Proprietà e diritti reali, dal diritto romano alle prospettive della modernità
Luigi Caporossi Colognesi
Professore di Università di Roma "La Sapienza"
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Uno schema fondamentale, che distingue i rapporti obbligatori dai diritti reali, unisce gli attuali sistemi giuridici dell'Europa continentale per la loro comune derivazione dal diritto romano. Si tratta di uno schema che ogni studente universitario assorbe tra i primi, nell'avviarsi agli studi di giurisprudenza: almeno nell'Europa continentale, e che costituisce tuttora un sistema fondante dell'esposizione manualistica del 'diritto privato', sia esso relativo ai sistemi di diritto positivo, sia riferito al diritto romano. Esso, dal più antico diritto romano, attraversa la storia dei diritti medievali e moderni, consacrato infine dalle moderne codificazioni e dalle grandi teorie civilistiche ottocentesche.
Ora io vorrei iniziare appunto richiamando l'attenzione sul fatto siffatta distinzione non sia per nulla un elemento naturale, non sia insomma 'iscritta nelle cose, tant'è che non si ritrova con altrettanta chiarezza in altre esperienze giuridiche. Al contrario essa, o meglio la netta separazione della proprietà - o del suo antecedente romano arcaico - e di tutti gli altri diritti aventi un contenuto patrimoniale e realizzati attraverso vincoli obbligatori, si presenta sin dall' inizio.
La matrice originaria di tale distinzione si fonda, come tanti altri aspetti del diritto romano, su uno schema processuale che risale almeno all'inizio dell'età repubblicana. La presenza infatti di due schemi processuali distinti - l' actio in personam e quella in rem - dovette essere addirittura anteriore alle XII Tavole. Mentre tutte le pretese di carattere economico che tuttavia richiedono un 'fare' o un 'dare' da parte di un particolare individuo rifluisono nel primo tipo di actio che si rivolge necessariamente e prioritariamente a questo individuo, diversa è la condizione della proprietà primitiva. Ma non solo anche il rapporto che un padre ha con il figlio, la signoria sulla moglie e quella, più pesante, su uno schiavo, si esprimono invece con un'affermazione generale: meum esse aio. In quest'affermazione si esprime quello che noi chiamiamo un diritto 'assoluto' di un cittadino che comporta un generale obbligo, da parte di tutti i consociati, a rispettarlo, a non arrecare turbative. Ovviamente in giudizio si andrà solo se una tale turbativa sia arrecata, e ci si rivolgerà all'autore di essa. Ma la turbativa più grave è se un altro consociato pretende di essere lui stesso il titolare di questo diritto assoluto: allora le pretese dei due litiganti si contrapporranno in modo che l'una escluda radicalmente l'altra: o è giusto il meum esse del primo o è giusto quello del suo avversario: spetta al giudice di decidere.
Il quadro così definito non è dunque il prodotto di una scienza giuridica che ancora non esiste e, forse, neppure tanto il frutto del consapevole sforzo delle tecniche pontificali, quanto il risultato di schemi processuali differenziati in ordine alla struttura stessa, se non alla natura, del bene controverso. è pertanto il primitivo sistema processuale romano a rendere evidente ed a necessitare tale diversità.
Certo, in questa età delle origini, ed ancora per molto tempo, i Romani non pervengono ad un concetto astratto di proprietà: esso s'incarna piuttosto nel fatto materiale del rapporto con il bene. Sia nei negozi costitutivi di un tale diritto, sia nel momento del litigio intorno alla sua titolarità, è alla solenne affermazione del 'meum esse' che ci si affida per esprimere codesta signoria giuridica. Signoria che, a sua volta, richiede uno specifico comportamento delle parti interessate - un accordo secondo una forma prestabilita - perché esse possa essere trasferita da un cittadino ad un altro. Le XII Tavole non fanno che recepire pratiche precedenti, allorché, in Tav. 6. 1, e 6, richiamano le due forme solenni della mancipatio e della in iure cessio come i negozi indispensabili per la cessione di una delle res mancipi: le cose più importanti nel patrimonio dei privati. La necessità di un apposito negozio traslativo, non essendo sufficiente il mero accordo, accompagnerà l'esperienza giuridica romana anche nel suo percorso più evoluto.
L'aspetto che, invece, in questa fase relativamente risalente, potrebbe essere il frutto di un primo tentativo di elaborazione da parte dei Pontefici è il riconoscimento di uno strumento di 'certezza del diritto', se vogliamo parlare con linguaggio moderno, attraverso la adeguazione del 'diritto' alla situazione materiale ad esso corrispondente. In effetti le forme di tutela processuale e i relativi contenuti delle pretese giuridiche che ho sopra richiamato appaiono preesistere a qualsiasi innovazione normativa, seppure già disciplinate dall' intervento dei pontefici, appartenendo al nucleo tradizionale dei mores la cui genesi si perde nelle origini cittadine. Diversa è invece la situazione dell'usus. E' abbastanza poco verosimile che esso appartenga a questo stesso patrimonio originario e, diciamo così, 'irriflesso' della comunità primitiva. Propenderei piuttosto ad associarlo ad un intervento normativo della civitas, o comunque ad un processo di elaborazione al suo interno, consacrato in seguito nella normativa decemvirale. Certo si è che, già nelle XII Tavole esso appare pienamente regolato (Tav., 6. 3: citare).
Questo istituto è di fondamentale importanza, giacché esso sancisce la radicale distanza tra i diritti obbligatori che ad esso sono del tutto estranei, e il diritto di proprietà, cui esso si applica. Attraverso di esso, a partire appunto dalle XII Tavole, nel corso del secolo successivo (quando meglio si definì un sistema di assegnazione ai cittadini delle terre pubbliche di Roma, che questi avevano in godimento - possessio - ma non in proprietà essendo questa di Roma) venne emergendo nei pontefici e negli specialisti del diritto romano primitivo la consapevolezza di una situazione di fatto, difficilmente assimilabile a un diritto. Si trattava del rapporto materiale con la cosa che, persistendo nel tempo per uno o due anni, portava all'acquisto della proprietà piena su di essa mediante l'usus. Questo rapporto durato ininterrottamente nel tempo non era un diritto (non si usucapisce una cosa che è già propria), ma ingenerava un diritto: l'acquisto della proprietà appunto.
2.
