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Busnelli:DETERRENZA, RESPONSABILITA’ CIVILE, FATTO ILLECITO, DANNI PUNITIVI

Francesco Donato Busnelli

Prof. ord. della Scuola Superiore S. Anna di Pisa

  Sommario: 1. Il convegno senese del 2007 e la sfida della deterrenza. - 2. L’orientamento “trionfante” di una responsabilità civile precipuamente votata alla compensazione: i Principles di diritto europeo. – 3. Segue: le iniziative di riforma codicistica in Europa. – 4. Tracce di ambiguità nascoste nell’orientamento “trionfante”. – 5. Punitive damages nordamericani e responsabilità civile in Europa. – 6. Sorprendenti aperture alla deterrenza. – 7. Verso una riscoperta delle “pene private”? – 8. La perdurante attualità della “lunga e ininterrotta tradizione storica” del danno morale soggettivo e il suo carattere lato sensu punitivo. – 9. Danni morali soggettivi e tipizzazione legislativa. – 10. L’invalicabilità della “frontiera massima” del risarcimento del danno effettivo. – 11. Danni morali soggettivi e modalità di contemperamento tra funzione satisfattiva e funzione sanzionatoria del risarcimento. – 12. L’art. 709 ter c.p.c. e i tentativi giurisprudenziali di superamento dei confini della responsabilità civile. – 13. Oltre i confini della responsabilità civile: prospettive de iure condendo. I danni stricto sensu punitivi come sanzioni civili contro l’atto illecito autonomamente considerato. – 14. Segue: il problema della loro qualificazione. – 15. Segue: presupposti e modalità della loro possibile rilevanza. – 16. Tornando alla responsabilità civile per concludere.

  1. Coraggiosa e quanto mai opportuna può definirsi l’iniziativa di Pietro Sirena che, nell’ideare il Convegno che si è svolto a Siena dal 19 al 21 settembre 2007, ebbe a scegliere due profili altamente problematici per una rivisitazione critica della responsabilità civile, da tempo ormai adagiata su alcune traiettorie, almeno apparentemente, pacifiche.

  Declinare al plurale la dimensione funzionale della responsabilità civile significa “sfidare” un orientamento consolidato che attribuisce al risarcimento del danno una funzione precipua se non esclusiva, quella che – con una disinvolta, ma ormai acquisita, traduzione dal lessico giuridico

  di common law – prende il nome di compensazione. “Alla responsabilità

  civile – afferma categoricamente la Corte di cassazione - è assegnato il compito precipuo di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione. E ciò vale per qualsiasi danno, compreso il danno non patrimoniale o morale”. Quest’ultimo punto è stato confermato dalle sentenze delle Sezioni unite che hanno proclamato l’unitarietà categoriale del danno non patrimoniale, stabilendo altresì che “va definitivamente accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo”.

  Prospettare una “funzione deterrente” della responsabilità civile significa evocare diffuse inquietudini circa un paventato ritorno a una remota responsabilità civile ancorata a parametri penalistici (“deterrenza – diceva Franco Bricola – è termine più congeniale alla sanzione penale”), o tutt’al contrario circa una sconsiderata fuga in avanti verso i tanto temuti punitive damages dell’esperienza nordamericana, che l’Europa si sforza di tenere fuori dai propri confini.

  Ebbene, Pietro Sirena ha accettato la sfida. Nel presentare il programma del Convegno senese, ha confermato un proprio convincimento, che aveva avuto già modo di manifestare in un intervento al Convegno per il cinquantenario della “Rivista di diritto civile”: l’esigenza di “rafforzare adeguatamente la funzione preventiva o deterrente della responsabilità civile”, considerando più specificamente “il problema dei c.d. danni punitivi”; e, forse incoraggiato da alcune voci recenti che invocano “un ritorno alla deterrenza”, o forse soltanto memore di un (ormai lontano) invito a interrogarci in ordine a una possibile “riscoperta delle ‘pene private’ ”, ha osato affermare che “una delle novità più evidenti nel nuovo diritto della responsabilità civile consiste nella valorizzazione di tale istituto come strumento di prevenzione dell’illecito”.

  Eppure, tutto sembrerebbe muoversi in senso contrario, almeno apparentemente; e ciò, si badi, proprio “alla luce delle riforme straniere e dei Principles of European Tort Law”, ossia dei parametri di riferimento indicati fin dal titolo del Convegno come i più significativi e aggiornati.

  Ma le cose stanno proprio così?

  2. A prima vista, non vi sono dubbi in tal senso.

  I Principles elaborati dall’European Group of Tort Law (PETL), nella norma di apertura della disciplina dei Damages (Art. 10:101), dopo aver enunciato la regola generale secondo cui “damages are a money payment to compensate the victim”, aggiungono, in un breve inciso finale, che “damages also serve the aim of preventing harm”. Ma, nel commentare tale norma, Ulrich Magnus, nella sua qualità di esponente del Gruppo, riconosce che l’indicato scopo di prevenzione non trova nelle norme successive alcuna specificazione, e ammette quindi che “this notion need hardly explanation”. Anzi, il commentatore va oltre: nel tentativo di attribuire una qualche valenza operativa a tale inciso, giunge ad affermare che “a punitive purpose of the law of damages is implicitly refused by not mentioning it”; e conclude affermando che “compensation is the primary aim of damages”, e che “on this primary aim all European legal systems agree”: conclusione, questa, che vale a ribadire il contenuto della Basic Norm (Art. 1:101), ove si parla esclusivamente di compensation.

  Considerazioni analoghe valgono per i Principles formulati dallo Study Group on a European Civil Code, e ora inseriti nel Draft Common Frame of Reference. Anche qui la Basic Rule (Art. 1:101) è incentrata sull’attribuzione al danneggiato di “a right to reparation”, consistente – come specifica l’Art. 6:101 (Aim and forms of reparation) - nel “reinstate the person suffering the legally relevant damage in the position that person would have been in had the legally relevant damage not occurred”, secondo i classici dettami della Differenz-theorie. Di “prevenzione” si parla all’Art. 1:102, ma senza nessun riferimento a una funzione preventiva del risarcimento, bensì con riguardo alle ipotesi in cui un “legally relevant damage is impending”, e dunque in relazione a una tutela inibitoria. L’unica deviazione “risarcitoria” da una prospettiva di compensation è semmai costituita dalla previsione, da parte dell’Art. 6:102 (4), di una “alternative to reinstatement”, in presenza della quale “reparation may take the form of recovery … of any advantage obtained in connection with causing the damage”. Ma, qui, la finalità di deterrence si realizza, a ben vedere, non già mediante la tecnica della responsabilità civile, bensì attraverso una vera e propria “alternativa” – del resto ben nota alla legislazione italiana in tema di proprietà industriale (v., infra, n. 5) - riconducibile al profilo dell’arricchimento senza causa.

