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Antonio Saccoccio:NEGOZIO GIURIDICO, ATTO GIURIDICO E ADEMPIMENTO DELL’OBBLIGAZIONE

NEGOZIO GIURIDICO, ATTO GIURIDICO E ADEMPIMENTO DELL’OBBLIGAZIONE

  Antonio Saccoccio

  Università degli Studi di Brescia – Italia

I. La solutio come modo ‘naturale’ di scioglimento dell’obligatio.

  Come è noto, la solutio è il modo ‘naturale’ di scioglimento delle obbligazioni: ‘tollitur obligatio praecipue solutione…’ (l’obbligazione si estingue principalmente attraverso l’adempimento [solutio]), dice Gai. 3.168. Secondo una dogmatica a noi vicina, la solutio rappresenta l’adempimento dell’obbligazione. Il termine ‘adempimento’, poi, deve preferirsi a quello di ‘pagamento’, molto in uso in Italia fino al secolo scorso e che ancora identifica l’adempimento più o meno in tutti i Cc. civili europei e latinoamericani: pagamento, infatti, viene dal latino medioevale ‘pacatus’, termine con cui si indicava il creditore soddisfatto.

  Per Gaio, così come anche per Giustiniano, alla solutio, modo paradigmatico di scioglimento delle obbligazioni, vengono progressivamente equiparati altri modi di estinzione dell’obbligazione, che al paradigma si avvicinano, pur senza averne la ‘connaturalità’(acceptilatio, novazione, litis contestatio ecc.). Su questa linea, l’unica eccezione è rappresentata, nella storia del diritto privato romano, dalla cd. datio in solutum, che mentre per Gaio rappresenta ancora uno dei tanti modi di estinzione che possono essere ragguagliati alla solutio stessa, per Giustiniano diviene essa stessa un modo ‘naturale’ di scioglimento dell’obbligazione, alla pari proprio della solutio stessa, come prova la caduta dell’avverbio ‘praecipue’ nel brano giustinianeo corrispondente alle Istituzioni di Gaio (I.3.29 pr.).

  Pertanto, ad eccezione di questo passaggio di Giustiniano, che rende sostanzialmente equivalenti sul piano ontologico solutio e datio in solutum, la solutio (= l’adempimento) rappresenta il paradigma dei modi di estinzione delle obbligazioni per il diritto romano.

II. I due significati di solutio delle fonti romane.

  Nell’antico diritto romano, la solutio rappresentava lo scioglimento materiale del debitore, che alle origini era vincolato fisicamente, verosimilmente in funzione di etero-garanzia. La terminologia dell’antica obligatio, così come dei suoi modi di estinzione, è tutta orientata in funzione proprio di questo materiale asservimento: ob-ligare (legare); nectere (nexum) (incatenare); vinculum (vincolo) ecc. Pertanto, la solutio rappresentava una autentica liberatio (liberazione), che scioglieva (solvere) il debitore fisicamente ob-ligatus (legato/obbligato).

  Si può ragionevolmente presumere che questa più antica solutio operava senza alcuna valorizzazione delle modalità e delle procedure con cui la liberazione stessa si realizzava, che fosse cioè la modalità ‘ordinaria’ di estinzione (pagamento), o invece qualsiasi altra modalità che conducesse al medesimo risultato.

  Questa liberazione, infatti, avveniva con un atto formale (solutio per aes et libram; acceptilatio; nexi liberatio ecc.), a cui probabilmente rimaneva indifferente l’effettivo realizzarsi o meno dell’interesse creditorio: che si fosse o meno eseguita la prestazione oggetto dell’obligatio, senza l’atto formale non si veniva liberati dal legame. Un famoso testo di Pomponio, D.46.3.80, tratto dal libro IV ad Quintum Mucium, in cui quasi certamente Pomponio veicola un pensiero già appartenente al giurista repubblicano Quinto Mucio Scevola, rappresenta forse uno dei punti di emersione della solutio come atto di soddisfacimento effettivo dal creditore, anche indipendentemente dalla forma. Da questo testo emerge infatti come, data la regola della corrispondenza dei modi di estinzione con i modi di costituzione dell’obbligazione (re contrahere-re solvere; consensu contrahere-consensu distrahere ecc.), l’obbligazione contratta verbis può essere comunque sciolta tanto con l’atto uguale e contrario concluso verbis (cioè con l’acceptilatio, che applica il citato criterio della corrispondenza), quanto re, cioè attraverso la solutio (che quindi qui rappresenta la solutio di quod promissum est).