Dobbiamo partire da questa consapevolezza e dai nuovi sviluppi da essa ingenerata nel lavoro dei giuristi romani. Giacché, in progresso di tempo, si venne a dare una rilevanza in se e per sé a questa situazione materiale. Fu un processo molto complesso e solo al termine di esso il vocabolo posssessio apparve nel linguaggio giuridico romano, ben dopo l'arcaico usus, con una connotazione parzialmente diversa. Non si tratta solo di un fatto terminologico: sul diverso valore di questi due vocaboli e sul solo successivo riconoscimento della possessio come figura autonoma si è ampiamente discusso in dottrina. Qui mi limiterò a sottolineare come l'arcaico usus si presenti con una duplice ambivalenza. Da una parte con applicazione più vasta (anche a certi rapporti familiari) che non la semplice signoria sulla cosa. Dall'altra comprendendo in se tanto la situazione materiale (quello che si chiamerà in seguito 'possesso') che l'effetto di essa con l'acquisto del diritto ad essa corrispondente.
Nel III sec.a.C. si compie questa rivoluzione, talché, già prima delle guerre annibaliche il Pretore romano introduce una formidabile innovazione creando un nuovo strumento processuale volto a tutelare, non già la proprietà od altri diritti, ma 'il fatto' di possedere. E questo probabilmente sia che il possesso riguardasse terre pubbliche, sia che riguardasse un bene privato in proprietà di un terzo.
Ma, in tal modo, si apriva la strada ad ulteriori e per certi versi ancor più importanti sviluppi. Ancora in un'epoca in cui non era venuta imponendosi una vera e propria 'scienza giuridica' in Roma ed in cui questo tipo di sapere era in gran parte monopolio di una gruppo ristretto di sacerdoti a ciò designati, si riconobbe il particolare rapporto che doveva sussistere tra possesso e proprietà. Sotto almeno due profili. Anzitutto perché il possesso continuato nel tempo portava alla proprietà, in secondo luogo perché il possesso non era in genere che il riflesso materiale del potere del proprietario. Questi esercitava il suo diritto attraverso il godimento materiale del bene: il suo possesso.
E qui interviene una vera e propria rivoluzione destinata ad incidere in profondità, non solo sugli sviluppi del diritto romano, ma sul modo in cui esse è stato recepito nella storia moderna. Giacché immediatamente di seguito, comunque non oltre la metà del II sec.a.C. venne affiorando, sempre ad opera di quel fondamentale controllore e innovatore della vita giuridica di Roma che è il Pretore, un nuovo modo di litigare intorno alla proprietà.
Sino ad allora, nella vecchia legis actio in rem i due litiganti erano posti sullo stesso piano: ciascuno di essi affermava che la cosa era 'sua': il giudice dava ragione all'uno e torto all'altro in base a ciò che ciascuno era riuscito a dimostrare. Ora s'introduce un modo più 'moderno' di litigare intorno ad una cosa, dandosi adeguato rilievo al possesso, quasi come presunzione dell'esistenza del diritto correlato. Così il pretore evita di mettere i due litiganti sullo stesso piano e impone solo a chi non sia l'effettivo possessore di un bene, l'onere di rivendicarne la proprietà, adducendone in proposito le prove necessarie. Questa rivendica deve e può essere rivolta solo al possessore di questo stesso bene: il quale, nella qualità di convenuto, non deve provare nulla. Egli vince la causa anche solo per il fatto che il suo avversario, l'attore, non sia riuscito a provare la sua pretesa.
La posizione processuale - attore e convenuto - ed il conseguente onere di provare la titolarità della proprietà sono ormai determinate dalla titolarità del possesso che tende a diventare, in questo nuovo quadro processuale, un fattore determinante.
La rivendica della proprietà tra un attore ed un convenuto che, in virtù del possesso del bene conteso, si trovano su due posizioni processuali differenziate non appare destinato a mutare la struttura logica della controversia. I due litiganti continuano a contrapporsi in ordine alla stessa situazione giuridica e, mirando a vincere il processo, mirano a ottenere un identico risultato: la proprietà del bene. Quello che si è modificato è solo il percorso che, per costoro, in modo diverso, potrà portare alla vittoria.
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E' in questa fase che si conclude il primo assetto della proprietà di tipo patriarcale, allorché essa era ancora l'unica figura a regolare l' appropriazione e la signoria sulle cose.
Fermiamoci un momento a definirne i caratteri, che, per molti aspetti si trasmetteranno in età successiva. La proprietà è stata sempre definita dai Romani in termini negativi: attraverso i limiti ad essa imposta nell'interesse generale o a regolare i rapporti tra i vicini ed attraverso il sistema sempre più articolato degli strumenti processuali posti a sua difesa. Ed è questo un altro aspetto che traccia un solco profondo tra proprietà e diritti d'obbligazione: questi individuati nei loro specifici contenuti e per le pretese legali cui davano luogo, il dominium, come una pienezza di poteri 'ad eccezione di': e sono le eccezioni, ciò che non si può fare che ne definiscono i confini. Insomma i Romani hanno sempre evitato di riempire il contenuto di questo più ampio diritto, elencando in termini positivi l'insieme delle facoltà cui esso dava adito.
Anche in ragione di ciò, ma soprattutto sotto lo stimolo delle ideologie più accentuatamente individualiste nella prima fase della trasformazione in senso capitalistico delle società europee, da parte di molti giuristi tra otto e novecento si è molto, troppo insistito su un configurarsi del proprietario arcaico romano come un vero e proprio 'sovrano' indipendente sul suo piccolo territorio. Così invece non è mai stato.
Già prima delle XII Tavole, agli inizi dell'esperienza giuridica romana, s'impone dunque un insieme di vincoli e di discipline esterne della condotta del proprietario. Tutta la Tavola VII è dedicata in pratica a tali rapporti. In tal modo, soprattutto per quanto concerne la proprietà fondiaria, quella più importante per quest'età delle origini ed ancora per tutta l'età repubblicana, la sequenza dei fondi si disegna all'interno di un organico quadro territoriale, secondo una sequenza che postula la reciproca integrazione tra le varie piccole proprietà fondiarie. Il pater familias, lungi dall'essere un piccolo sovrano indipendente nel suo lembo di terra, è un soggetto integrato all'interno di un organico comprensorio agrario. Tra l'età delle origini cittadine e le XII Tavole, il grande evento fondativo del 'moderno' ordinamento giuridico romano, questo disegno è pienamente realizzato. Un insieme di vincoli limita sin dall'inizio l'autonomia del singolo proprietario, collocandolo all'interno di un comprensorio destinato a regolare e coordinare le varie unità fondiarie, in funzione del comune dominio sul territorio e la natura. In ciò si staglia la difesa dalle acque ed il loro controllo.