  3. Le recenti iniziative europee di riforma codicistica della responsabilità civile non appaiono particolarmente significative al riguardo.

  In Germania, la disciplina dell’atto illecito, esclusa dalla legge del 2002 per la Modernisierung des Schuldrecht, entrata in vigore il 1° gennaio 2002, è stata poi semplicemente “lambita” dal c.d. Zweites Gesetz zur Änderung Schadensersatzrechtlicher Vorschriften (2.SchadRÄndG), entrato in vigore il 1° agosto dello steso anno, che si è limitato a introdurre alcuni ritocchi normativi: uno dei quali sembra piuttosto andare in senso contrario a quello qui auspicato. Infatti, con l’abrogazione del § 847 e il trasferimento del suo contenuto nel § 253, la previsione del risarcimento del danno non patrimoniale si dissocia definitivamente dalla tradizionale figura dello Schmerzensgeld, indissolubilmente legata alla colpa del danneggiante, per aprirsi ad una rilevanza indiscriminata nell’Allgemeiner Teil des Schuldrecht, perdendo così l’originaria valenza deterrente.

  Di qualche interesse è, semmai, il progetto svizzero di legge federale sulla “Revisione e unificazione del diritto della responsabilità civile”, che distingue in termini generali tra danno patrimoniale e torto morale (art. 45), stabilendo per quest’ultimo che “la personne qui subit une atteinte à sa personnalité a droit à satisfaction pour tort moral, si la gravité de l’atteinte, notamment les souffrances physiques ou psychiques, le justifie” (45 e).

  Ma il progetto – da cui traspare una certa sensibilità a profili di deterrenza (si parla di “torto” - non di danno - e di effetti “satisfattori” legati alla “gravità” della lesione) – continua a incontrare in patria forti ostacoli , e la dottrina più autorevole continua nel frattempo ad affermare che “l’objectif de la responsabilité civile n’est pas la punition du responsable”.

  Di “dommages-intérêts punitifs” parla l’Avant-projet francese “de réforme du droit des obligations” in una norma (l’art. 1371), inserita nella Sezione dedicata al risarcimento dei danni, che tiene a distinguerli nettamente dai “dommages-intgérêts compensatoires” in virtù di profili peculiari – la non assicurabilità, la facoltà (demandata al giudice) di farne beneficiare parzialmente il Tesoro pubblico – che non sono facilmente riconducibili alla struttura dell’obbligazione risarcitoria. Se poi si aggiunge che presupposto per una condanna al risarcimento di tali danni è l’esistenza “d’une faute manifestement délibérée, et notamment d’une faute lucrative”, e che al riguardo basta una decisione del giudice purché “spécialement motivée”, sorge nell’interprete il dubbio che sulla valenza asseritamente risarcitoria - già di per sé anomala, e ammiccante al modello dei punitive damages - finisca con il prevalere implicitamente una ratio collegata al profilo dell’ingiustificato arricchimento. E il dubbio sembra trovare precisa conferma nell’“Exposé des motifs” scritto da Geneviève Viney, la quale giustifica tale norma essenzialmente in presenza d’ “une faute dont les conséquences profitables pour son auteur ne seraient pas neutralisées par une simple réparation des dommages causés”, e tiene subito dopo a precisare che “la prévention n’est pas présentée comme l’une des fonctions spécifiques de la responsabilité”. Sullo sfondo, si avverte il desiderio di non chiudere aprioristicamente le porte all’esperienza nordamericana confezionando una norma, per la verità assai contorta, che vuole “ouvrir prudemment la voie à l’octroi” di simili danni: parafrasando il titolo di un recente saggio di Paolo Pardolesi (“Danni punitivi: frustrazione da ‘vorrei, ma non posso’?”), saremmo tentati qui, di diagnosticare una arrière-pensée da “potrei, ma non voglio (troppo)”.

  4. Alla base di questa apparente concordanza in senso negativo, che – come si è visto - muovendo dalla (più o meno assoluta) negazione di una pluralità di funzioni della responsabilità civile giunge a negare l’esistenza di una funzione deterrente e a ostracizzare i danni punitivi, sono tuttavia riscontrabili significative tracce di ambiguità e sorprendenti aperture più o meno nascoste nell’orientamento “trionfante”.

  Le prime investono tutti i profili appena evocati.

  Ambigua, e insidiosa, è la pretesa – autorevolmente enunciata dalle Sezioni Unite – di unificare funzionalmente il danno non patrimoniale “inteso nella sua accezione più ampia” inquadrandolo in “una categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie”, e attribuendo il significato di “una mera sintesi descrittiva” alle “distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza n.233/2003 della Corte costituzionale”, così da giungere – come si è accennato – a considerare “definitivamente accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo”. Invero, la difesa dell’unitarietà della categoria non deve portare a disconoscere all’interno di essa, non tanto di sottocategorie, quanto piuttosto di tipi di pregiudizio, emergenti dalla realtà sociale: i quali, in piena osservanza dei caratteri individuanti la categoria, si diversificano in ragione delle distinte funzioni – compensativa, solidaristico-satisfattiva, sanzionatoria – a cui si ispira il relativo risarcimento.

  La via dell’accesso alla pluralità di funzioni della responsabilità civile non deve dunque ritenersi preclusa; e, in questa prospettiva, plausibile appare una riconsiderazione, recentemente riproposta da uno dei “padri” della moderna responsabilità civile italiana, della “autonoma e specifica rilevanza che al danno morale, nell’accezione soggettiva dei dolori o patemi d’animo, hanno tributato una lunga ed ininterrotta tradizione storica”.

  D’altro canto, il riferimento a una funzione deterrente porta in sé una basilare ambiguità di fondo, legata alla disinvolta, ma ormai (anche qui) acquisita, traduzione del termine “deterrence” in una “deterrenza” nostrana ancora ignorata dal classico Zingarelli. La deterrence immortalata dal Cost of Accidents non è una funzione della responsabilità ma, piuttosto, un obiettivo di politica economica e sociale a cui la responsabilità presta le proprie funzioni, e in particolare la funzione di prevenzione, chiamata a sdoppiarsi secondo un metodo di “prevenzione generale, o di mercato” e un metodo di “prevenzione specifica, o collettivo”, e quindi a svilupparsi soprattutto nella direzione degli unintentional torts (con particolare riferimento alla circolazione stradale) e della responsabilità (oggettiva) da attività imprenditoriale. La c.d. deterrenza nostrana non è neppure essa una funzione della responsabilità ma, essendo tradizionalmente connessa con il presupposto della colpa, esprime un’esigenza morale affidandone la realizzazione a una funzione preventiva, la quale necessariamente tende a palesare un profilo sanzionatorio che riecheggia mutatis mutandis un modello penalistico.

