fluviale e che essa sia presa anche a costo dei gravi danni che avrebbe comportato, il ripetersi cioè delle inondazioni del Tevere; che, nello stesso torno di anni, come si vedrà meglio più avanti, il giurista Labeone (secondo quanto tramanda Ulpiano in D. 43.12.1.12 e D. 43.12.1.18) affermi l'impiego dell'interdetto ne quid in flumine publico ripave eius fiat quo peius navigetur per difendere lo stato naturale dei fiumi, di quelli navigabili e di quelli non navigabili, di quelli pubblici e (fors'anche) di quelli privati6.
  A questo punto penso di poter concludere questa prima parte del discorso dedicata al fenomeno dell'inquinamento nella Roma antica. Lo scenario che ho fin qui tratteggiato mi sembra che consenta di confermare una considerazione che a me sommessamente parve di poter trarre da un lavoro volto a ricostruire il quadro delle forme di tutela della salubritas adottate nell'esperienza giuridica romana a cavallo fra la tarda repubblica e il primo impero7: che cioè anche in antico si presenta una connessione fra sviluppo e inquinamento8.
  
  
  3. Le forme di tutela. Gli interventi del pretore. - Il quadro delle forme di tutela adottate nel contesto appena delineato si presenta ricco di strumenti efficaci e, in certa misura, organico. Esso si caratterizza per i seguenti aspetti.
  A. Lo strumento processuale fondamentale risulta essere l'interdetto pretorio, nella forma proibitoria o restitutoria a seconda dei casi. Uno strumento, com'è noto, molto efficace che soddisfa ad un tempo l'esigenza inibitoria, quella risarcitoria e, all'occasione, quella punitiva. Vi si ricorre, come si vedrà, sia per la tutela di interessi essenzialmente individuali sia per quella di interessi che trascendono la sfera individuale.
  B. Le forme di tutela adottate sono riconducibili essenzialmente a due 'fonti': l'editto del pretore e il giurista Labeone. Il pretore, in un arco di tempo che verosimilmente coincide con gli ultimi decenni del II secolo e la prima metà del I a.C., e dunque nel periodo in cui si affacciano i problemi di inquinamento sopra evidenziati (nel § 2), fornisce le prime soluzioni. Ma appresta altresì la base normativa sulla quale poi, e precisamente quando detti problemi si saranno oramai acutizzati, Labeone opererà per "piegarla" alle esigenze di tutela della salubritas, rivelando una specifica sensibilità oltre che, anche in tale campo9, tutta la sua forza innovativa.
  A fini di chiarezza, ed anche per valutare appieno il contributo dell'uno e quello dell'altro, conviene procedere distintamente.
  Iniziamo dall'editto. Si possono distinguere due categorie di creazioni pretorie:
  a) nella prima rientrano quegli interventi che sono mirati alla tutela della salubritas. E precisamente:
  - l'interdetto proibitorio de rivis purgandis (e reficiendis) e quello, sempre proibitorio, de fonte purgando (e reficiendo), già ricordati e volti a tutelare l'attività di purgatio e refectio, rispettivamente, degli impianti di conduttura dell'acqua e dei fontes10;
  - gli interdetti de cloacis: quello, proibitorio, volto a tutelare l'attività di purgatio e refectio delle cloache private e quello, restitutorio e popolare, per la riduzione in pristino di ciò che sia stato fatto o immesso nella cloaca pubblica sì da renderne deterior l'usus; nonché quello restitutorio in materia di cloache private, con formula forse simile al restitutorio de cloacis publicis, e quello proibitorio e popolare de cloacis publicis, di contenuto corrispondente, mutatis mutandis, al suddetto restitutorio de cloacis publicis11;
  b) alla seconda categoria appartengono alcune importanti creazioni pretorie che non sono dirette alla tutela della salubritas, ma che, come si è avuto modo di dire, costituiscono la base normativa su cui Labeone opererà. Esse sono:
  - l'interdetto restitutorio quod vi aut clam per la riduzione in pristino di un qualunque opus che sia stato fatto in alieno, contro la prohibitio del dominus fundi (vi) o a sua insaputa (clam), interdetto che si caratterizza per il fatto di risultare una sorta di passe-partout a difesa del fondo da ogni tipo di "attacco" e per l'ampia categoria di legittimati attivi che arriva a comprendere coloro "quorum interest opus factum non esse"12;