  Già verso la fine dell’età repubblicana, quindi, emerge il valore liberatorio della solutio, anche indipendentemente dal compimento di alcun atto formale.

  Pertanto è evidente che i termini solvere/solutio nelle fonti romane subiscono una vera e propria eterogenesi di significato, che determina il passaggio da un significato ampio dei termini, comprendente la satisfactio del creditore ‘quoquo modo facta’, ad un significato ristretto dei due termini, limitato a ‘facere quod [debitor] promisit’. L’oscillazione terminologica è particolarmente evidente in un noto testo di Ulpiano (cfr. D.50.16.176 Ulp. 45 ad Sab.), con il quale a torto si è voluto corroborare una contrapposizione tra solvere e satisfacere, che le fonti romane non supportano sempre.

  Il verbo solvere finisce così per indicare la «liberazione mediante esecuzione del contenuto dell’obbligazione» (Solazzi). La solutio diventa così sostanzialmente equivalente di ‘adempimento’ dell’obbligazione, e questa diventa l’accezione ampiamente dominante del termine, che, attraverso la tradizione giuridica europea medioevale e poi dei secoli XVII e XVIII, perviene alle moderne codificazioni.

III. I residui della antica accezione di solvere/solutio.

  Ma un retaggio delle antiche concezioni non manca di lasciare tracce nella struttura dogmatica assegnata all’adempimento nel diritto romano, anche nel periodo classico. Da un lato, infatti, nei testi dei giuristi romani continuano a rimanere attestazioni della riferita accezione ‘ampia’ di solutio (quella cioè corrispondente alla liberazione ‘quoquo modo facta’). Dall’altro lato, gli stessi giuristi, anche quando accoglievano il riferito significato ‘ristretto’ di solutio (cioè quello sostanzialmente equivalente al nostro adempimento), continuavano spesso a considerare come punto focale della fattispecie non tanto e non solo il soddisfacimento materiale dell’interesse creditorio, realizzato attraverso la prestazione da parte del debitore di quanto dedotto in obligatione, quanto piuttosto la liberazione del debitore.

  Dal primo punto di vista, possiamo ricordare l’affermazione di Paolo (D.46.3.54), per cui ‘solutionis verbum pertinet ad omnem liberationem, quoquo modo factam’ (la parola solutio riguarda ogni liberazione , in qualsiasi modo realizzata), o la testimonianza di Ulpiano nel libro 58 dell’ad edictum (D.42.1.4.7), secondo il quale ‘solvisse accipere debemus non tantum eum qui solvit, verum omnem omnino qui ea obligatione liberatus est, quae ex causa iudicati descendit’ (dobbiamo intendere che abbia adempiuto non soltanto colui che ha pagato, ma anche soprattutto colui il quale è liberato dall’obbligazione che discende dal giudicato).

  Niente altro che l’esito di questo antico significato di solutio è poi altresì l’affermazione dello stesso Paolo (D.50.16.47 56 ad ed.), per cui nella solutio altro non bisogna vedere se non la liberatio del debitore dal vincolo dell’obligatio: «liberationis verbum eandem vim habet quam solutionis» (la parola ‘liberatio’ ha la stessa forza della parola ‘solutio’).