  Deterrence nordamericana e c.d. deterrenza nostrana hanno in comune una valorizzazione della funzione di prevenzione nella responsabilità civile e mirano entrambe a ridimensionare l’invadenza degenerativa di una funzione indiscriminatamente compensativa. Ma i loro itinerari necessariamente divergono – calandosi in una strategia politica e in una logica di mercato, la prima; ispirandosi esclusivamente a valori costituzionali, la seconda – e proiettano tale divergenza sulla natura dei danni – lato sensu punitivi – che all’una e all’altra si ricollegano, nonché sulla misura e sulle modalità del relativo risarcimento.

  Vi sono, a questo punto, tutte le premesse necessarie per sgomberare il campo da un’ultima, perniciosa ambiguità, che si annida proprio nell’idea di una pseudo-categoria generale di danni punitivi. Soltanto di recente è stato definitivamente chiarito che “i nostri danni punitivi non sono i punitive damages”, consentendo così di dissipare alcuni motivi di preoccupazione pratica o di perplessità teorica che, nascendo da una pregiudiziale considerazione dei secondi, hanno più o meno consapevolmente condizionato il modo di affrontare il problema dell’ammissibilità dei primi. Ne è prova eloquente la sentenza della Corte di cassazione che, nel negare il riconoscimento di una decisione nordamericana di risarcimento dei punitive damages per contrarietà all’ordine pubblico interno, si spinge ad affermare che nel nostro sistema “l’idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante”.

  Diviene allora imprescindibile dipanare questa ingarbugliata matassa concettuale procedendo a due distinte verifiche: la prima, diretta a considerare i rapporti tra la figura nordamericana dei punitive damages e l’ordinamento italiano, e/o più in generale il modello europeo di responsabilità civile; la seconda, tesa a verificare se, prescindendo da una considerazione dell’istituto dei punitive damages, l’idea della punizione e della sanzione sia, o meno, compatibile con il nostro sistema.

  5. Per i punitive damages la verifica si pone esclusivamente in una prospettiva di diritto internazionale privato, essendo pacifico che essi, in quanto incardinati in un’esperienza – quella nordamericana – che rappresenta “un unicum davvero irripetibile”, non sono suscettibili di essere trapiantati nell’esperienza italiana (o anche europea) poiché non sussistono - questo è il giudizio del comparatista – “le condizioni istituzionali per un vero legal transplant”.

  Basti pensare, quanto al piano strutturale della disciplina, al ruolo peculiare della “giuria”: la quale, per sua natura (essendo composta da “pessoas leigas, não treinadas em relação a assuntos jurìdicos”), porta a decisioni che – senza obbligo di motivazione - “favorecen a fixação de indenizações desmesuradas ou desproporcionais”: lo rileva un giudice brasiliano in un saggio di comparazione tra common law e civil law sull’argomento, giungendo alla conclusione che “essas decisões não podem ser tomadas como exemplo de como funcionariam os punitive damages em paises em que as causas civis são julgadas por um juiz togado”.

  Quanto al profilo funzionale, occorre smentire risolutamente la diffusa opinione secondo cui i punitive damages sarebbero l’espressione paradigmatica di una funzione di deterrence. Di una “complexity of torts” che si manifesta emblematicamente in “the case for punitive damages” parla in un suo ultimo saggio in argomento Guido Calabresi: il quale, dopo aver elencato “at least five very different functions”, avverte che “each function … would have rules and limits that make no sense if one examines punitive damages through the prism of a different function”. Cinque sono anche le funzioni segnalate da David Owen; ma non sono le stesse. In comune tra le due tesi vi è, tuttavia, una netta opzione a favore di una coesistenza tra deterrence e compensation. Una tale opzione è esplicita in Owen, che ne scorge la sintesi in un Law enforcement destinato a operare come “a compelling case for allowing awards in situations where the profit motive has blinded a manifecturer to its product safety obligations”; ma la stessa opzione risulta altrettanto chiara da una famosa Court Opinion del Judge Calabresi in cui, in virtù della scelta del criterio del c.d.“multiplier” – consistente nel moltiplicare il pregiudizio sofferto dal convenuto in giudizio per il numero delle vittime impossibilitate ad agire –, “the risult amount was not a penalty, but fair social compensation”.

  Di questi aspetti di singolarità strutturale e di complessità funzionale è consapevole la Commissione europea che, nel “Libro bianco in materia di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust comunitarie” (2008), elegge a principio guida l’esigenza di osservare, in quel settore, “un metodo autenticamente europeo” e adotta “misure equilibrate radicate nella cultura e nelle tradizioni giuridiche europee” (punto 1.2). E’, questa, una puntualizzazione importante a fronte di un indirizzo, per così dire “possibilista”, serpeggiante in recenti sentenze della Corte di giustizia, secondo cui “una forma particolare di risarcimento, qual è il risarcimento esemplare o punitivo, deve poter essere riconosciuta nell’ambito di azioni fondate sulle regole comunitarie di concorrenza, qualora possa esserlo nell’ambito di azioni analoghe fondate sul diritto interno”.

  Né deve trarre in inganno un dato di apparente simmetria tra le due esperienze, quale quello che potrebbe cogliersi a proposito di ipotesi di faute lucrative (prendendo in prestito un’espressione tratta dall’Avant-projet francese), ricorrenti – come si è accennato (retro, n. 2) - in materia di violazione della proprietà industriale e concernenti gli utili realizzati dall’autore della violazione. Si tratta di ipotesi che nell’esperienza nordamericana costituiscono, in termini di “disgorgement of profit”, un altro terreno di elezione per il risarcimento di punitive damages e che anche la nostra giurisprudenza in passato ha risolto in termini risarcitori, traducendo l’illegittimo profitto del trasgressore in una voce di danno. Ma sarebbe fallace invocare, al riguardo, un implicito ricorso a una sorta di criptica versione italiana dei punitive damages allo scopo esclusivo di giustificare una misura che, nel nostro sistema, è in grado di trovare autonoma giustificazione sotto il profilo dell’ “arricchimento senza giusta causa”.

  Nella prospettiva del diritto internazionale privato, tuttavia, e più specificamente in materia di riconoscimento di sentenze nordamericane di condanna al risarcimento di punitive damages, le accertate peculiarità di tale istituto non sembrano sufficienti al fine di opporre un radicale disco rosso alla riconoscibilità invocando con discutibile apriorismo il principio dell’ordine pubblico.

  Ma procediamo con ordine.

  La ricordata sentenza del 2007 della Corte di cassazione italiana ricalca quasi pedissequamente nella motivazione le argomentazioni addotte allo stesso fine da una sentenza tedesca del 1992, con la quale il Bundesgerichthof, nel negare l’exequatur a una pronuncia statunitense di condanna di un cittadino tedesco – che in primo grado era stata dichiarata esecutiva dal Landgericht di Dusseldorf – aveva affermato che la natura di “pena privata” dei punitive damages si pone in contrasto con i princìpi fondamentali dell’ordinamento tedesco, in quanto il Grundgesetz sancisce il monopolio del giudice penale in materia di sanzioni. Ciò facendo, la Suprema Corte aveva modificato anche la pronunzia di secondo grado con cui l’Oberlandesgericht di Dusseldorf aveva decurtato l’ammontare del risarcimento, giudicato “grossly excessive”, senza peraltro discutere l’an. Il cerchio si è chiuso, poi, nel 1994 con l’avallo del Bundesverfassungsgericht: il quale ha però ammesso che i danni punitivi possono tendere a finalità compatibili con i princìpi dell’ordinamento tedesco, quando i punitive damages comprendono in sé il ristoro dei danni morali.