  - gli interdetti de aqua cottidiana e de aqua aestiva, che si distinguono in ragione della diversa qualificazione dell'acqua, appunto cottidiana o aestiva, e con cui si tutela l'esercizio dell'acquedotto;
  - gli interdetti de fluminibus publicis e precisamente l'interdetto, proibitorio, ne quid in flumine publico ripave eius fiat quo peius navigetur ed il corrispondente restitutorio per la riduzione in pristino nell'ipotesi che taluno abbia fatto o immesso qualcosa nel fiume sì da rendere deterior la statio e l'iter; l'interdetto, proibitorio, ut in flumine publico navigare liceat; l'interdetto, proibitorio, de ripa munienda, diretto alla salvaguardia delle opere di rafforzamento delle ripae dei fiumi pubblici; ed infine l'interdetto, proibitorio, ne quid in flumine publico ripave eius fiat quo aliter aqua fluat atque uti priore aestate fluxit (D. 43.13.1 pr.), con il corrispondente restitutorio (riportato in D. 43.13.1.11)13;
  - infine gli interdetti de locis et itineribus publicis e particolarmente l'interdetto ne quid in loco publico vel itinere fiat e quello in via publica itinereve publico facere immittere quid, quo ea via idve iter deterior sit fiat, veto, con il suo corrispondente restitutorio14.
  
  
  4. (Segue) Il contributo di Labeone. - Il contributo di Labeone si presenta cospicuo. Scorriamo i singoli interventi.
  a) Il giurista sostiene l'applicazione dell'interdetto quod vi aut clam ad ogni forma di inquinamento del "patrimonio idrico del fondo", intendendosi con tale espressione l'acqua che si trova sul fondo, o perché ivi nasce o ivi viene raccolta (ad es. in cisterne, peschiere o anche pozzi) o perché infine ivi giunge. Si tratta di una interpretazione ardita della formula edittale. Questa viene infatti generalmente riferita ai casi di opus in solo, mentre Labeone la intende in senso più ampio, comprensiva appunto anche dei casi di inquinamento dell'acqua (opus in aqua)15.
  b) Estende gli interdetti de aqua cottidiana e de aqua aestiva a tutti i casi in cui l'acqua condotta inquinetur vitietur corrumpatur venga comunque resa deterior, con ciò, in certo senso, completando il "meccanismo" di difesa del patrimonio idrico del fondo da ogni forma di inquinamento16;
  c) Sulla disciplina interdittale de fluminibus publicis il nostro giurista interviene in profondità. Con tali interdetti il pretore ha infatti di mira la tutela della navigabilità dei fiumi pubblici nonché gli interessi particolari dei proprietari o possessori dei fondi rivieraschi17. Labeone invece, estendendo l'applicazione dell'interdetto ne quid in flumine publico ripave eius fiat quo peius navigetur ad ogni forma di uso comune dei fiumi ed a qualsivoglia intervento sui fiumi stessi (navigabili e non navigabili, pubblici e privati) tali da rendere comunque deterior l'iter cursus fluminis, mostra di "avere a cuore" tutt'altro. Al fondo della previsione del giurista sembra stare la preoccupazione per la salubrità delle acque fluviali e per il mantenimento delle loro condizioni naturali di scorrimento18. Una preoccupazione che, come emerge anche dalle ricordate testimonianze di Plinio il Vecchio (Nat.hist. 18.3) e di Tacito (Ann. 1.79), sembra essere parecchio avvertita in quel periodo.
  d) Anche in materia di cloache il contributo di Labeone appare rilevante. Egli infatti:
  - estende l'applicazione dell'interdetto proibitorio de cloacis privatis, previsto dal pretore per la cloaca che ex aedibus eius in tuas pertinet, anche alle cloache che corrono sull'area circostante gli edifici urbani e pure a quelle che vanno dagli edifici urbani agli agri vicini19;
  - ritiene doversi tutelare con l'interdetto stesso anche l'attività volta a collegare una cloaca privata al sistema delle cloache pubbliche20;
  - sembra addirittura far rientrare sotto la protezione interdittale l'attività diretta alla costruzione di nuove cloache21.