  Dal secondo punto di vista, anche in alcuni testi nei quali viene senza ombra di dubbio accolto il significato opposto del termine (solutio = adempimento), rimangono delle zone d’ombra, che, a mio avviso, più facilmente possono spiegarsi con il retaggio dell’antico significato di solutio, alla luce del quale rimaneva sostanzialmente in ombra il comportamento del debitore, rilevando principalmente lo scioglimento dal vincolo.

  Infatti, se l’adempimento è il compimento della prestazione promessa, è perfettamente coerente che in primo luogo sia tenuto alla solutio il debitore stesso, il quale è in grado, attraverso la realizzazione del comportamento dovuto, di innescare quel processo che condurrà alla sua liberatio. Le fonti, però, attestano ampiamente anche la solutio da parte del terzo (con l’ovvia eccezione delle prestazioni personali, che siano tali per loro natura o perché così si sia convenuto), al cui esito troviamo la stessa liberatio che conseguirebbe il debitore con il suo proprio adempimento. E rispetto all’adempimento del terzo, si noti come esso può avvenire anche nell’ignoranza del debitore, o addirittura contro la sua volontà: D. 46.3.53 Gai. 5 ad ed. prov.: solvere pro ignorante et invito cuique licet, cum sit iure civili constitutum licere etiam ignorantis invitique meliorem condicionem facere (a chiunque è lecito adempiere per conto di un altro che lo ignori, poiché è stabilito dal diritto civile che è possibile rendere migliore la posizione giuridica anche di chi lo ignori e di chi non lo voglia); D. 3.5.38 Gai. 3 de verb. obl.: solvendo quisque pro alio licet invito et ignorante liberat eum (chiunque paghi per un altro, lo libera, anche se l’altro non voglia o non ne sia al corrente). La regola, peraltro, si trova ribadita anche in vari altri luoghi della compilazione giustinianea (vd. D.3.5.42; D.14.1.1.24; D.46.3.23.40 e 53 ecc.), e si trova trasferita in quasi tutte le codificazioni moderne (cfr., ad es., l’art. 1180 c.c. it. 1942 o l’art. 1222 c.c. per. 1984).

  Questa regola mal si accorda con il principio per cui l’adempimento è un atto del debitore con il quale costui realizzi il contenuto dell’obbligazione, perché in tal caso l’adempimento è posto in essere non dal debitore ma da un terzo. Né reggono ad una critica anche solo superficiale le scappatoie tentate dalla dottrina dell’Ottocento: infatti, non si può certo affermare che il terzo sia un rappresentante del debitore (visto che il terzo può addirittura ‘solvere invito debitore’ [pagare anche contro la volontà del debitore]); né si può dire che lo scopo è l’elemento centrale dell’obbligazione, per cui soddisfatto in qualsiasi modo questo scopo l’obbligazione si estinguerebbe (Windscheid).

  La regola appare invece perfettamente coerente con il riferito antico significato di ‘solutio’, che slega la solutio dal contenuto dell’obbligazione, e che trova una sorta di giustificazione ex post con l’affermazione sopra vista di Gaio per cui è lecito migliorare la posizione giuridica di un terzo, anche a sua insaputa (vd. D.46.3.53 Gai. 5 ad ed. prov.: solvere pro ignorante et invito cuique licet, cum sit iure civili constitutum licere etiam ignorantis invitique meliorem condicionem facere).

  In primo piano viene posto non tanto l’atto di adempimento del debitore, quanto la liberatio a cui tende l’adempimento stesso. Il punto di vista non appare essere tanto quello personale, quanto quello teleologico: rilevante non è tanto l’atto del debitore o di un terzo, quanto, piuttosto, la realizzazione ‘quoquo modo’ (in qualsiasi modo) dell’interesse del creditore, ciò che provoca la liberazione del debitore dal vincolo che lo astringeva.

  Nello stesso senso si spiegano altresì anche due altre circostanze che nella logica che vede nell’adempimento esclusivamente un comportamento del debitore rimarrebbero altrimenti inspiegabili.