  All’attenzione scrupolosa per l’indirizzo giurisprudenziale tedesco, considerato come particolarmente significativo dalla nostra Corte di cassazione, fa da contrasto la mancata considerazione – consapevole o casuale? - di una non meno significativa sentenza pronunziata dal Tribunal Supremo spagnolo: la quale, nel concedere l’exequatur a una decisione texana, pur mostrando di non ignorare che “no sempre es fàcil … delimitar el quantum correspondiente a esa sanción coercitiva”, giunge alla conclusione che “no puede hablarse de los daños punitivos como una entitad atentatoria para el orden publico”, in quanto “los referidos ‘punitive damages’ han utilizado la responsabilidad civil como ente del derecho privado, como un menoscabo del derecho punitivo, lo que esta totalmente de acuerdo con la doctrina de la intervención mìnima en el indicado ambito penal”.

  La mancata considerazione della sentenza emanata dal Tribunal Supremo spagnolo non deve, tuttavia, sorprendere più di tanto. Sorprende di più la circostanza che i quindici anni trascorsi dalla sentenza della Suprema Corte tedesca a quella della consorella italiana sembrano non aver lasciato alcuna traccia. Il processo di “costituzionalizzazione” dei punitive damages avvenuto negli States proprio in quegli anni non pare aver sollecitato una riconsiderazione della vexata quaestio, nonostante la drastica “cura dimagrante” inferta all’ammontare “grossly excessive” dei risarcimenti tradizionali. Invero, nel “caso Gore” (1996) viene affermato il divieto di risarcimenti aventi una dimensione quantitativa “grossly excessive” alla stregua di alcuni parametri di valutazione all’uopo indicati. Ancora più incisivo è il passaggio da Gore a Campbell (2003): con questa pronunzia la Corte suprema introduce criteri rigidi di proporzionalità parametrata sull’ammontare del risarcimento dei danni patrimoniali. Con il “caso Williams” (2007), infine, la Corte suprema interviene decisamente nel vivo della questione; passa dalla riduzione del quantum a quello della delimitazione dell’an. Questo imponente processo di “costituzionalizzazione”, che la nostra Corte di cassazione ha ignorato pur essendo chiamata a “riconoscere” un istituto straniero nella sua concreta evoluzione, è ora sfociato, con la decisione del “caso Baker” (2008) in una massima che sembrerebbe perfettamente compatibile con il principio dell’ordine pubblico (anche interno): “the common sense of justice would surely bar penalties that reasonable people would think excessive for the harm caused in the circumstances”.

  Non sembra più possibile, ormai, continuare a sostenere apoditticamente che “nel caso dei punitive damages non c’è alcuna corrispondenza tra l’ammontare del risarcimento e il danno effettivamente subito”. Occorre, al riguardo, spostare il giudizio sul piano della eventuale “eccessività dell’importo liquidato per danni dal giudice straniero”; e tale giudizio – come espressamente rileva la stessa Corte di cassazione – “è riservato al giudice della delibazione ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente e logicamente motivato”. Il che era puntualmente avvenuto “nella specie”, ammette la Suprema Corte: la quale, però, ha preferito trincerarsi dietro la propria facoltà di “censurare il giudizio della Corte d’appello in ordine alla definizione del concetto di ordine pubblico interno”. In verità, la Corte d’appello, con una bella sentenza che non ignorava la giurisprudenza nordamericana (il “caso Gore” era espressamente menzionato), muoveva dalla premessa secondo cui “può affermarsi con certezza che nel nostro ordinamento, anche in materia di danni non patrimoniali ex art. 2059 c.c., sussistono rimedi prettamente civilistici, connotati anche da finalità afflittive e deterrenti”, per poi constatare che nel caso in esame la sentenza statunitense perseguiva “finalità esclusivamente pubblicistiche” e non giustificava “l’ammontare considerevole” del quantum: di qui la decisione sulla “contrarietà al nostro sistema per conflitto irrimediabile con l’ordine pubblico”, ma anche – significativamente – la compensazione delle spese di lite tra le parti.

  Dal confronto tra le due decisioni emergono, dunque, alcune significative discrepanze; e allora il problema torna a porsi in apicibus: il che vale tanto per la soluzione della questione di diritto internazionale privato, quanto sotto il profilo generale dei princìpi di diritto statuale che - in Italia come negli altri ordinamenti europei - evidenziano la primaria funzione compensativa del risarcimento del danno.

  Si tratta, dunque, di chiarire se davvero al risarcimento del danno, così concepito, è “estranea l’idea della punizione e della sanzione”.

  6. E’ qui che vengono alla luce, al livello europeo, quelle sorprendenti aperture alle quali si è già fatto allusione.

  Tre sono gli indirizzi che, senza mettere in discussione la funzione primaria della compensazione, tendono a dimostrare la possibilità, e anzi l’opportunità, di scoprire ambiti e/o prospettive di operatività della responsabilità civile in cui è rintracciabile una concorrente funzione sanzionatoria che varrebbe a connotare i relativi danni risarcibili come danni lato sensu punitivi.

  Il primo indirizzo si fonda su un’attenta analisi della giurisprudenza di merito, che consente di individuare più o meno esplicite tracce di emersione di profili sanzionatori nella valutazione e soprattutto nella determinazione del risarcimento del danno non patrimoniale alla persona: tracce comunque tali – si sostiene - da erodere, nella prassi, l’impermeabilità dell’orientamento pan-compensativo della dottrina dominante e della giurisprudenza di legittimità. L’indirizzo, particolarmente diffuso nella recente dottrina tedesca, non è certo nuovo. Partecipando al ricordato incontro pisano del 1984 su Le pene private, Wolfgang Grunsky osservava già che “fra il punto di vista teorico che ascrive all’obbligo di indennizzo una mera funzione reintegrativa e nega ogni aspetto penale e la soluzione pratica di certi problemi esiste un netto distacco”.

  Il secondo indirizzo si interroga, invece, sulle prospettive del XXI secolo: “L’extension ‘tous azimuts’ de la fonction indemnitaire de la responsabilité civile – si chiede Geneviève Viney nel sua relazione di sintesi al Colloquio savoiardo del dicembre 2000 su “La responsabilité civile à l’aube du XXI siècle” – est-elle appelée à se développer encore ou, au contraire, suscitera-t-elle des réactions?”. La domanda è retorica, e la risposta è decisamente indirizzata nel secondo senso: l’orientamento dominante “devra sans doute composer avec d’autres tendances dont l’importance ne cesse de se renforcer: il s’agit de la fonction punitive et de la fonction préventive”. Anche qui l’indirizzo non è nuovo: è del 1995 la monografia di Susanne Carval – La responsabilité civile dans sa fonction de peine privée – a cui Geneviève Viney, sua maestra, fa espresso e puntiglioso riferimento, segnalandola con malcelato orgoglio come “aussi instructive que convencante”.