  Una tale serie di interventi, di segno così univoco, mi pare imponga una considerazione d'insieme. Di fronte al pretore, che, con gli interdetti de cloacis privatis e con quelli de cloacis publicis, mostra di guardare essenzialmente al problema - certo rilevante - del buon funzionamento degli impianti privati e pubblici esistenti, preoccupandosi in buona sostanza che le cloache esistenti non provochino inquinamento, Labeone sembra avere di mira un progetto più ambizioso. Il giureconsulto infatti, soprattutto per gli interventi a tutela della attività di costruzione di nuove cloache e di collegamento di quelle private alla rete pubblica, sembrerebbe avere in testa una sorta di progetto igienico-sanitario. La sua elaborazione, che si rivela in una qualche misura organica, sembrerebbe cioè perseguire la realizzazione di un modello razionale di eliminazione dei rifiuti. Un modello fondato su una rete di cloache private e pubbliche collegate fra loro, un modello che soddisfa nel modo migliore le esigenze di tipo igienico-sanitario e quelle di salubrità dell'aria.
  e) Per ultimo ricordo il contributo di Labeone in tema di inquinamento dei loca publica. Il giurista, secondo quanto tramanda Ulpiano in D. 43.8.2.26, si sofferma in particolare sull'inquinamento della via publica prodotto dall'immissione di una cloaca, affermando l'applicabilità dell'interdetto proibitorio e popolare in via publica itinereve publico facere immittere quid, quo ea via idve iter deterius sit fiat, veto o, a seconda dei casi, del corrispondente interdetto restitutorio (e sempre popolare). Ma attraverso ciò fa intravedere pure le grandi linee di una più generale concezione di tutela della salubrità dei loca publica, che affida al civis, attraverso gli interdetti popolari relativi, un ruolo di primo piano. Concezione legata ad una determinata nozione di res publicae propria dell'epoca repubblicana su cui si tornerà tra breve.
  
  
  5. (Segue) Prima e dopo Labeone: uno sguardo al panorama giurisprudenziale. - In base alle fonti di cui disponiamo, Labeone, nel periodo considerato, risulta certo il giurista con la più spiccata sensibilità per il problema, diciamo così, della salubritas. I suoi interventi sono numerosi. Toccano un po' tutti gli aspetti del fenomeno. Presentano una certa organicità. Insomma, appaiono come il frutto di una elaborazione unitaria sul tema, sembrano quasi un "corpus".
  Ma Labeone non è una voce isolata nel panorama giurisprudenziale del periodo fra tarda repubblica e primo impero. Non mancano, infatti, prima e dopo di Labeone, verrebbe da dire intorno a Labeone spunti e anche chiare prese di posizione da parte di altri giuristi.
  Uno spunto felice, che poi riprenderà lo stesso Labeone, è in Aulo Ofilio, giurista appartenente alla scuola di Servio Sulpicio Rufo, in favore dell'applicazione della disciplina interdittale de cloacis a tutela dell'attività di costruzione di nuove cloache22. Sul medesimo problema e nello stesso senso si pronuncia23 pure Trebazio Testa, il giureconsulto amico di Cicerone, che gli dedica i Topica, e maestro di Labeone. Per quanto riguarda Trebazio Testa, invero, si coglie dalle fonti più di un semplice spunto sul tema. A lui infatti è attribuita da Ulpiano (in D. 43.20.1.18) l'opinione di estendere l'interdetto de aqua cottidiana24, creato dal pretore come si è sopra visto per tutelare l'esercizio dell'acquedotto, al caso di inquinamento dell'adpulsus pecoris. Sempre stando a Ulpiano (in D. 39.3.3 pr.) è di Trebazio il merito di avere sollevato il dibattito intorno all'importante problema dell'inquinamento del fondo prodotto dall'acqua sporca che fuoriesce dagli impianti delle fullonum officinae25. A Trebazio infine (come tramanda Venuleio Saturnino in D. 43.24.22.3) risale l'ardita posizione - tanto ardita da essere criticata perfino da Labeone (com'è testimoniato nello stesso D. 43.24.22.3) - favorevole alla concessione dell'interdetto quod vi aut clam per il sol fatto che taluno abbia trasportato letame attraverso il fondo di un altro, contro la di lui prohibitio ma senza aver prodotto alcun danno al proprietario del fondo né aver mutato la qualità del fondo stesso26.