Estremamente esteso appare l'elenco di essi: ricorderò sommariamente
a) l' actio de arboribus succisis e il successivo interdetto, insieme a quello de glande legenda che regolano le interferenze tra i fondi vicini, quando l'albero dell'uno si sporge sull'altro fondo e quando in questo cadano frutti del primo;
b) l'ancor più importante actio aquae pluviae arcendae ricordata già in Tav., 7.8, presenta una complessa disciplina ispirata all'esigenza di carattere generale di proteggere il sistema fondiario dall'aggressione delle acque torrentizie, secondo il carattere antico e persistente degli assetti territoriali dell'Italia centrale. Ora il vincolo così introdotto è che il singolo proprietario possa difendersi dall'aggressione delle acque piovane, modificando pertanto la condizione naturale del suo fondo, solo sino al punto in cui la sua azione non interferisca negativamente con la condizione dei fondi vicini. assicurano il 'naturale' deflusso delle acque piovane. Guai dunque a farle ristagnare, creando barriere ad esso, e guai ad accelerare la forza del deflusso di tali acque, canalizzandole e concentrandone la forza potenzialmente distruttiva a danno dei fondi situati in una posizione topografica inferiore. Il naturaliter servire significa appunto che l'ordinamento cittadino vieta al proprietario 'superiore' di modificare lo spontaneo decorso delle acque pluvie con canalizzazioni ed altre opere artificiali effettuate sul proprio fondo. Ma vieta anche al proprietario 'inferiore' di impedire l'ulteriore deflusso di queste nel proprio fondo con argini, eretti egualmente in suo, che facciano ristagnare le acque piovane nel fondo superiore.
c) Già le XII Tavole disegnano un complesso sistema di vincoli in base a cui una proprietà fondiaria o urbana deve lasciare sgombra un'area al suo confine, in modo da non interferire con le altre unità immobiliari: si tratta di vincoli che molti ordinamenti europei recepiranno dai modelli romani;
Se a tutto ciò si aggiungono le prescrizioni che già le XII Tavole ribadiscono intorno alla viabilità agraria privata, noi possiamo cogliere le radici storiche di un processo che porterà l'inserimento dell'unità fondiaria romana in un comprensorio territoriale affatto artificiale - uno dei capolavori del mondo romano - rappresentato dal sistema della limitatio . No il dominus romano non esce dalle foreste primordiali a occupare mondi inesplorati, sovrano e proprietario insieme delle sue conquiste: egli è anzitutto e sempre il cittadino di una società altamente gerarchica e che sin dall'inizio si presenta con un dinamismo e una compattezza che ne assicureranno il successo millenario.
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Ho già accennato come l'autonomo configurarsi del possesso rispetto al dominium si concludesse tra la fine del terzo secolo a.C. e gli inizi del secondo. Esso segna a mio giudizio, in coincidenza con le prime generazioni di veri e propri specialisti giuridici formatisi all'interno della classe dirigente romana, il primo momento di un più generale processo di trasformazione della proprietà romana che prenderà consistenza a partire dagli inizi del II sec.a.C. e che si estende ancora all'età di Quinto Mucio e di Servio Sulpicio Rufo, sino alla fine della Repubblica. La proprietà romana infatti appare dilatarsi e restringersi insieme: dilatarsi dando luogo a nuove e più circoscritte realtà che da essa derivano, ma che, insieme, la delimitano. Per questo essa anche si restringe e si precisa, anche tecnicamente, lasciando che alcune antiche funzioni da essa assolte, ora vengano a configurarsi in modo autonomo. Si tratta, appunto, dell' 'invenzione' dei diritti reali.
In effetti, sia per l' usufrutto che per le servitù prediali, e per lo stesso pegno (che per un certo tempo esauriranno la nuova categoria dei diritti [reali] su cosa altrui), si può parlare di una loro 'invenzione' da parte dei Romani: giacché di questo si tratta. Non già delle funzioni realizzate da tali figure, ma della costruzione di una nuova categoria dipendente, parallela e insieme distinta dalla proprietà.
Ed è in una precisa forma dialettica che ciò si realizza: evitando per l'appunto di dilatare quest'ultima figura ad assolvere una pluralità di funzioni particolari, quali, ad es., una pur concettualmente possibile 'proprietà a termine', invece dell'usufrutto o restando agganciati a tale nozione per realizzare le finalità assolte con gli antichi iura itinerum ed aquarum , o allo schema della fiducia cum creditore , a garanzia di un rapporto obbligatorio. (In effetti si poteva fornire un bene in garanzia trasferendolo mediante mancipatio ed inserendo in tale negozio una clausola che vincolasse l'acquirente a rimancipare il bene all'alienante una volta che il debito di questi con l'acquirente fosse stato pagato. Egualmente, alcuni proprietari terrieri, in età arcaica (ma tale prassi dovette continuare anche sino all'età del Principato), per assicurarsi la viabilità attraverso fondi altrui o per dedurre l'acqua di una sorgente sita fuori del proprio fondo, comparavano la proprietà della striscia di terreno su cui scorreva il sentiero o l'acquedotto: l'iter o l'iter aquae).
E' da sottolineare anzitutto che, forse ancor più che nel caso del possesso, la individuazione di alcune specifiche facoltà all'interno del più ampio diritto di proprietà come contenuti tipici di diritti diversi e separati dalla proprietà, ma da questa derivanti sia stata un'operazione possibile solo attraverso una consapevole riflessione delle prime generazioni di giuristi, se accettiamo l'idea corrente, almeno per quanto riguarda l'usufrutto e le servitù che tende a collocarne la genesi tra la fine del III e i primi decenni del II sec.a.C.
Limitiamoci comunque a sottolineare come l'introduzione di queste nuove figure costituisse uno strumento formidabile di innovazione nella società e nell'economia romana.
Il primo rendeva infatti possibile sancire definitivamente la emarginazione del matrimonio cum manu, scindendo la condizione economica della moglie dalla sua appartenenza al gruppo agnatizio del marito. Le seconde perché difficilmente la trasformazione urbana di Roma, come precondizione per il ruolo di grande metropoli mediterranea e di centro politico di un esteso e potente impero politico-militare, avrebbe potuto realizzarsi senza l'ausilio di questo prezioso strumento legale e ancor meno solo attraverso lo schema proprietario.
Resta comunque evidente che questo articolarsi dell'arcaico sistema proprietario in una intera nuova categoria di figure giuridiche distinte non solo funzionalmente, ma anche strutturalmente, appare una consapevole operazione della giurisprudenza che così rinunciava a dilatare la proprietà a funzioni, diciamo così, improprie e più circoscritte, e dall'altra parte riusciva a realizzare risultati più efficaci e duraturi del mero vincolo obbligatorio costituito in funzione degli obiettivi propri di queste nuovi diritti. D' altra parte proprio la consapevole rottura di un sistema unitario - la proprietà - in situazioni giuridiche differenziate e circoscritte spiega perfettamente il carattere 'chiuso' di tali figure, non moltiplicabili in relazione alla infinita gamma di comportamenti e di utilità che la titolarità del dominium permetteva al suo titolare. Erano solo le utilità, socialmente rilevanti e specificamente individuate dalla interpretatio prudentium e tutelate con specifiche figure processuali, a configurarsi con contenuti tipici, senza che i privati potessero ulteriormente intaccare la sfera del dominium isolando liberamente facoltà assunte come contenuto di diritti tutelati mediante actiones in rem .