  Del tutto nuovo, quasi avveniristico, e quindi anche inquietante, è un terzo indirizzo che ipotizza, fin dal sottotitolo di una poderosa monografia avente ad oggetto Pönale Elemente im Deutschen Privatrecht,, una “Renaissance der Privatstrafe im Deutschen Recht”. In particolare – sostiene l’autrice, citando la “renaissance of actio iniuriarum” caldeggiata da R. Zimmermann – “eine Repönalisierung des Privatrechts im Bereich des Persönlichkeitsrechtsschutzes … sollte daher nicht als Rückschritt in archaische Zeiten, sondern als Renaissance eines seit langem Bewärten Rechtsinstituts betrachtet werden”. E, in questo clima di proclamata, e in certa misura paradossale, modernizzazione del diritto privato tedesco attraverso un ritorno aggiornato al diritto penale, i punitive damages vengono prospettati, se non come “pönale Elemente des deutschen Privatsrechts”, certamente come “mögliche pönale Elemente des in Deutschland anzuwendenden Privatrechts”.

  7. A ben vedere, tuttavia, la novità di quest’ultimo indirizzo consiste, tutto sommato, semplicemente nel tradurre in una categorica, quanto azzardata, proclamazione di asserita certezza acquisita quella che, nell’introdurre i lavori dell’incontro pisano del 1984, avevo più cautamente prospettato - in termini interrogativi, anche se documentati - come possibile “riscoperta delle ‘pene private’ ”. Non solo; ma in quella occasione non era mancata un’approfondita difesa del concetto di “pena privata” da parte di Giovanni Bonilini: il quale, nel presentare la sua dotta monografia sul “danno non patrimoniale”, aveva proposto una lettura in chiave non risarcitoria, ma “riparatoria” dell’art. 2059, all’uopo interpretato come autentica fonte di “pena privata”.

  Ancora una volta, dunque, niente di nuovo sotto il sole. Personalmente, al tono declamatorio o categorico continuo a preferire quello interrogativo; alla certezza, il dubbio. Ma su un punto mi sento sicuro: l’interrogativo di venticinque anni fa non ha perduto niente in termini di attualità. Il dubbio, anzi, si è venuto rafforzando, e merita di essere sottoposto a nuova verifica, soprattutto nella direzione che è venuta assumendo la nuova responsabilità civile “costituzionalmente orientata”. Rilette con commozione a distanza di tanto tempo, acquistano un suono profetico le parole pronunziate allora da Franco Bricola: “l’eventuale revival della pena privata o, comunque, l’accentuarsi di profili non esclusivamente riparatori della responsabilità civile stimola riflessioni del civilista sulla funzione della sanzione e sembra aprire la strada a un processo di eticizzazione (correlato alla fase di ‘depatrimonializzazione’) della responsabilità civile”.

  Quanto al secondo indirizzo critico, che in Francia ha indotto taluno a parlare anche qui di renaissance (“de la renaissance de la faute”, caldamente auspicata al fine di reagire a quello che nel 1965, in una monografia ormai classica, Geneviève Viney aveva chiamato “le déclin de la responsabilité individuelle”), val la pena, in Italia, di ridare attualità al bel libro, anch’esso ormai classico (ma proprio perché tale talvolta dimenticato), dedicato al dolo nella responsabilità civile da Paolo Cendon, che va ben oltre la semplice difesa della “verdeur de la faute”. Nel presentarlo all’incontro pisano su Le pene private, l’autore evidenziava, infatti, il preciso intento di reagire ad una “area della colpa signoreggiata attraverso un richiamo puro e semplice alla funzione reintegratoria della responsabilità civile”, e ribadiva i due obiettivi fondamentali del libro: quello di attribuire al dolo “la funzione di attirare nel campo aquiliano, e sanzionare con l’obbligo al risarcimento, comportamenti lesivi prima irrilevanti”; e quello di riscontrare “un preciso spicco al dolo, sotto il profilo del quantum che va risarcito”.

  Ma l’indirizzo critico che, in Italia, si è venuto maggiormente sviluppando specialmente in tempi recenti è quello che ha fatto esplodere il contrasto, divenuto clamoroso, tra enunciazioni di principio e soluzione pratica dei problemi con particolare riferimento al delicato settore degli illeciti endofamiliari, ove il legislatore è intervenuto introducendo - con Legge n. 54/2006 - una nuova norma processuale (l’art. 709 ter, comma 2, c.p.c.) che prevede, in un quadro di misure tipicamente sanzionatorie, ipotesi di risarcimento del danno di incerta qualificazione. Orbene, la giurisprudenza di prossimità o, più in generale, di merito, ha in prevalenza attribuito a tali ipotesi di risarcimento una funzione decisamente sanzionatoria, evidenziando “l’affinità strutturale e funzionale del danno risarcibile ex art. 709 ter c.p.c. con il ‘vecchio’ danno morale soggettivo”; e ha continuato imperterrita a farlo anche dopo che le Sezioni unite “hanno dato risposta negativa a tutti gli interrogativi relativi alla possibile differenziazione, anche funzionale, fra le diverse voci di danno non patrimoniale”. Emblematica è, al riguardo, una recente sentenza del Tribunale di Venezia che in motivazione non esita a giustificare la possibilità che nel danno non patrimoniale si trovi a coesistere, “accanto al profilo satisfattivo, … un profilo sanzionatorio/deterrente”: “in altri termini, fermo restando che si devono prendere in esame le conseguenze in concreto manifestatesi nella sfera della vittima, appare possibile – spiegano i giudici veneziani – in tali vicende stabilire un rapporto di proporzionalità anche con la (natura e il tipo di) condotta dell’offensore”.

  8. Sorprendentemente, quindi – ma forse, a ben riflettere, non troppo –, le indicate “aperture” più o meno nascoste nell’orientamento “trionfante” sono in grado di minare alla base la granitica assolutezza di tale orientamento; di riproporre in vesti aggiornate il vecchio danno morale soggettivo; e di riconoscergli una funzione sanzionatoria e un carattere lato sensu punitivo, vincendo le sensazioni che può suscitare – e che in larga misura ha suscitato – “le spectre de l’americanisme du droit”. Lo afferma, senza mezzi termini, Massimo Franzoni: “mi sembra che l’unico modo teoricamente accettabile per evitare sovrapposizioni consista nell’attribuire al danno morale soggettivo dell’art. 185 c.p. una funzione mista nella quale la componente punitiva è prevalente su quella solidaristica: questo del resto è l’insegnamento che ci giunge dalla tradizione”: quella “lunga e ininterrotta tradizione storica” a cui allude, dall’alto della sua esperienza, Renato Scognamiglio.