  La prima riguarda il pagamento fatto con cose altrui, che, per consolidata opinione dei giuristi romani, fa conseguire al debitore la liberatio se il creditore usucapisca la cosa stessa o mischi il denaro così ricevuto con il proprio: cfr. D.17.1.47.1 (Pomp. 3 ex Plaut.) e D.46.3.60 (Paul. 4 ad Plaut.).

  La seconda circostanza riguarda invece la regola classica, per cui in linea di principio anche l’incapace poteva validamente adempiere alle proprie obbligazioni anche senza l’assistenza dei tutori, salvo il fatto che, proprio in virtù della sua incapacità, non potesse in tal modo validamente trasferire la proprietà. E, per converso, anche il pagamento fatto ad un incapace in linea di principio era valido, salvo il fatto che, non potendo l’incapace disporre validamente del rapporto obbligatorio (quia nullius rei alienatio ei concessa est [poiché a lui incapace non era in alcun modo concessa la facoltà di alienare]: Gai. 2.84), tale pagamento, pur rimanendo in linea di fatto valido, non liberava il creditore, se non nel caso in cui l’incapace avesse consumato il denaro ricevuto, ad esempio mischiandolo con il proprio, oppure nel caso in cui egli si fosse arricchito in virtù del pagamento ricevuto. In tali casi, il creditore non era liberato (pur avendo il debitore incassato il pagamento), ma era il pretore che si incaricava di concedere una eccezione di dolo contro il suo eventuale esperimento in giudizio dell’azione derivante dal credito: la regola è diffusamente attestata in diritto romano (cfr., oltre al ricordato luogo gaiano, anche D.44.4.4.4 Ulp. 76 ad ed.; D.46.3.15 Paul. 6 ad Sab.; D.46.3.47 pr. Marcian. 4 reg.; D.46.3.66 Pomp. 6 ex Plaut. ecc.).

  E tali soluzioni erano ampiamente condivise dalla Glossa: cfr. gl. casus a D.46.3.15 e, per il suo tramite, transitano in molti dei Codici europei di prima generazione e, per il tramite anche delle Siete Partidas, anche in diversi codici civili latinoamericani.

IV. La natura giuridica del pagamento

  Per quanto riguarda la natura giuridica dell’adempimento, si tratta di un problema vivacemente agitato dalla dottrina dei secoli XIX e XX, e che per il diritto romano vive la una duplice difficoltà, derivante, da un lato, dalla estrema diffidenza con cui i giuristi romani affrontavano le questioni meramente classificatorie; dall’altro lato, dal fatto che il negozio giuridico, al cui ambito diffusamente si vuole ricondurre anche l’adempimento, non è, come è noto, una creazione della scienza giuridica romana. Ciò non toglie che il romanista che più di tutti si è occupato nel secolo appena trascorso della tematica dell’estinzione delle obbligazioni (Solazzi) affermava chiaramente la natura negoziale dell’adempimento-pagamento. Si tratta però di idee maturate in un contesto storico in cui era dominante in ogni campo del sapere giuridico la teoria del negozio giuridico. Non sembra però che le fonti romane possano confortare una simile conclusione, al punto che lo stesso Solazzi è costretto ad ammettere che per il pagamento varrebbero principi più liberi di quelli che valgono per tutti gli altri negozi.

  In primo luogo, sono da escludere quei testi in cui la solutio è definita negotium, come D.12.6.33 Iul. 39 dig.. Innanzitutto il testo è estremamente discusso in dottrina; inoltre, in questo luogo pare certo che Giuliano, come del resto tutti gli altri giuristi romani, con il termine ‘negotium’ non indicasse una fattispecie assimilabile al nostro negozio giuridico.