  Fin qui siamo prima di Labeone.
  Subito dopo troviamo una breve quanto significativa testimonianza di Nerva padre, giurista legato scientificamente a Labeone ed intimo di Tiberio che seguì a Capri dove però nell'anno 33 si uccise27. La testimonianza, che è tramandata da Ulpiano in D. 43.8.2.29 e che ho già avuto modo di richiamare più sopra, riguarda la salubritas dei loca publica e si ricollega alla previsione di Labeone, contenuta in D. 43.8.2.26, relativa all'applicazione degli interdetti a tutela delle viae publicae al particolare caso dell'inquinamento della via publica prodotto dalla immissione di una cloaca. Essa anticipa o per meglio dire prepara la riflessione che mi accingo a fare sulla nozione di res publicae. Vediamo di cosa si tratta leggendo direttamente le parole con cui Ulpiano riporta il pensiero dell'allievo di Labeone: Idem ait, si odore solo locus pestilentiosus fiat, non esse ab re de re ea interdicto uti.
  Nerva, dunque, ritiene applicabile il generale interdetto ne quid in loco publico vel itinere fiat28 al caso in cui un locus publicus sia pestilentiosus solo odore. Si tratta di una presa di posizione di straordinario significato. Il giurista infatti, specificando che la concessione dell'interdetto è ammessa anche per il solo odore pestilenziale, dunque a prescindere da qualunque altra circostanza, a cominciare dalla fonte da cui l'odore deriva, considera "deteriorato" l'usus dei luoghi pubblici, comprese le vie, per il sol fatto che l'aria circostante e sovrastante risulti fortemente inquinata e con ciò dà rilevanza giuridica autonoma alla salubrità dell'aria. Ma v'è di più. L'interdetto in questione è popolare. Col che la tutela della salubrità dell'aria sovrastante i loca publica risulta affidata al civis, all'utente dei loca publica medesimi. Perché? V'è una connessione con la stessa nozione di res publicae? E qual è questa nozione? Si presenta unitaria nelle diverse epoche della storia di Roma? Su quale filone della tradizione si innesta la nozione moderna di bene pubblico? Ecco, è giunto il momento di riflettere su queste domande.
  
  
  6. Res publicae: appartenenza e tutela. Linee per una ricerca. - La nozione di bene pubblico, ha affermato il presidente de Roberto nella brillante ed acutissima relazione, è uno dei nodi intorno a cui ruota, nel mondo attuale, la problematica della tutela dell'ambiente. L'affermazione è esatta. Su di essa mi permetto di riflettere brevemente con riferimento alla situazione italiana.