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Pochissime parole quanto alla loro configurazione che, tuttavia, ne segna così profondamente la fisionomia da proiettarsi quasi integralmente sulla struttura dei diritti continentali a partire dalal consacrazione fattane dal Code Napoléon.
Quanto alle servitù, che i Romani continueranno a classificare secondo i due criteri delle servitù rustiche, se riferite a rapporti tra fondi rustici, e urbane, se relative ad edifici, il principio fondamentale era che, attraverso il rapporto tra due proprietari fondiari ed il negozio costitutivo di tali diritti, analogo a quelli vigenti per la proprietà: mancipatio e in iure cessio (mentre la traditio, consistente in un fatto materiale del trasferimento del bene, verrà ammesso solo a fatica e ad opera del pretore, senza effetti per il puro diritto civile), si creasse un vincolo tra due fondi. Un immobile era in qualche modo subordinato ad un altro: lo 'serviva', come dicevano i giuristi romani.
Questo significa in altre parole che il proprietario del fondo servente è tenuto a non fare qualcosa nel suo fondo od a subire un'interferenza da parte del proprietario del fondo dominante. In quasi tutte le servitù rustiche si tratterà di questo secondo caso: così l'utilizzare una via attraverso il fondo servente o il condurre acqua per questo stesso fondo, mentre nelle servitù urbane si tratterà sovente di un non facere, da parte dello stesso proprietario del fondo servente: ad es. non poter sopraelevare il proprio edificio, per non togliere il vantaggio artificialmente costituito a favore dell'edificio dominante mediante una servitus altius non tollendi.
Mentre, probabilmente per ragioni storiche, le servitù rustiche sono possono costituirsi mediante la più semplice mancipatio, le urbane potevano essere poste in essere solo mediante un falso processo rappresentato dall'in iure cessio. Lo stesso negozio che si applica anche all'altra figura rappresentata dall'usufrutto.
Esso consiste in un diritto di fruire di una cosa in consumabile, ricavandone tutti i vantaggi pratici, in primo luogo gli eventuali frutti da essa prodotti. Uti e frui (usare e ricavare i frutti): questi sono i due vocaboli da cui trae vita la denominazione di tale figura. In ragione del carattere personale di tale diritto, se esso invece che a favore di un individuo, è costituito a favore di una persona giuridica, non può eccedere la durata di cento anni.
Seppure l'ampiezza delle facoltà spettanti al suo titolare quasi s'identificano con quelle tipiche del proprietario, vi è una sfera intangibile rappresentata dalle aspettative di colui che i Romani chiamano il nudus dominus: il proprietario che ha ceduto l'usufrutto. Aspettative che si sostanziano nel diritto di rientrare nella pienezza del godimento del bene con il venir meno di un diritto che resta sempre e comunque temporaneo come l'usufrutto. Di qui l'obbligo di conservare la destinazione del bene, di garantirne le buone condizioni, magari con gli opportuni lavori di manutenzione etc.
La funzione stessa delle servitù e la natura, diciamo così, 'personale' dell'usufrutto spiegano agevolmente l'inalienabilità di tali diritti. Anche se qui vi è una diversità, giacché il secondo cessa, al più tardi, con la morte del titolare, mentre le servitù sono destinate a persistere ben oltre la vita delle parti che le hanno costituite, trasmettendosi a tutti i successivi proprietari dei due immobili coinvolti in tale rapporto.
II. 1
Ma occorre tornare ancora per un momento al numero circoscritto dei diritti reali, perché l'esperienza romana, sul punto, è destinata a segnare in profondità- tutta la successiva vicenda occidentale, sino alla realtà dei diritti continentali. E ad accentuare, se possibile, il diverso destino tra il sistema delle obbligazioni, in nel diritto romano e soprattutto nei moderni diritti continentali, liberamente moltiplicabili in un potenzialmente illimitato numero di figure diverse in base ai singoli contenuti, determinati dalla volontà dei privati, rispetto al 'numero chiuso' dei diritti reali.
Il primo punto da chiarire è che questo limitato numero di iura in re aliena ha origine dalla collaborazione tra la scienza giuridica romana e la giurisdizione del Pretore e dalle esigenze reali di cui essi si sono fatti carico. Il loro interesse infatti si è concentrato su quelle figure e quelle innovazioni che avevano un senso e un valore dal punto di vista pratico, senza abbandonarsi a divagazioni dottrinali e senza ovviamente enunciare alcuna 'teoria generale'.
La stessa cosa, del resto, all'interno dell'intera categoria che è avvenuta per le servitù prediali, riconosciute in forme tipizzanti, il cui numero si accresce man mano che nuove esigenze e nuovi interessi emergono alla consapevolezza dei giuristi. Dove non si esclude tanto la possibilità di riconoscere nuove figure quanto si esplorano i confini al di là dei quali vengono meno i requisiti perché gli stessi giuristi si sentano legittimati a riconoscere una nuova servitù prediale. Giacché questi stessi giuristi si sono ben resi conto che non basta la volontà delle parti e neppure l'esistenza di più proprietà fondiarie attribuite a distinti titolari per costituirsi un diritto reale, destinato a persistere nel tempo indipendentemente dal destino dei suoi autori, quale una servitù prediale. Di qui gli specifici requisiti che sono venuti emergendo nel corso della loro riflessione: la vicinanza dei fondi, l'impossibilità di riversare come contenuto della servitù un comportamento positivo del titolare del fondo 'servente' (servitus in facendo consistere nequit), e infine l'effettiva utilitas arrecata dal diritto al fondo dominante.