  D’altra parte, invece, più significativi appaiono i passi in cui si nega espressamente alla solutio la natura di negotium contractum (cfr. Gai. 3.91: is qui solvendi animo dat, magis distrahere vult negotium quam contrahere [colui il quale dà qualcosa con l’intento di adempiere , vuole sciogliere un rapporto contrattuale, anziché concluderlo], dove certamente ‘negotium contractum’ significa contratto), oppure quelli in cui la stessa solutio è definita ‘magis facti quam iuris’ ( più di fatto che di diritto) (D.27.10.7.3 Iul. 21 dig.). Significativo a questo proposito mi pare anche il riconoscimento che il pagamento, a differenza degli altri modi ‘civili’ di scioglimento del vincolo (ad es. acceptilatio e confusione) estingue l’obbligazione ‘naturaliter’ (‘in modo naturale’) (cfr. D.46.3.107 Pomp. 2 ench.: verborum obligatio aut naturaliter resolvitur aut civiliter: naturaliter, veluti solutione… [l’obbligazione verbale si scioglie o in modo naturale o in modo civile; in modo naturale, come ad esempio mediante l’adempimento…]; C.3.42.9 Diocl. et Maxim. AA et CC. Faustino, a. 294-305: naturaliter liberationem consecuto… [avendo conseguito la liberazione in modo naturale…]), laddove alla ‘naturalità’ può collegarsi la ‘res facti’ sopra ricordata, verosimilmente intesa in un’accezione contraria alla artificialità propria del negozio giuridico in quanto tale.

  Infine, si consideri che quanto finora detto attiene all’adempimento di obbligazioni aventi ad oggetto un dare (principalmente una somma di denaro); ma nelle obbligazioni di facere non è di norma richiesta alcuna collaborazione da parte del creditore, e, pertanto, agitare in questi casi la domanda della eventuale natura negoziale dell’adempimento del facere appare un vuoto gioco retorico, privo di reali conseguenze sul piano pratico.

V. L’inadeguatezza del negozio giuridico per spiegare la solutio romana.

  Quanto finora detto induce a pensare che se riduciamo la questione all’alternativa se per i romani la solutio fosse un atto, un negozio o piuttosto un mero fatto giuridico, è verso questa ultima soluzione che sembrano spingere i testi che considerano liberatorio l’adempimento di quanto dovuto (eius quod debetur), da chiunque e in qualunque modo fatto (quoquo modo), senza prendere in considerazione la capacità all’atto stesso da parte del debitore.

  La verità, però, è che la dogmatica del negozio giuridico è assolutamente inadeguata per spiegare il fenomeno dell’adempimento nel diritto romano. Ciò è evidente da una serie di fattori, tra i quali la migliore cartina di tornasole è rappresentata proprio dall’adempimento effettuato da ed in favore di un incapace. Infatti, il negozio giuridico presuppone, in quanto tale, la capacità di agire delle parti che ad esso partecipano, nel nostro caso debitore e creditore. Però nel diritto romano l’adempimento che coinvolgeva un soggetto incapace, supponiamo un pupillo, era tutt’altro che assolutamente privo di effetti.

  Infatti, se il pagamento era compiuto da un incapace, esso era sì invalido, ma non per una presunta incapacità del pupillo a rendersi parte di un atto di adempimento in quanto tale, ma piuttosto, come abbiamo sopra visto, perché il pupillo non era in grado di trasferire la proprietà senza l’ausilio dei tutori. Di conseguenza l’effetto liberatorio non seguiva a causa di tale sua limitazione, e non per un difetto di capacità legato all’atto solutorio in sé considerato: tanto è vero che in linea di principio il pupillo adempiente poteva rivendicare quanto pagato, ma se il creditore avesse usucapito il denaro ricevuto o lo avesse mischiato con il proprio la rivendica veniva meno, e la solutio aveva pienamente effetto liberatorio per la quantità di denaro confusa (ciò è attestato da diversi testi che a torto la dottrina ha cercato di dimostrare interpolati: cfr. ad es. D.17.1.47.1 Pomp. 3 ex Plaut., e D.46,3,60 Paul. 4 ex Plaut. per l’usucapione; D.12.1.19.1 Iul. 10 dig.; D.26.8.9.2 Gai. 12 ad ed. prov.; D.46.3.14.8 Ulp. 30 ad Sab. per la consumazione delle monete). Inoltre, se la prestazione dovuta ed eseguita dall’incapace non era di dare (cioè di trasferire la proprietà), ma consisteva in un facere, nessun ruolo, come detto, giocava la capacità del solvens.