  Già nel sistema del codice civile risulta chiara un'opzione fortemente "statualistica". Ad una nozione di bene demaniale imperniata sul criterio della proprietà individuale dello Stato - e, per taluni beni, degli altri enti territoriali - corrisponde, direi coerentemente, l'attribuzione della relativa tutela alla autorità amministrativa (artt. 823, co. 2; 824 e 825 c.c.). Non si dà alcuna rilevanza, sotto il profilo in esame, alla fondamentale distinzione fra beni pubblici destinati all'uso generale, consentito indistintamente a tutti i cittadini (si pensi, ad esempio, al demanio marittimo, idrico, ecc.), e beni che a tale uso non sono destinati. Anche con riguardo alla tutela dei primi, fra i quali - semplificando - si è andati ricomprendendo il "bene ambiente", il cittadino in quanto tale si trova privo di poteri incisivi. E in un tale quadro neppure qualche "spiraglio" presente nel sistema, come l'art. 1145, co. 2 c.c., è stato utilizzato da dottrina e giurisprudenza per creare un qualche spazio all'azione del cittadino utente di detti beni. Tale norma, che, come si sa, concede l'azione di spoglio nei rapporti interprivati rispetto ai beni appartenenti al pubblico demanio, è stata infatti sempre interpretata nel senso di non consentire l'azione a chi ha l'uso comune di detti beni, a colui che si comporta rispetto ad essi semplicemente come qualunque altra persona che, uti civis, se ne serve secondo la loro destinazione. E la voce contraria di Giuseppe Branca - non a caso romanista, per quel si dirà - per quanto autorevole, è rimasta isolata29. Di fronte ad una simile configurazione della nozione di bene pubblico ben si spiega la scelta operata dal legislatore con la legge 8 luglio 1986, n. 349, che ha istituito il Ministero dell'Ambiente. L'art. 18 di tale legge, affermando che il danno all'ambiente è da considerarsi danno allo Stato, che la legittimazione all'azione di risarcimento del danno ambientale spetta allo Stato stesso (nonché agli altri enti territoriali sui quali incidono i beni oggetto del fatto lesivo) e che il cittadino in quanto tale, la "persona umana" ha soltanto il mero potere di denuncia dei fatti lesivi dei beni ambientali, ha sostanzialmente stabilito che l'ambiente è dello Stato-persona giuridica, ribadendo gli schemi legati alla proprietà individuale dello Stato appunto. Dunque: nozione di bene pubblico nodo della tutela dell'ambiente. Ed ancora: appartenenza e tutela, due facce della medesima medaglia.
  Anche nel mondo romano la tutela della salubritas delle res publicae si inserisce nel più generale ambito della disciplina delle res publicae. E la tutela delle medesime è intimamente legata al modo di configurarne l'appartenenza. Tenterò di motivare per grandi linee queste affermazioni, con ciò rispondendo alle domande formulate alla fine del paragrafo precedente, dopo l'esame della testimonianza di Nerva padre a proposito della tutela della salubrità dell'aria.
  Devo innanzitutto chiarire che, parlando di tutela delle res publicae faccio riferimento a quell'ampia categoria di res publicae che i giuristi romani chiamano: "res in usu publico" oppure "res quae usibus populi perpetuo expositae sint" o ancora "res quae publicis usibus destinatae sunt". Tali sono: i loca publica, cioè (secondo la nota definizione di Labeone riferita da Ulpiano in D. 43.8.2.3) agri, aree urbane, edifici, vie, piazze; i fiumi pubblici; le cloache pubbliche.
  Che poi la tutela della salubritas delle res publicae si inserisca nel più generale ambito del regime delle res publicae è dimostrato da quanto si è sopra detto a proposito del processo di formazione del quadro delle forme di tutela. Infatti, se si escludono gli interdetti de cloacis publicis, che, come si è a suo tempo sottolineato, sono creati dal pretore direttamente a fini di difesa della salubrità delle città, gli altri interdetti che vengono impiegati nei più diversi casi di inquinamento e deterioramento dei beni pubblici sono null'altro che quelli che il pretore ha introdotti a generale tutela delle res publicae e che poi vengono "piegati" da Labeone e da Nerva alle esigenze di difesa della salubrità delle res publicae medesime. Mi riferisco, come si ricorderà, agli interdetti relativi ai luoghi pubblici, alle vie pubbliche e ai fiumi.