In effetti, a mio giudizio è quest'ultimo aspetto ad essere l' elemento qualificante della natura stessa di tali diritti. Anzitutto sotto il profilo del più immediato e costante rapporto tra la loro persistenza e il vantaggio effettivamente arrecato ai loro titolari. La forza di tale rapporto è infatti assicurata dall'altra innovazione che caratterizza il regime dei diritti reali rispetto alla proprietà: mi riferisco alla loro estinzione per non usus o mediante usucapio libertatis . Dove il diritto non viene esercitato per un anno o un biennio (il tempo corrispondente alla usucapione), esso, a differenza della proprietà, si estingue. è questo un risultato importante dell' opera giurisprudenziale: invece che continuare ad operare con gli schemi proprietari, facilmente scissi dalla concreta utilità sociale dei vari diritti posti in essere, qui si adeguava efficacemente il diritto al fatto ed al concreto vantaggio delle parti: ove quello avesse cessato di essere utile e quindi utilizzato, veniva rapidamente meno
Solo per le servitù urbane - in genere corrispondenti alla attuali servitù non apparenti, - occorre una condotta positiva del proprietario del fondo servente: l'unico modo, del resto, per evidenziare la mancata fruizione del diritto da parte del proprietario del fondo dominante.
Ma approfondiamo un momento, anche sul piano della complessiva configurazione dei iura in re aliena , il rapporto tra la proprietà e tali diritti e la c.d. 'elasticità' della prima. Un argomento che, più di altri, colpisce a ben riflettere giacché ci fa cogliere l'intima e peculiare relazione tra tali figure e la proprietà. La scienza giuridica romana veniva infatti a realizzare un originale rapporto di dipendenza e di separatezza insieme che si evidenzia nel momento della estinzione del ius in re aliena (anzitutto per non usus ) con l'automatica riespansione del diritto di proprietà. In tal modo il diritto reale, pur assumendo in pieno il carattere di assolutezza erga omnes e non solo all'interno del rapporto tra titolare di esso e proprietario, non si distacca radicalmente e definitivamente (anche quando, come nelle servitù prediale è inerente al loro carattere la perennità) dalla proprietà del bene ma resta in una relazione che tenderei a definire di 'massima utilità sociale'. Un risultato tutto artificiale e profondamente innovativo rispetto al significato essenzialmente statico dell'originario ed esclusivo modello proprietario su cui si è innestata e da cui si è dipartita la genesi dei nuovi diritti.
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Numero chiuso, non moltiplicabile solo in base all'autonomia delle parti, ma in relazione alle specifiche esigenza di un mercato giuridico di cui i 'controllori del diritto' - in Roma i giuristi e il Pretore, nei moderni ordinamenti statali, anzitutto il legislatore - sono i responsabili ultimi ed i certificatori. E questo perché sin dall'inizio si è intuito una profonda diversità tra i due tipi di diritti: nelle obbligazioni, come s'è visto oggetto primario del diritto è il rapporto tra due e più individui. E' chiaro dunque che qui può giocare maggiormente la libertà di disporre dei proprio comportamenti, di vincolarli a specifiche e del tutto particolari condotte. Le ricadute economiche, se pure sono il fine ultimo, avvengono tramite questi rapporti intersoggettivi.
Al contrario, nei diritti reali entra primariamente in gioco il valore sociale del vincolo o dell'insieme di vincoli che l'esistenza di un diritto comporta. Perché è l'esistenza e la fruibilità della 'cosa', dell'oggetto del diritto che viene limitata o modificata, non è solo il rapporto tra due individui. E più limitazioni e modificazioni si possono arrecare alla condizione oggettiva della cosa, più si creano vincoli che si riflettono sulla comunità intera.
Io non credo che i giuristi romani fossero consapevoli appieno delle ragioni ultime delle scelte da loro intraprese e che i pretori perseguissero consapevolmente una politica di difesa sociale nel momento in cui si mossero così cautamente nel configurare nuove figure di diritti reali. Ma l'esperienza storica dell'Europa medievale e moderna ci fa capire i pericoli e le conseguenze di una linea alternativa a quella del diritto romano classico.
Come ben sappiamo i giuristi medievali, anche in virtù di quel diritto canonico, dalle radici anch'esso fortemente romanistiche, ma caratterizzato da una forte autonomia, se non altro in considerazione delle specifiche esigenze cui doveva far fronte, finiranno col realizzare costruzioni - nel campo dei dominia e della possessio - profondamente diversi dalle logiche di fondo e dall'architettura propria del diritto romano. Costruzioni fondate su un' utilizzazione straordinariamente sofisticata degli strumenti loro offerti dal Corpus iuris, tale da permettere di organizzare e razionalizzare rapporti sociali ed economici che, per molti versi, appaiono agli antipodi del mondo romano. Risale a quest'epoca il duplice fenomeno di una moltiplicazione delle figure di diritti assimilati al numero circoscritto dei diritti reali e in particolare delle servitù da una parte, di un attenuarsi della radicalità della distinzione tra rapporti reali e obbligatori dall'altra. E sono, a ben vedere, aspetti tra loro intimamente coerenti e funzionali l'uno all'altro.
A partire dai culti cinquecenteschi e poi nei secoli successivi, si verrà progressivamente recuperando una fisionomia più aderente all'originario impianto romanistica del sistema dei diritti reali, in funzione di una realtà che con tempi diversi, in tutta l'Europa almeno, tende a emanciparsi, dalle strutture feudali. Per il mondo nuovo è proprio il carattere individualistico della proprietà romana ad apparire più funzionale e significativo, mentre il numero fortemente circoscritto e tipizzato dei romani iura in re aliena è quanto mai funzionale ad un sistema economico e sociale che tende con forza crescente, sino alla rottura di fine '700, a fuoriuscire dai vincoli feudali.
Giacché questo è il punto che la storica c'insegna: che mentre la moltiplicazione delle obbligazioni - dei vincoli liberamente assunti tra gli individui - espande la sfera dell'autonomia e della libertà, la libertà per i singoli d'istituire nuovi diritti reali riduce questa stessa sfera. Perché in base alla volontà di pochi o di singoli si creano vincoli che investono tutti i consociati, riducendone indirettamente la libertà.
Le rigide codificazioni nazionali, nell'età dell'individualismo borghese, su questo punto, sono state pertanto garanti, non solo della libertà dei singoli, ma della generale sfera della libertà delle loro società. Mi auguro che, in futuro, pure di fronte a nuove realtà ed esigenze che dovremo affrontare, questa impostazione non venga radicalmente a mutare.
III. 1
E' necessario ora offrire un rapidissimo scorcio dell'intero assetto dei diritti reali e della matura figura della proprietà nel momento della massima fioritura del diritto romano e nella loro vita successiva, incarnatasi nell'esperienza degli ordinamenti europei. All'uopo mi limiterò a ricordare come solo molto tardi i giuristi romani siano pervenuti a enucleare la nozione astratta di proprietà: e questo proprio in contrapposizione al definirsi dei diritti reali limitati. Sarà nell'ambito della scuola di Servio, che giganteggia nella scienza giuridica tardo-repubblicana a contrapporre iura e dominium. Lo incontriamo in D. 8. 3. 30, ((CITARE!))