  Questa presa d’atto non costituisce peraltro un punto di arrivo tale da trasformare il dubbio sulla “tenuta” dell’orientamento “trionfante” in certezza del suo superamento; è, piuttosto, un punto di partenza per analizzare i problemi che le “aperture” riscontrate pongono a chi intenda svilupparne la portata e le conseguenze.

  Tre sono i problemi cruciali: la delimitazione dell’ambito di rilevanza di un danno morale soggettivo connotato da funzione sanzionatoria e da carattere lato sensu punitivo; la determinazione del rapporto tra l’effettività del danno subito dalla vittima e la dimensione del risarcimento; l’individuazione di un possibile criterio di contemperamento tra funzione satisfattiva e funzione sanzionatoria.

  9. Il primo problema chiama in causa l’individuazione del presupposto di una responsabilità in grado di estendersi al risarcimento di tale figura di danno. L’Avant-projet francese, sia pure ai fini specifici dell’introduzione di una figura di danni stricto sensu punitivi, postula – come si è visto (retro, n. 2) - una “faute manifestement délibérée, notamment une faute lucrative”. Più genericamente di una faute lourde parla Suzanne Carval. Ma il genericismo di simili formule offre il fianco a una critica di labilità del criterio di delimitazione, che rischia “d’être source d’un abondant contentieux pour déterminer s’il est possible ou non d’octroyer des dommages et intérêts”. Il sistema francese, tuttavia, tanto de iure condito quanto nel progetto di riforma, esclude qualsiasi forma di determinazione legislativa dell’ambito di rilevanza dei danni non patrimoniali; e quindi non offre alcuna alternativa alle proposte all’uopo formulate, che finiscono con il demandare per intero al giudice del caso concreto l’esercizio del criterio discretivo.

  Il sistema italiano prevede, invece, un criterio di tipizzazione legislativa dei danni morali soggettivi risarcibili attraverso la formula di rinvio adottata dal tanto discusso art. 2059; ed allora il problema che si pone de iure condendo è quello di interrogarsi sull’opportunità di proporre, o meno, un superamento di tale criterio. Chi si orienta in senso affermativo si libera delle rigidità talvolta paralizzanti legate al funzionamento dell’art. 2059, ma incorre necessariamente nelle critiche appena menzionate di eccessiva labilità del criterio selettivo.

  Personalmente, ritengo preferibile l’orientamento negativo, non soltanto perché ragioni di certezza in un settore così delicato raccomandano “un indice normativo sicuro”, ma anche perché un superamento della formula dell’art. 2059, e del raccordo (tuttora) privilegiato con l’art. 185 cod. pen. – che vale a segnalare il dolo come presupposto generale di responsabilità - rischierebbe di comportare uno sconvolgimento, o una devitalizzazione, del sistema vigente e del relativo modello, imperniato – com’è noto - su un principio di bipolarità tra danni patrimoniali e danni non patrimoniali: un principio che non intende contrapporre due discipline risarcitorie diverse, ma mira a specificare legislativamente i limiti di risarcibilità congeniali ai danni non patrimoniali nel contesto di un (unico) sistema risarcitorio che si riconosce il compito di delimitare i confini della risarcibilità del danno.

  10. La “blindatura” legislativa, se assicura margini di certezza in ordine alla risarcibilità del danno morale soggettivo e alla possibile rilevanza del suo carattere lato sensu punitivo, non legittima il giudice a superare la “frontiera massima” del risarcimento del (solo) danno effettivo. Superarla significherebbe mettere in crisi non soltanto la funzione, ma l’essenza stessa della responsabilità civile, e il suo principale criterio distintivo dalla responsabilità penale. “Responsabilité sans préjudice: révolution ou perversion de la responsabilité?”, si chiede Denis Mazeaud; in ogni caso, pericoloso stravolgimento.

  Ha il sapore dell’alchimia, piuttosto che il senso della dialettica, il tentativo di superamento fondato sul “combinato disposto degli artt. 1223, 1226 e 2056 c.c.” e “sull’utilizzo dei poteri equitativi del giudice in relazione alle circostanze del caso concreto”: precetti normativi e poteri giudiziali di valutazione equitativa, questi, senza dubbio fondamentali per la determinazione del risarcimento del danno, ma non per andare oltre il risarcimento. Né sembra risolutivo far leva sulle derive di superamento riscontrabili in una giurisprudenza che si ritiene affrancata dall’esigenza di rivelare la vera natura dei risarcimenti accordati: “cette liberté incontrôlée qui s’exerce d’une façon occulte permets évidemment toutes les dérives”, osserva Geneviève Viney; ma non consente di trasformare la pericolosa ambiguità di una prassi nella rassicurante trasparenza di una regola.

  Si tratta, allora, di mettere in discussione il diffuso convincimento secondo cui “les dommages et intérêts punitifs se caractérisent par la condamnation de l’auteur d’un agissement fautif au versement d’une somme supérieure à celle nécessaire pour réparer le préjudice de la victime”.

  Occorre, a questo punto, essere chiari. Solo dimostrando che questo convincimento è frutto di una soluzione auspicata (per esempio, ma non solo, dai fautori di una complessità funzionale ispirata all’esperienza nordamericana dei punitive damages) o temuta (per esempio, da quanti paventano un inquinamento della purezza della responsabilità civile e una incrinatura del suo irreversibile distacco dalla responsabilità penale), ma non imprescindibile, rimane possibile continuare la ricerca intrapresa sui confini della responsabilità civile. Altrimenti, ci si dovrebbe rassegnare a concludere che “admettre les dommages et intérêts punitifs dans la responsabilité civile apparaît comme une fausse bonne idée”.

  11. E’, questo, il terzo problema sopra enunciato: quello che porta a interrogarsi sull’an e sul quomodo di un contemperamento tra funzione satisfattiva e funzione sanzionatoria in sede di determinazione del risarcimento del danno morale soggettivo.

  Per inquadrare correttamente il problema occorre preliminarmente mettere a fuoco la peculiare natura del danno al cui risarcimento si riferisce il quesito di partenza.

  12. L’interpretazione dell’art. 709 ter c.p.c., anche in ragione della laconicità sibillina della norma, ha peraltro suscitato in giurisprudenza, come si già avuto occasione di rilevare (retro, n. 7), delicati problemi applicativi in ordine all’individuazione dei confini che dovrebbero segnare “la frontiera massima” della responsabilità civile.

  Non tutte le sentenze si sforzano, come quella appena menzionata o quella ancora più recente emessa dal Tribunale di Venezia (v. retro nota 76), di rispettare tali confini.