  Ora, come si sa - anche se, per il vero, la materia degli interdetti e azioni popolari è praticamente sparita persino dalle trattazioni manualistiche, come peraltro non mancò di rilevare, in un fine lavoro del 1955 su Fadda e la dottrina delle azioni popolari30 Francesco Paolo Casavola (ma la situazione non è mutata successivamente) -, il regime delle res publicae prevede per il civis un ruolo attivo. Al cittadino, al quivis e populo è affidata buona parte della responsabilità della tutela delle res publicae, che realizza attraverso lo strumento degli interdetti popolari più sopra indicati e l'operis novi nuntiatio publici iuris tuendi gratia. Si tratta di strumenti che tutelano un diritto proprio di un qualsiasi membro del popolo; un "diritto pubblico diffuso" per usare la terminologia adoperata da Scialoja oltre cento anni fa31; un diritto cioè che spetta all'individuo (a ciascuno individuo) come membro del popolo, ma tuttavia, spetta a lui (a ciascuno) e non già al popolo come ente diverso e distinto da lui32. Strumenti, gli interdetti popolari in questione, che si fondano sul generale diritto dei cittadini all'uso comune delle res publicae33.
  Un simile regime delle res in usu publico si ricollega alla nozione stessa di res publicae come res populi.
  E tale nozione è strettamente legata alla concezione del populus Romanus. Populus Romanus che, seguendo una linea interpretativa che va da Jhering34 a Scialoja35 sino, da ultimo, a Catalano36, viene concepito come pluralità di cittadini, come "tutti i cittadini", non come una persona, una entità astratta, distinta cioè dai cives che la compongono. Anche la sua considerazione unitaria, come centro di imputazione unitario, non è disgiunta dalla pluralità. Sembra netta la differenza dallo "Stato moderno" che invece si presenta come "una persona affatto distinta", un soggetto di diritto (persona giuridica) distaccato dai cives che lo costituiscono37.
  D'altra parte, anche chi38 ritiene che il populus Romanus "sin dall'inizio dell'epoca repubblicana abbia una personalità nettamente separata da quella dei singoli cives" afferma che "sussistono, però, altri aspetti, che non incidono sostanzialmente su tale autonomia, ed in cui, ancora in età classica, traspare dalle fonti una configurazione diversa, la quale mostra un minore livello di indipendenza fra la situazione giuridica degli associati ed il patrimonio dell'ente" e che "ciò si può isolatamente riscontrare nel regime delle res publicae...".
  A questo punto si può provare ad impostare una domanda: il modello di tutela delle res publicae (e dunque della salubritas delle stesse) fin qui tratteggiato è l'unico che ci offre il diritto romano?
  Mi sembrerebbe di poter dire sia il più antico. Quello che affonda le sue radici nella ideologia e nei principi propri dell'epoca repubblicana matura.
  Nell'epoca imperiale mi pare si possa cogliere una tendenza all'astrazione, alla separazione del populus dai cives39. Una tendenza, schematizzando, dai plures all'unus. Di cui certo si individuano le tracce già nell'ultima Repubblica. Muta la concezione delle res publicae. Fadda40, in ciò superando l'impostazione di Bruns, spiega la diffusione delle azioni popolari (con condanna a favore delle casse pubbliche) con il fatto che "l'idea di Stato va sempre più distaccandosi da quella della collettività" e (proporzionalmente) "l'offesa agli interessi generali viene considerandosi gradatamente come un'offesa allo Stato rappresentante di tali interessi". Ma direi che non si giunge mai alla configurazione dello Stato moderno, come persona giuridica astratta e separata dai cives.
  Al modello di tutela delle res publicae che prevede un ruolo di grande rilievo del cittadino - ruolo che svolge con lo strumento degli interdetti popolari - si va progressivamente sostituendo, in relazione al processo sopra delineato, un "modello" più complesso, in cui ai magistrati, che poi saranno sostituiti, con analoghe funzioni, dai funzionari imperiali, viene riservata la cura di taluni beni (sembrerebbe di quelli più importanti) mentre al civis viene ancora mantenuto un ruolo attivo ma, appunto, limitatamente ad alcune categorie di res publicae (ad es. solo le viae publicae rusticae)41.