Allora prende consistenza anche la progressiva esplorazione delle diversità e delle analogie tra il modello originario, il dominium, e le figure, diciamo così, 'derivate': i iura in re aliena. Una grande diversità l'abbiamo già incontrata: di fronte alla potenziale perennità della proprietà si oppone la deperibilità dei diritti reali, che si perdono per non uso. Ma vi è di più anche in ordine all'oggetto di tali diritti: e qui assume evidenza prioritaria l'usufrutto. Lo abbiamo già visto: la sua durata non può eccedere la vita umana. E se a base di questo principio vi sono precise ragioni storiche (v. supra, II.4), la sua persistenza nel tempo, sino ai giorni nostri ha un significato più profondo. Esso è da rapportarsi all'esigenza dell'ordinamento di tener ben distinta tale figura dalla proprietà: un'ulteriore dilatarsi nel tempo dell'usufrutto avrebbe infatti avvicinato maggiormente questo al pieno dominio.
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In seguito la riflessione giurisprudenziale romana venne configurando anche nuovi diritti reali, più circoscritti: anzitutto il semplice diritto d'uso. Esso è sempre costituito su una cosa inconsumabile, e non dà diritto alla percezione dei frutti, ma alla sua sola utilizzazione, senza alterarne la destinazione economico-sociale. In età assai più tarda si dette rilevanza autonoma anche al mero diritto di abitazione: il diritto di usare un edificio altrui sia come alloggio, sia affittandolo a terzi. Ma, in quest'epoca più tardiva la figura più importante, destinata ad assumere grande rilevanza nella storia medievale ed ancora agli inizi dell'età moderna, è l'enfiteusi.
Quest'ultima figura ha origine essenzialmente nell'ambito dei rapporti tra l'amministrazione imperiale e la gestione delle altre terre pubbliche ed i privati. Tant'è che un obbligo specifico dell'enfiteuta è quello di arrecare migliorie all'immobile. Di contro l'ampiezza dei suoi poteri è maggiore di quella dell'usufruttuario: non solo è riconosciuto un diritto di riscatto del bene mediante il pagamento di una somma calcolata sulla base del canone che egli è tenuto a versare annualmente. Questo diritto è trasmissibile sia inter vivos che mortis causa: ma è proprio questo aspetto a definirne l'estraneità tanto al sistema romano classico che alle moderne società liberali. Esso delinea infatti un sistema di vincoli ereditari e di gerarchie di dipendenza tipiche del mondo feudale, ma già adombrate nel tardo Impero.
Sin dall'età repubblicana è invece riconosciuto un altro diritto reale, con funzioni di garanzia per l'adempimento di un rapporto obbligatorio: il pegno. Tale diritto era posto in essere con l'attribuzione del possesso della cosa al creditore da parte del suo proprietario, a garanzia di un debito da lui contratto con questi. La costituzione di un pegno dava il diritto al creditore che non fosse stato soddisfatto nel suo diritto principale, di alienare la cosa pignorata onde dedurre dal prezzo l'ammontare del suo credito. Nel caso invece che il credito principale fosse stato soddisfatto, veniva meno il diritto del creditore sul pegno, che poteva quindi essere legittimamente rivendicato dal suo proprietario. In età successiva, accanto a questa figura venne affermandosi un altro diritto reale di garanzia, l'ipoteca, in bae a cui si costituisce a garanzia di un debito un bene che sarebbe restato nel possesso del debitore.
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L'indubbio fattore di modernizzazione costituito dai nuovi diritti reali, insieme alla sempre più agguerrita riflessione dei giuristi contribuì ad una nuova consapevolezza della natura dello stesso diritto di proprietà. Non solo, come s'è visto, si pervenne nel corso del tempo ad una più piena consapevolezza del suo valore astratto (cfr. supra. ), ma se ne definirono meglio molteplici aspetti e la relativa disciplina.
Un punto di particolare rilievo, in proposito, fu l'ammodernamento dell'arcaico usus, onde adeguarne l'efficacia al nuovo contesto in cui il diritto romano veniva ad operare. Un contesto geografico, anzitutto, con l'estendersi della cittadinanza e il dilatarsi delle terre oggetto della proprietà civile romana. Tutto ciò rendeva in parte obsoleto il valore di garanzia che il breve tempo richiesto per l'acquisizione mediante usus aveva nei riguardi dei legittimi proprietari. L'intreccio di una società assai più ampia ed eterogenea poteva impedire a proprietari lontani e disinformati di proteggere i lopro legittimi interessi in tempo utile.
Di qui il radicale modificarsi di questa forma, con l'introduzione, nel corso degli ultimi secoli della repubblica, di un istituto più articolato e meglio in grado di proteggere gli interessi in gioco: l'usucapio. Perché il possesso portasse all'acquisto della proprietà civile mediante usucapione occorreva infatti che esso fosse fondato su una causa legale (acquisto, donazione etc.) e avesse ingenerato nel possessore una posizione di buona fede. In tal modo si restringeva nettamente la gamma di coloro che potevano pretendere di acquistare la proprietà mediante il possesso.
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Quanto poi alla tutela processuale di tale diritto, l'antica legids actio già nel corso del II sec.a.C. era stata progressivamente sostituita dalla vondicatio del nuovo processo formnulare che, come s'è detto, poneva l'attore e il convenuto, identificato conj il possessore della res litigiosa su un piano diverso, con un diverso onere di provare il diritto chiamato in causa.
Sempre in ordine alla proprietà venne approntandosi poi, soprattutto ad opera del pretore, un insieme di strumenti processuali volti a tutelarla contro specifiche turbative esterne, anzitutto ingenerate dal comportamento di proprietari vicini. In tal senso il proprietario, disponeva di una serie di strumenti che andavano dalla cautio damni infecti , all' operis novi nuntiatio , all' interdetto quod vi aut clam sino alla estensione dell' actio negatoria su cui torneremo più avanti. Molti di essi si riferivano ai rapporti fondiari ed erano finalizzati ad assicurare un intervento più rapido degli stumenti ordinari. Questo in particolare è vero per la denuncia di nuova opera che è sopravvive sino alla nostra attuale codificazione.