  A volta i confini vengono erosi, come è avvenuto in un caso deciso dalla Corte d’Appello di Firenze, secondo cui “il danno, subito dal minore per la privazione della frequentazione paterna, può essere liquidato senza necessità di specifica istruttoria sull’an e sul quantum trattandosi di danno da individuarsi in re ipsa”; più spesso essi vengono deliberatamente superati.

  Il superamento dei confini avviene, per lo più, all’insegna di una asserita netta distinzione tra l’azione per il risarcimento del danno ex 709 ter c.p.c. – che farebbe emergere “una funzione non strettamente riparatoria ma general-preventiva” - e l’azione risarcitoria esperibile ex artt. 2043-2059 c.c.; o dell’ancora più esplicita affermazione secondo cui “il risarcimento del danno previsto ai punti 2 e 3 dell’art. 709 ter c.p.c. costituisce un forma di punitive damages ovvero di sanzione privata non riconducibile al paradigma degli artt. 2043-2059 c.c.”.

  E’ singolare come una piccola norma processuale abbia potuto far divampare un problema centrale di diritto sostanziale concernente la moderna responsabilità civile: quello, appunto, del possibile superamento dei suoi confini.

  Il problema non deve essere drammatizzato. E’ precipuo merito di un’autorevole dottrina l’aver dimostrato che “le frontiere della responsabilità civile da categoria mistica che le ha fatte sembrare colonne d’Ercole oltre le quali vi sarebbe il nulla, si trasformano in veri e propri confini, al di là dei quali stanno altri istituti e altre discipline”.

  Questo sentiero di “trasformazione” è già stato percorso, con risultati chiarificatori, nella direzione dell’arricchimento senza causa.

  Si tratta, qui, di valutare se il sentiero possa ulteriormente trasformarsi in una strada di accesso alle pene private, lungo un tracciato suscettibile di essere sperimentato nella direzione sanzionatoria di danni stricto sensu punitivi.

  13. Occorre, a questo punto, tentare di sciogliere un nodo terribilmente intricato: quello che lega in modo apparentemente inestricabile la rilevanza giuridica del “fatto illecito”, individuato come “fonte di obbligazioni” dall’art. 1173, al “risarcimento per fatto illecito”, introdotto al livello di obbligazione (appunto, risarcitoria) dall’art. 2043.

  Invero, il nodo può essere sciolto solo a patto di dimostrare che non vi è necessaria sovrapposizione tra l’ambito di rilevanza del “fatto illecito” considerato dall’art. 1173 e quello dei “fatti illeciti” disciplinati dal Titolo IX del Libro quarto del codice civile.

  La possibilità di disancorare le norme degli artt. 2047-2054, per le quali – si noti - il legislatore non usa mai il termine “fatto illecito”, da tale fonte per ricondurre le relative obbligazioni, nel quadro delle fonti delineato dall’art. 1173, ad “altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” è stata esplorata con una convincente analisi di ricostruzione storica in un bel libro di Francesca Giardina.

  Si tratta ora di considerare se è configurabile un disancoraggio in senso opposto, valutando se le obbligazioni che derivano da fatto illecito ai sensi dell’art. 1173 sono necessariamente soltanto quelle risarcitorie enunciate dall’art. 2043 (e dall’art. 2059), o se al legislatore è consentito ricollegare al fatto illecito, così come individuato dall’art. 1173 e eventualmente caratterizzato da uno speciale elemento soggettivo (con esplicito abbandono del “dogma dell’equivalenza tra colpa e dolo”), obbligazioni ulteriori o diverse, non necessariamente restitutorie, ma apertamente sanzionatorie.

  Orbene, l’alternativa appena prospettata sembra delineare, almeno a prima vista, un tracciato correttamente percorribile nella direzione sanzionatoria di danni stricto sensu punitivi.

  Il pensiero torna agli ammaestramenti di Franco Bricola: il quale, nel prendere atto della “sempre più vivace propensione alla depenalizzazione”, manifestava il convincimento che “in tale ottica l’esistenza di sanzioni civili più adeguate, etichettate o meno come ‘pene private’, sembra auspicabile”; e osservava in particolare che “sul terreno dei diritti della personalità la tutela sanzionatoria civile, rafforzata secondo le tendenze ‘punitive’ emergenti’, potrebbe intervenire … addirittura con un ruolo esclusivo laddove la tecnica della tipicizzazione … del diritto penale finisce per lasciare scoperte zone che reclamano protezione”.

  L’attualità di queste considerazioni è evidente.

  Non si ravvisano, in linea di principio, ostacoli sul piano della legittimità costituzionale: contorte e inconsistenti appaiono le censure ultimamente sollevate in giurisprudenza circa un’asserita violazione dell’art. 3 Cost., al quale sarebbe “ancorato” il principio di proporzionalità, ritenuto applicabile “anche alla procedura civile” e idoneo a “tener conto, tra l’altro, del concetto di giustizia retributiva che – questa è la conclusione, indimostrata nella sua assolutezza – informa il diritto al risarcimento del danno”. Le premesse costituzionali legittimanti il concetto di “pena privata” potrebbero ravvisarsi, piuttosto che sul piano della portata estensiva degli artt. 25, comma 2, e 27 Cost., direttamente in un riferimento all’art. 23 Cost. E’ ancora Franco Bricola ad additare questa prospettiva interpretativa sostenendo che detta norma “potrebbe essere riferita alle forme di pena privata ovvero di sanzioni civili aventi a contenuto una prestazione patrimoniale non commisurata soltanto al danno o che dallo stesso prescinda”.

  Né una simile idea sanzionatoria rischierebbe necessariamente di incorrere, al livello comunitario, nel veto della contrarietà all’ordine pubblico. Infatti, il Regolamento europeo n. 864/2007 “sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (Roma II)”, nel riferirsi (considerando n. 32) ai “danni non risarcitori aventi carattere esemplare o punitivo”, giustifica decisioni dei giudici degli Stati membri invocanti la contrarietà all’ordine pubblico della legge designata dal regolamento stesso soltanto quando il relativo quantum abbia “natura eccessiva”.

  Nel nostro sistema, beninteso, questa possibile apertura alla controversa figura dei danni stricto sensu punitivi si prospetta esclusivamente de iure condendo. L’art. 709 ter c.p.c. non si presta a essere interpretato quale norma anticipatrice in tale direzione; e non sono pertanto condivisibili le decisioni, sopra menzionate, che lo fanno senza adeguato approfondimento dei termini corretti in cui si colloca la ventilata prospettiva.

  Vale, dunque, la pena di approfondirli.