  Per concludere mi pare si possa dire che fra Repubblica e Impero un grande "snodo" si sia compiuto. Il passaggio cioè dai plures (cives) verso l'unus, che assumerà, in tempi moderni, la precisa configurazione dello Stato-persona giuridica astratta. In connessione emergeranno le moderne concezioni di bene pubblico, che oggi, proprio sotto la spinta di fenomeni quali l'inquinamento dell'ambiente, occorre ripensare, accelerando, come è stato autorevolmente detto, "la dissoluzione degli schemi legati alla proprietà individuale dello Stato ed accentuando invece l'aspetto della libera utilizzazione da parte dei cittadini di tale categoria di beni"42.
  
    1 Esemplare mi pare, in tal senso, la recentissima opera di GALLO, Sinallagma e conventio nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria contrattuale e spunti per la revisione di impostazioni moderne, I, Torino, 1992, passim.
    2 Per un simile scenario cfr. pure Tacito, Hisoriaet. 3.71; Mart. 1.86; 1.117.7; 7.20.20.
    3 Cfr. Cicerone, Tusculanae disputationes, 5.97; Plin. nat. hist. 18.2-3; 31.55; Strab. 6.2.4. Sul punto v. FEDELI, La natura violata. Ecologia e mondo romano, Palermo, 1990, 6 ss.
    4 Ai diversi atteggiamenti che emergono dalle fonti in ordine al problema del disboscamento dedica belle pagine FEDELI, La natura violata, cit., 72 ss.
    5 FEDELI, La natura violata, cit., 65, ipotizza che per Tacito la superstitio abbia avuto il peso maggiore.
    6 Sul punto v. DI PORTO, La tutela della salubritas fra editto e giurisprudenza. I. Il ruolo di Labeone, Milano, 1990, 99 ss.
    7 è il libretto cit. supra nota precedente.
    8 Ad una simile conclusione conduce pure la già citata (supra, nt. 3) ricerca del Fedeli sui rapporti fra uomo e ambiente nel mondo romano, condotta da altro angolo visuale rispetto alla mia e uscita contemporaneamente, nel 1990.
    9 Per il contributo dato da Labeone in materia contrattuale cfr. GALLO, Sinallagma e conventio nel contratto, cit., passim.
    10 Il testo del primo che può verosimilmente farsi risalire agli ultimi decenni del II sec. a.C., è tramandato da Ulpiano in D. 43.21.1 pr.; quello del secondo, che può attribuirsi al più tardi alla metà del I sec. a.C., è riportato sempre da Ulpiano, in D. 43.22.1.6. Su entrambi cfr. DI PORTO, op. cit., 91 ss.
    11 Su tali interdetti cfr. DI PORTO, op. cit., 11 ss.
    12 Così precisamente Giuliano in Ulp. D. 43.23.11.14. Cfr. DI PORTO, op. cit., 3 ss.
    13 Sugli interdetti de fluminibus cfr. DI PORTO, op. cit., 99 ss.
    14 Il primo è in Ulp. D. 43.8.2 pr.; il secondo in Ulp. D. 43.8.2.20 ed il corrispondente restitutorio in Ulp. D. 43.8.2.35.
    15 Il pensiero di Labeone, sul punto, è tramandato da Ulpiano in D. 43.24.11 pr.: cfr. DI PORTO, op. cit., 3 ss.
    16 Cfr. D. 43.20.1.2 (Ulp. 70 ad ed.).
    17 Alla tutela dei quali sembrano essere rivolti l'interdetto proibitorio ne quid in flumine publico fiat quo aliter aqua fluat, atque uti priore aestate fluxit ed il corrispondente restitutorio: sul punto, discusso in dottrina, v. DI PORTO, op. cit., 101 ss., 112 ss. e ntt. 333, 334, 335, dove è anche un tentativo di spiegazione dell'interpretazione, nettamente minoritaria, secondo cui i due interdetti garantiscano le normali possibilità d'uso comune del fiume turbate dal facere o dall'immittere, per cui aliter aqua fluat, quam priore aestate fluxit, in connessione col pensiero di Labeone racchiuso in D. 43.12.1.12 e D. 43.12.1.18.