  Per converso, se l’adempimento veniva effettuato in favore di un incapace (ad es. il pupillo non assistito dai tutori), esso non era del tutto inefficace, perché da un lato il pupillo acquistava comunque la proprietà di quanto gli fosse stato dato dal creditore, anche se il creditore stesso, dall’altro lato, non veniva liberato. Però il pupillo che maliziosamente chiedesse l’adempimento dopo averlo incassato, veniva respinto grazie ad una exceptio doli che il pretore concedeva solo nel caso in cui il pupillo stesso avesse tratto vantaggio dal pagamento (ex ea pecunia locupletior factus est). Quindi, in definitiva, l’adempimento fatto ad un incapace, non solo faceva acquistare a questi la proprietà di quanto ricevuto, ma produceva altresì l’effetto di sciogliere il vincolo obbligatorio nel caso in cui il pupillo avesse tratto vantaggio dall’adempimento stesso.

VI. I Cc. moderni e l’impostazione dell’adempimento in chiave di atto giuridico: la dottrina e il codice tedesco.

  Il Cc. it 1865, che sul punto segue in maniera stringente il suo modello, costituito dal Code Napoléon, si poneva anch’esso sulla medesima via finora descritta, prevedendo all’art. 1240 che se l’adempimento richiede il trasferimento della proprietà il debitore adempiente deve avere la ‘capacità di alienare’, e comunque non può ripetere la prestazione eseguita, se si tratta di cosa consumabile, ed il creditore l’ha consumata in buona fede.

  Ma è con il BGB che la discussione sul punto trasla di livello, in quanto questo codice, come è noto, accoglie pienamente gli strumenti giuridici elaborati dalla scienza giuridica pandettistica, ed è poi in qualche modo costretto a fare con essi i conti. Vengono qui in considerazione in primo luogo i concetti di atto e di negozio giuridico, ma anche quello di capacità di agire. Rifiutata così l’idea che nell’adempimento possa vedersi un mero fatto giuridico, nella dottrina tedesca tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento si comincia a dibattere se considerare l’adempimento come un atto giuridico, cioè come un comportamento volontario a cui l’ordinamento lega effetti predeterminati (nel caso specifico, la liberazione dal vincolo) o invece un vero e proprio negozio giuridico, in cui anche gli effetti sono come tali voluti dalle parti.

  L’esito della discussione, almeno nella Germania del tempo, fino all’emanazione del BGB, è che l’adempimento è considerato come un vero e proprio atto negoziale, per il quale, pertanto, è richiesta di norma quella stessa capacità di agire che è richiesta per tutti gli altri negozi giuridici. La conseguenza è che il pagamento dell’incapace diventa di per sé invalido, in quanto l’incapace non esprime una valida capacità non al trasferimento della proprietà che è prodromico alla liberazione, ma al negozio stesso di liberazione. La linea tenuta per lungo tempo dalla dottrina tedesca appare estremamente rigida: è invalido per difetto di capacità non solo il pagamento fatto da un incapace, ma anche il pagamento fatto ad un incapace. Il caso più paradossale a questo proposito era quello, discusso da un tribunale tedesco, di un tale, che chiese l’annullamento del pagamento di metà della vincita al lotto fatta ad un amico con cui aveva condiviso il pagamento del biglietto, a motivo dell’incapacità dell’amico stesso.