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Rispetto alla vindicatio della proprietà, la tutela dei diritti reali su cosa altrui si fonda su un meccanismo processuale analogo. E tuttavia qui si evidenzia la diversità della pretesa processuale: giacché in questo caso le affermazioni delle due parti non hanno lo stesso contenuto. Al contrario della revindica che, anche quando venne meno la piena parità processuale delle parti, continuò a vertere su una precisa alternativa: la titolarità di un medesimo diritto (la proprietà su una cosa ben identificata) sicuramente esistente. Per l'usufrutto e le servitù la vindicatio vede contrapporsi all'affermazione di un diritto (diverso dalla proprietà) sulla cosa, la negazione di questo stesso diritto da parte di chi ritiene di avere una piena proprietà di questa stessa cosa, senza alcun vincolo su di essa. Così la posizione processuale si scinde a seconda di chi sia il richiedente: colui che pretende di avere una servitù o l'usufrutto, esperirà dunque un'actio confessoria, affermando in positivo l'esistenza del diritto. Se l'azione è esperita dal proprietario che nega l'esistenza di un atrlo diritto reale sulla cosa, si tratterà allora di un'actio negatoria.
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Va ricordato tuttavia come la rilevanza del possesso, ai fini della determinazione della posizione processuale dei litiganti, trova la sua applicazione anche in questa nuova sfera di diritti. Che il diritto sia di fatto già esercitato e meno gioca al fine della concessione di due diverse e opposte azioni: l' actio confessoria e la negatoria servitutis (o usus fructus). Se la prima è a favore da chi rivendica l' esistenza di un diritto sul fondo altrui, quest' ultima invece è data al proprietario che si oppone all' esercizio del diritto da parte del presunto usufruttuario o del titolare della servitù, nei riguardi del suo immobile. Anche in questo secondo caso, riducendosi quindi il vantaggio processuale della possessio vel quasi, è chi si afferma titolare del diritto a doverne dare la prova1.
Del resto, ci si potrebbe chiedere, che senso ha richiamarsi al possesso per situazioni giuridiche che per loro stessa natura non possono essere 'possedute': si possiede una cosa, non un diritto su una cosa: e gli stessi giuristi imperiali sul punto insistono specificamente. Il possesso si era configurato nell' esperienza romana come immagine speculare alla proprietà e riguardava pertanto i beni materiali. Era quindi ovvia la conseguente inusucapibilità di cose incorporali come i diritti e tra questi, appunto, le servitù. Non solo, ma stando agli orientamenti più diffusi tra i romanisti contemporanei la stessa lex Scribonia , la tuttora per me misteriosa Lex Scribonia , che escludeva l'usucapione delle servitù prediali, parrebbe iscriversi in questa tendenza. D'altra parte ciascuna di queste nuove figure poneva complessi problemi costruttivi e impegnava le prime generazioni dei giuristi repubblicani in uno sforzo interpretativo sovente non facile. Sino al punto di richiedere appunto l'intervento di quello strumento, così raramente applicato nel campo del diritto privato e sempre per motivi abbastanza rilevanti dal punto di vista politico sociale, quale la legge comiziale. In tal modo ci siamo venuti spostando verso il nodo centrale con cui la nuova costruzione dei diritti reali su cosa altrui si è dovuta misurare nel corso del II e della prima parte del I sec.a.C. Ed è qui che insorgono alcune difficoltà che evidenziano il difficile e non sempre lineare percorso della giurisprudenza romana, divisa probabilmente tra opposte esigenze e interessi contrastanti. Da una parte infatti una situazione possessoria appare associata al nucleo di quelle servitù rustiche classificate tra le res mancipi e la cui fruizione appare tutelata, probabilmente sin dal II sec.a.C. da interdetti strutturati sul modello dell' uti possidetis. Dall'altra il possesso appare riconosciuto anche al titolare di un particolare diritto reale come il pegno: si tratta forse di una traccia di forme più arcaiche, come probabilmente per gli iura itinerum et aquarum?
Ora in tutti questi casi uno dei più significativi 'risultati' del possesso veniva ad essere negato, non solo in considerazione della 'incorporalità' dei diritti in questione, secondo le più tardive formulazioni degli stesi giuristi romani, ma anche della precoce adozione della già citata lex Scribonia. Insomma codesti iura in re aliena si possiedono o quasi, ma non si usucapiscono.
Ma qui, come ho già accennato, e non diversamente dalle più giovani servitù urbane, dovette giocare la nuova concezione di tali rapporti in termini di iura , così come la stessa lex Scribonia probabilmente riflette un'esigenza di semplificazione di un regime giuridico che il solo sforzo interpretativo della giurisprudenza del II-I sec.a.C. non era in grado di assicurare. La costruzione che si venne così a realizzare ad opera della giurisprudenza tardo-repubblicana, se cercava di isolare singole discrasie derivanti essenzialmente dal modo in cui il processo costitutivo dei vari diritti reali si era realizzato in un arco di tempo di notevoli dimensioni, non poteva, per la sua stessa coerenza formale, superare alcune difficoltà ingenerate dalla inapplicabilità della categoria del possesso a tali situazioni e, poi, dalla loro configurazione in termini di res incorporales.
Ciò che rileva, in questa sede, è che tali posizioni quasi possessorie non potessero consolidarsi, con il decorso del tempo, in una titolarità del diritto mediante un meccanismo analogo all'usucapione dei beni materiali. Ricordiamoci infatti che, in questa stessa fase della scienza giuridica, verso la fine dell' età repubblicana, si definisce nella sua matura configurazione il regime della usucapione come modo d'acquisto della proprietà, fondato su un possesso qualificato dalla iusta causa e dalla buona fede. Ma, proprio per questo, la discrasia che appare caratterizzare il regime dei iura in re aliena da quello del dominium tende a dilatarsi in modo eccessivo, sino a minacciare la stessa compattezza del sistema dei diritti reali.
IV.1
Vi era un limite esterno all'ambito di applicazione del diritto di proprietà rappresentato dalla natura giuridica dei beni: sottratti alla proprietà privata erano infatti non solo le cose sacre e dedicate agli dei inferi, come i sepolcri, ma anche tutti i beni della res publica. Sia le terre, gli edifici, gli impianti stradali etc. appartenenti allo stato centrale, sia ai singoli municipi. Ma vi erano anche altri tipi di beni sottratti all'appropriazione individuale: essi, alla fine dell'età d'oro della scienza giuridica romana, saranno richiamati in un passo di Marciano. Sono i naturali iure communia.
D. 1.8.2 pr.-1 (citare). Giustiniano lo riprenderà in I., 1.2.2.
Così come, già a partire da Gaio se non da prima, sottratte alla sfera del dominium erano inevitabilmente le res incorporales: che tuttavia sono identificate con i diritti. Gai. 2.12-14 (citare?).
2.-
Ora, prima di concludere questa nostra conversazione converrà interrogarci su quanto siano tuttora utili ed esaustivi i modelli proprietari ed il sistema dei diritti reali lasciatici in eredità dal diritto romano. E qui converrà partire da due fondamentali aspetti che caratterizzano le grandi trasformazioni delle società contemporanee:
a) la smaterializzazione dell'economia e dei processi produttivi, nonché dei relativi strumenti;
b) la crescente importanza dei prodotti dell'ingegno come valore economico (brevetti, innovazioni scientifiche etc.)