    18 Su D. 43.12.1.12 e D. 43.12.1.1, cfr. DI PORTO, op. cit., 99 ss.
    19 Così secondo Ulp. D. 43.23.1.8.
    20 Ulp. D. 43.23.1.9.
    21 è quanto viene tramandato da Venuleio Saturnino in D. 43.23.2.
    22 Cfr. Ven. D. 43.23.2.
    23 Sempre stando a Ven. D. 43.23.2.
    24 O quello de fonte secondo GROSSO, Le servitù prediali nel diritto romano, Torino, 1969, 31 e nt. 15.
    25 Sulla rilevanza del fenomeno delle fullonicae, sia per la loro grande diffusione sia per la molteplicità delle attività ad esse facenti capo in antico sia per la connessione con la lavorazione della lana sia, d'altra parte, per l'elevato tasso inquinante degli scarichi prodotti dalle loro attività, cfr. DI PORTO, op. cit., 68 ss.
  Sull'interpretazione di D. 39.3.3 pr. cfr. pure DI PORTO, op. cit., 56 ss.
    26 Sulla delicata controversia, sul punto, fra Trebazio e Labeone cfr. DI PORTO, op. cit., 28 ss.
    27 ARANGIO-RUIZ, Storia del diritto romano, Napoli, 1957, 282, nt. 2, a sottolineare il legame, non solo scientifico, di Nerva padre con Labeone, vedrebbe addirittura nel suicidio di Nerva a Capri, quando il principato di Tiberio inclinava verso la tirannide, un tragico riflesso dell'atteggiamento del maestro Labeone nei confronti di Augusto, caratterizzato da indipendenza e dalla fedeltà alle concezioni ed ai valori propri della costituzione repubblicana.
    28 Come sembrerebbe doversi dedurre dal riferimento a locus. L'altra interpretazione sarebbe che Nerva faccia riferimento allo speciale interdetto relativo alla via publica (in via publica itinereve publico facere immittere quid...veto) ma non mi pare sorretta da alcun aggancio testuale.
    29 Cfr. BRANCA, Sulla detenzione rispetto ai beni demaniali, in Foro it., 1958, 1147 ss.
    30 In Labeo, I, 1955, 131 ss.
    31 Nella Prefazione alla traduzione de Le azioni popolari romane di BRUNS, in Arch. giur., 1882, ora in Studi giuridici, I, 1, Diritto romano, 117.
    32 Così precisamente SCIALOJA nella Prefazione, cit., 117.
    33 JHERING, Der Geist des roemischen Rechts, I, 187.
    34 Geist, cit., 183 ss.
    35 SCIALOJA, Prefazione, cit., 108 ss.
    36 CATALANO, Alle radici del problema delle persone giuridiche, ora in CATALANO, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, I, Torino, 1990, 164 ss.
    37 SCIALOJA, Prefazione, cit., 108 ss.
    38 Da ultimo, autorevolmente, TALAMANCA, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 177 ss. e particolarmente 181.
    39 FADDA, L'azione popolare. Studio di diritto romano ed attuale. Parte storica, Diritto romano, Napoli, 1894, 374. E pure CATALANO, Alle radici del problema delle persone giuridiche, cit., 16 ss.
    40 FADDA, Op. cit., 374. Sul lavoro di Fadda v. il finissimo saggio di CASAVOLA, Fadda e la dottrina delle azioni popolari, cit., 144 ss.
    41 Cfr. Ulp. D. 43.8.2.24.
    42 RODOTà, Le azioni civilistiche, in AA.VV., Le azioni a tutela di interessi collettivi, Padova, 1976, 100.
  

  
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     Testo della relazione svolta al Primo Corso di Alta formazione sul diritto romano per docenti della Reppubblica Popolare Cinese, e pubblicato in cinese, con autorizzazione d'autore, in Digesta (Xue Shuo Hui Zuan), vol.II, Pechino, 2009.











发布时间:2012-12-17  
 

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