  Questo modello è stato giudicato eccessivamente indulgente all’individualismo, proprio del periodo storico in cui si è affermato il BGB: esso sarebbe sostanzialmente indifferente di fronte alle necessità della circolazione, giudicando in ogni caso nulle le dichiarazioni degli incapaci (l’unica eccezione appare rappresentata dalle dichiarazioni degli interdetti per inabilità, le cui dichiarazioni sono considerate non sono nulle, ma sospensivamente condizionate all’eventuale consenso del rappresentante legale).

VII. La situazione in Italia: l’adempimento come ‘atto dovuto’ ed il ribaltamento di prospettiva che questo inquadramento comporta.

  Nondimeno la circolazione di queste idee ha avuto un esito anche in Italia.

  Nel nostro Paese, la dottrina non appare aver raggiunto una posizione unitaria sul punto. Infatti, si possono delineare, seppure tra diverse variabili, almeno ben tre posizioni: da un lato, stanno quanti considerano l’adempimento alla stregua di un fatto giuridico (Oppo, Barassi); dall’altro lato, ci sono quanti ritengono che l’adempimento costituisca un negozio giuridico vero e proprio (Scuto), o, al massimo, un atto giuridico in senso stretto, in particolare una forma particolare di atto giuridico, definito ‘atto dovuto’ (Rescigno); infine ci sono studiosi che ritengono che l’adempimento vada considerato come un negozio giuridico per quanto riguarda il trasferimento della proprietà, come un fatto giuridico per quanto invece riguarda l’estinzione dell’obbligazione (si parla a questo proposito di teoria sovrapposizione costruttiva’), e sostengono che la natura giuridica dell’adempimento sia sostanzialmente un problema mal posto, dovendo piuttosto guardare alle singole attività nelle quali l’adempimento si concretizza, e dovendosi così aderire ad una prospettiva di ‘variabilità’ (Giorgianni, Cannata).

  Per quanto riguarda il c.c. it. del 1942, la terminologia impiegata sembra voler orientare l’interprete a considerare l’adempimento come un atto giuridico: l’art. 1191, infatti, ritiene invalido il pagamento fatto dal creditore incapace, mentre il c.c. it. 1865 si fondava semplicemente sulla irripetibilità della cosa pagata; e anche l’art. 428 dichiara annullabili gli atti (tra cui rientra anche l’adempimento) compiuti da un incapace di intendere e di volere, ancorché non interdetto.

  Ciò ha delle conseguenze sul piano pratico tutt’altro che irrilevanti allorché nell’‘atto’ di adempimento sono coinvolti degli incapaci.

  Infatti, se l’adempimento è compiuto in favore di un creditore incapace, l’art. 1190 sembra volersi porre sulla stessa linea dell’insegnamento dei giuristi romani, prevedendo che un tale adempimento non libera il debitore, a meno che egli non provi che quanto è stato pagato è stato rivolto a vantaggio dell’incapace.

  Al contrario, è sul pagamento fatto da un solvens incapace che si registra un totale cambiamento di prospettiva. Infatti, l’art. 1191 prevede che il debitore che ha eseguito la prestazione dovuta non può impugnare il pagamento a causa della propria incapacità. Tale norma era assente non solo nel Codice precedente, ma non era prevista nemmeno nel Progetto preliminare del 1936, e fu introdotta solo al momento di redigere la stesura definitiva del Codice.

  Questa norma detta un cambiamento radicale di prospettiva rispetto all’insegnamento tradizionale, che derivava dal diritto romano e che era ancora recepito nel c.c. precedente, alla luce del quale l’adempimento fatto da un incapace non è mai liberatorio, a meno che, per il sovrapporsi di vicende successive (commistione, usucapione ecc.), l’incapace non possa più ripetere il pagamento fatto. In sostanza, nel contemperamento degli interessi del solvens incapace e del creditore a questi adempiente, si preferisce tutelare non l’incapace, ma piuttosto il creditore che, comunque risulta aver adempiuto validamente alla propria obbligazione, dalla quale risulta liberato.

  Si potrebbe argomentare che tale soluzione rappresenti una libera scelta da parte del legislatore, che preferisce attribuire maggiore importanza alla tutela dei traffici e dei commerci rispetto a quella degli incapaci.