In effetti è dato di cogliere - ed è fenomeno abbastanza inevitabile - l'applicazione a queste nuove realtà dei vecchi schemi proprietari o possessori: si 'possiede' una banda dell'etere, si ha la 'proprietà intellettuale' di una scoperta etc. Ma è utile richiamarsi ancora così massicciamente agli schemi proprietari? E se no, verso che direzioni si deve andare?
Ma vi è anche un altro aspetto che poine nuovi problemi: un uso sempre più articolato dello strumento proprietario per realizzare risultati nuovi, moltip'licandone l'efficacia: si pensi solo a due esempi: il contratto di 'franchising' che moltiplica, attraverso negozi obbligatori, l'utilizzazione di un sistema d'impresa ed un modello organizzativo. Ma si pensi soprattutto alla nuova figura delle 'multiproprietà', inclassificabile, secondo gli schemi dogmatici del dominium.
3.-
In effetti mi sembra che ci si trovi di fronte a due fenomeni contraddittori: da un lato il dilatarsi di questo modello, dall'altra la presenza di segni di dissoluzione del sistema attraverso il moltiplicarsi degli statuti proprietari.
Sono fenomeni che appaiono intimamente connessi ad un più generale processo di astrazione dell'economia capitalistica che culmina, per il momento, con la grande rivoluzione ingenerata dall'affermarsi della società dell'informazione che stiamo vivendo. E che appare modificare in profondità il mondo dei nostri padri e che noi stessi avevamo conosciuto nella nostra giovinezza. Un mondo costituito tutto da 'cose': cose materiali che nella loro novità o nel loro mutare di fisionomia segnavano le trasformazioni di una ricchezza posseduta e atta, insieme, a produrre nuova ricchezza, nuove 'cose'.
Questo oggi è mutato: in un nuovo contesto dove, accanto alla sfera tradizionale e sempre più ricca e articolata delle 'cose', si viene sviluppando una nuova realtà - anch'essa ricchezza che produce nuova ricchezza - che ci riporta all'antichissimo schema romano delle res incorporales.
Ma non si tratta più di quelle che i Romani classificavano come tali, quae in iure consistunt . ne abbiamo già parlato, ma di quelle realtà immateriali quae tangi non possunt, anch'esse - non tutte - prodotti umani (ma tutte che assumono senso in quanto rapportate all' 'invenzione' umana) e che tuttavia non fanno parte di per sé del mondo del diritto. L' aer , ad es., che abbiamo visto evocato da Marciano, o il 'sapere', le 'conoscenze', le scoperte e delle scienze e le innovazioni tecnologiche: insomma tutto quel mondo frastagliato ed eterogeneo che oggi gli esperti ci dichiarano essere alla base di una nuova rivoluzione industriale e che parrebbero ulteriormente confermare l'interpretazione schumpeteriana dell' evoluzione capitalistica come strettamente correlata al progresso delle scienze e delle tecniche.
4.-
Ora, a conclusione di questo mio intervento, mi limito a proporre qualche interrogativo, richiamandomi appunto ad un'idea di 'crisi': crisi sia del grande paradigma della proprietà ereditato dal diritto romano e 'restaurato' nella sua fisionomia unitaria dalla scienza giuridica moderna, che della stessa categoria dei diritti reali, con la sua forte identità. Mi chiedo infatti se questi modelli 'alti', che hanno corrisposto, in Europa alla fioritura dell'economia capitalistica e della forte 'economicizzazione' delle società contemporanee, non siano ormai obsoleti.
Vorrei tornare alla rinnovata attenzione, verificatasi già negli anni '30 del secolo alle nostre spalle, verso la molteplicità delle forme proprietarie - le proprietà - in alternativa alla unitarietà del modello. Credo infatti che questa percezione di una molteplicità di statuti proprietari non debba essere letta solo come sintomo di una interna dissoluzione del paradigma proprietario. Essa potrebbe invece costituire il filo d' Arianna moderno per cogliere nuove valenze e nuove potenzialità, ripercorrendo la storia di questo stesso paradigma all'interno di formazioni economico-sociali ed epoche storiche profondamente diverse.
E così, in conclusione, possiamo interrogarci sul significato ultimo di questa singolare attitudine di antichi schemi inventati millenni or sono, in contesti culturali e in ambiti sociali radicalmente diversi dai presenti a riproporsi anche a orientare, se non inquadrare, le forme della modernità anticipatrici forse del futuro. Possiamo chiederci anzitutto se quel processo di semplificazione del modello proprietario e dell'intera categoria dei diritti reali realizzato agli inizi dell'età moderna anche attraverso un recupero della reale portata delle soluzioni adottate a suo tempo dai Romani non sia giunto al suo punto finale. Quella semplificazione infatti era bene adatta alla compatta società liberale agli inizi del moderno capitalismo. Lo è sempre di meno in una fase in cui questo stessi schemi debbono riferirsi ad una gamma sempre più differenziata di situazioni materiali.
Per questo, concludendo, ho il sospetto che, nel nostro futuro, possa esserci di un qualche aiuto, ai fini di adeguare il nostro strumentario, il modo in cui i grandi interpreti medievali reinterpretarono il legato dei Romani per inventare una nuova complessità del sistema dei diritti reali e della proprietà, in funzione di un diverso modello sociale. Si tratta solo di suggestioni per saggiare strade nuove, in buona parte ancora da scoprire o da inventare. Ancora una volta, ad aiutarci a cogliere i nodi del futuro sarebbero così storie del nostro passato.
1 E' sempre stato quasi solo accennato dalla dottrina romanistica - quella più risalente quanto la moderna - che l'attore, nell' actio negatoria ha una posizione particolare per ciò che concerne l'onere della prova, dovendosi limitare a provare l'esistenza della proprietà. Certo, chiedere a lui di provare anche l'inesistenza di un diritto era pressoché impossibile: ma questo toglie molto dell'importanza costituita dall'alternativa tra la confessoria e la corrispondente negatoria : l' essere attore nella prima o convenuto nella seconda comporta, sotto questo profilo, le medesime conseguenze, dovendosi in entrambi i casi provare la titolarità del diritto.
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Testo della relazione svolta al Primo Corso di Alta formazione sul diritto romano per docenti della Reppubblica Popolare Cinese, e pubblicato in cinese, con autorizzazione d'autore, in Digesta (Xue Shuo Hui Zuan), vol.II, Pechino, 2009.