  14. Vi è anzitutto un problema di qualificazione. Chi, a suo tempo, ha inteso affrontare il problema all’interno dell’art. 2059 suggerendone una lettura in chiave di pena privata, ha proposto di interpretare il “risarcimento” di cui parla la norma quale “riparazione”, muovendo dalla premessa che il risarcimento postula una funzione esclusivamente compensativa. La stessa premessa sembrerebbe aver indotto, ora, il Regolamento europeo n. 864/2007 a adottare, come si è accennato, l’infelice espressione “danni non risarcitori”. Ma si tratta di una premessa reversibile. Infatti vi è chi parla, per qualificare le stesse ipotesi, di “figure risarcitorie non riparatorie”, muovendo dalla diversa premessa secondo la quale, all’interno di un’idea risarcitoria in senso lato, è possibile distinguere tra “risarcimento vero e proprio, modulato secondo la funzione riparatoria dell’art. 1223, … e rimedi non riparatori, non necessariamente punitivi”. La stessa premessa è, verosimilmente, alla base della qualificazione come “risarcitoria” della “azione collettiva” introdotta dall’art. 140 bis del codice del consumo, il cui ambito di operatività si spinge oltre il risarcimento vero e proprio. In realtà, i danni stricto sensu punitivi, per loro natura, si ribellano ad una artificiosa qualificazione in termini risarcitori o riparatori. Rileva, qui, la criptica anfibologia del termine “danni”, che meglio si evidenzia nella dichiarata ambivalenza del termine “damages”: il quale vale a designare, al tempo stesso, i pregiudizi e i “remedies”. Orbene di rimedi, rectius di sanzioni civili, si intende discutere quando si parla di danni stricto sensu punitivi: “danni” (in senso lato) che non sono qualificabili come pregiudizi sofferti dalla vittima dell’illecito, ma che rilevano in quanto addossati all’agente allo scopo di punire la sua condotta riprovevole: di qui la giustificazione della loro qualificazione come “pene private”.

  15. Vi è, poi, il problema dell’individuazione dei presupposti e delle modalità della loro possibile rilevanza.

  Nulla poena (privata) sine previa lege, anzitutto.

  Il legislatore dovrebbe formulare regole chiare in tre direzioni.

  Dovrebbe anzitutto chiarire che la regola all’uopo dettata ha funzione prettamente sanzionatoria; è sganciata da un diretto riferimento all’effettivo pregiudizio (eventualmente) subito dalla vittima dell’illecito, ma deve raccordarsi con la gravità dell’offesa arrecata; e presuppone una condotta intenzionale dell’offensore.

  Dovrebbe, altresì, procedere a una rigorosa tipizzazione dell’illecito o degli illeciti a cui intende riferirsi, e eventualmente indicare parametri prefissati di quantificazione, al fine di assicurare obiettivi di legalità e di certezza compatibili con i princìpi generali del diritto civile.

  Dovrebbe, infine, dettare criteri operativi per una corretta applicazione, caso per caso, della regola. Può risultare utile a questo riguardo, come precedente legislativo, la criteriologia dettata dal nuovo Codice civile del Quebec “lorsque la loi prévoit l’attribution de dommages-intérêts punitifs” (art. 1621). Tali danni (rectius, la relativa condanna) “ne peuvent excéder, en valeur, ce qui est suffisant pour assurer leur fonction préventive” (comma 1), e si apprezzano tenendo conto di tutte le circostanze appropriate, e in particolare della gravità dell’elemento soggettivo della condotta dell’offensore, della sua situazione patrimoniale o dell’ammontare del risarcimento a cui è già obbligato nei confronti della vittima, e infine della sussistenza o meno di una copertura assicurativa (comma 2).

  Last but not least: potrebbe essere utile mettere a fuoco le eventuali consonanze (e segnalare le apparenti dissonanze) con “il nuovo che avanza”, se è vero che la nostrana “azione collettiva risarcitoria” si propone di “ottenere un’efficacia deterrente verso condotte imprenditoriali non consone agli interessi esterni” in un contesto di “ampio accesso alla giustizia a tutte le parti deboli del sistema socio-economico”.

  Una ricerca in tale direzione è già stata proficuamente avviata da chi ha messo in evidenza come “la percezione che si ricava dal sistema di origine della class action è … che ricorre frequentemente, anche se non necessariamente, il riconoscimento del danno punitivo in quel tipo di azioni”; e, in quella prospettiva, ha in particolare esaminato in termini problematici l’eventuale valenza punitiva dei rimedi diretti a sottrarre al danneggiante il profitto della propria condotta illecita.

  Se questa ipotesi dovesse essere confermata, si potrebbe forse giungere alla conclusione che la reazione all’ingiustificato arricchimento del danneggiante non sarebbe necessariamente riconducibile a un paradigma rigidamente restitutorio avente come destinatario diretto il (singolo) danneggiato, ma potrebbe configurarsi piuttosto come misura flessibile - non l’unica - utilizzabile nella determinazione dei danni punitivi da addossare al danneggiante. Il che potrebbe servire, tra l’altro, a sdrammatizzare il problema dell’apparente antinomia tra unicità del profitto illecito e dimensione collettiva della lite.

  Ma, per il momento, si tratta solo di spunti prospettati, per così dire, “a volo d’uccello”, anche perché “forse i tempi non sono ancora maturi perché si concluda il dibattito sui danni punitivi”.

  16. Tornando dai voli (sperabilmente non troppo “pindarici”) nel cielo delle prospettive de iure condendo alla terra ferma del sistema quo utimur della responsabilità civile, le conclusioni fin qui al riguardo raggiunte possono così sintetizzarsi.

  Nessuno può dubitare che la funzione primaria della moderna responsabilità civile è, e presumibilmente continuerà a essere, la funzione compensativa, che sulla base di una consolidata convenzione sociale si estende dal risarcimento dei danni patrimoniali al risarcimento di danni (per loro natura) non patrimoniali ma suscettibili di valutazione economica, quali sono i danni biologici.

  Al risarcimento dei danni non patrimoniali insuscettibili di valutazione economica si addice invece una funzione diversa, che convenzionalmente si esprime in termini di funzione satisfattiva.

  Quest’ultima funzione può convivere con una funzione sanzionatoria, a seconda dei casi ancillare o trainante. Ma è al legislatore, e non al giudice, che compete il potere di prevedere l’innesto di questa funzione sanzionatoria, e la giustificazione di una limitata sfera di risarcibilità di danni aventi un connotato lato sensu punitivo.

  In questi limiti, può dirsi che, in un sistema dominato dalla compensazione, sopravvive (se ci si riferisce all’art. 2059 nel suo raccordo privilegiato con l’art. 185 c.p.) o nasce (se ci si riferisce al nuovo art. 709 ter c.p.c., correttamente interpretato, o alle recenti norme che prevedono misure risarcitorie in sede di tutela giurisdizionale contro la discriminazione) una prospettiva di deterrenza.

  Dilatarne la portata, fino a suggerire frettolose equazioni con i punitive damages del sistema nordamericano, è atteggiamento culturalmente sconsiderato oltre che operativamente improvvido.

  Valorizzarne gli effetti appare invece senz’altro opportuno, anche perché “una responsabilità civile che non accarezzi la deterrenza non è una vera responsabilità civile”.

发布时间:2013-03-05  
 

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