  A mio avviso, però, questo cambiamento di prospettiva non rappresenta tanto l’esercizio di una legittima e ponderata opzione da parte del legislatore italiano, quanto piuttosto il portato dell’inquadramento dell’adempimento in chiave negoziale. Infatti, considerato l’adempimento alla stregua di un atto giuridico in senso lato, se ne è sottolineata la peculiare natura, parlando di atto giuridico potestativo, o, meglio, di atto giuridico ‘effettuale’ (Messineo) o atto giuridico ‘dovuto’ (Rescigno), nel senso che il debitore sarebbe comunque tenuto a compierlo, e quindi a lui non può derivare alcuno svantaggio dal fatto di averlo posto in essere. Si deduce così una peculiarità dell’atto di adempimento, pur nella sua riconosciuta natura di atto giuridico: la peculiarità consisterebbe nel fatto che, trattandosi appunto di atto dovuto, l’ordinamento sarebbe indifferente alla presenza o meno della capacità del solvens. Si è detto (Rescigno) che essendo l’adempimento un atto dovuto, l’ordinamento si ‘accontenterebbe’ di qualcosa di meno rispetto ad una volontà propriamente manifestata, bastando anche il solo impulso di volontà per il raggiungimento dell’effetto giuridico previsto (cioè la liberazione del debitore). In tal modo, si è detto che il consenso manifestato da chi in linea di principio non avrebbe la capacità idonea a manifestarlo avrebbe comunque il potere di provocare l’effetto giuridico di estinguere l’obbligazione, proprio perché l’adempimento non sarebbe un ‘normale’ atto giuridico, ma un atto giuridico dovuto, a cui il solvens sarebbe vincolato (perché tenuto dalla forza della obligatio) e non libero di accedervi o meno.

  A mio avviso, però, in tal modo ci si pone al di fuori del campo delle libere scelte di politica del diritto, che è una esigenza di alta giustizia riservare al legislatore, ma ci si lascia guidare, nella posizione di norme giuridiche, da una sorta di occhiale deformante, quello della dogmatica del negozio giuridico, che non è detto che per definizione conduca a risultati migliori di quelli che si raggiungerebbero senza il suo coinvolgimento.

  Testo della relazione svolta al Secondo Corso di Alta formazione sul diritto romano per docenti della Reppubblica Popolare Cinese, e pubblicato in cinese, con autorizzazione d’autore, in Digesta (Xue Shuo Hui Zuan), vol. IV, Pechino, 2012.

  Bibliografia essenziale:

  1. C. Scuto, Sulla natura giuridica del pagamento, in Riv. dir. civ., I, 1915, 336 ss.

  2. M. Martorana, Della natura giuridica del pagamento, Palermo, 1927.

  3. S. Solazzi, L’estinzione delle obbligazioni nel diritto romano I2, Napoli, 1935.

  4. P. Rescigno, Adempimento e incapacità naturale, Napoli, 1950.

  5. M. Giorgianni, Natura del pagamento e vizi di volontà del solvens, in Foro Padano, 1962, 719.

  6. L. Barassi, La teoria generale delle obbligazioni III. L’attuazione, Milano, 1964.

  7. G. Melillo, In solutum dare. Contenuto e dottrine negoziali nell’adempimento inesatto, Napoli, 1970.

  8. G. Oppo, Adempimento e liberalità, Napoli, 1979.

  9. C.A. Cannata, L’adempimento in generale, in Trattato di diritto privato diretto da P. Rescigno, vol. 9, Torino, 1984.

  10. A. Di Majo, Adempimento in generale, in Comm. del Cod. Civile Scialoja-Branca, Bologna, 1994.

  11. P. Perlingieri, Il fenomeno dell’estinzione nelle obbligazioni, Napoli, 19952.

  12. C. Chessa, L’adempimento, Milano, 1996.

发布时间:2013-03-05  
 

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