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Paolo Maddalena:La scienza del diritto ambientale ed il necessario ricorso alle categorie giuridiche del diritto romano

La scienza del diritto ambientale ed il necessario ricorso alle categorie giuridiche del diritto romano

  PARTE PRIMA

  (Strumenti per la costruzione del diritto ambientale)

  1. L’intralcio di concetti giuridici relativi alla nozione di Stato di stampo liberale ed alla figura del diritto soggettivo.- Lo studioso di diritto ambientale si accorge presto che in nessun ramo del diritto, come in questo, il pensiero giuridico moderno trova tanti ostacoli per la formazione di una scienza giuridica, intesa nel senso, come diceva Fritz Schulz (F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, trad. di Guglielmo Nocera, Firenze 1968, pag. 8), della formazione di un “sistema” che tenga conto, non solo del diritto vigente, ma anche delle sue fonti, le quali, per la nostra materia, sono peraltro davvero numerose, se si pensa che si passa dal diritto statale a quello regionale, dal diritto comunitario a quello della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, fino al diritto internazionale.

  Eppure, l’avvento dello Stato sociale di diritto verificatosi con l’entrata in vigore della nostra Costituzione repubblicana del 1948, ed in particolare, la legge 349 del 1986, che ha istituito il Ministero dell’ambiente, introducendo, per prima al mondo, le norme sul risarcimento del danno, non privato ambientale, ma pubblico ambientale (norme che il diritto comunitario, peraltro in forma molto più ridotta, avrebbe introdotto solo nel 2004, e cioè diciotto anni dopo), avrebbero dovuto essere elementi di forte stimolo per una maturazione scientifica di questo tipo.

  La verità è che il pensiero giuridico moderno, pur dopo l’avvento dello Stato sociale di diritto, non è riuscito completamente a liberarsi dall’ombra lunga dello Stato di diritto di stampo liberale, e, nella maggioranza dei casi, resta ancora legata al dogma della “Personalità dello Stato” ed al dogma della netta separazione tra “pubblico e privato”.

  Se lo Stato-persona, anziché essere ritenuto un organo dello Stato-comunità, coincidente con la pubblica amministrazione, è considerato come la personificazione astratta dell’intera Comunità statale, e se, come agevolmente si può notare, dei tre elementi dei quali si dice sia formato lo Stato, e cioè il Popolo, l’ordinamento giuridico e l’Autorità, uno, il Popolo, viene ritenuto privo di funzioni pubbliche, tranne il diritto di esprimere il proprio voto, e viene così di fatto sottratto dai tre elementi di cui si parlava (sicché lo Stato risulta poi formato solo dall’ordinamento e dall’Autorità, mentre il Popolo, che continua ad esser chiamato “sovrano”, diventa soltanto destinatario delle norme), risulta evidente che l’ambiente resta nelle mani dell’Autorità, o meglio del Potere, e poco o nulla possono fare i cittadini; mentre, d’altro canto, mantenendosi la netta separazione tra pubblico e privato, diventa agevole affermare che la tutela e la gestione dell’ambiente spetta alla pubblica amministrazione, mentre il cittadino può vantare solo un diritto individuale di fruizione, nei limiti in cui questo stesso diritto è posto e riconosciuto dallo Stato.

  Ma c’è ancora un’altra idea dominante nell’ordinamento giuridico dello Stato liberale che offusca il pensiero degli studiosi, ed è quella della prevalenza del diritto soggettivo di proprietà privata, la quale, unitariamente e graniticamente concepita, mira a togliere cittadinanza giuridica alla proprietà comune o collettiva che dir si voglia, la quale può mascheratamene rintracciarsi soltanto in quel tipo di proprietà pubblica “demaniale”, che, non ostante la sua realtà fenomenica, è pur sempre annoverata tra i diritti individuali, in quanto riferiti alla titolarità di un soggetto unico, lo Stato-persona.

  Acutamente osserva il Grossi (P. Grossi, Un altro modo di possedere, in Per la storia del pensiero giuridico moderno, Milano 1977, pag.8) che ”al contrario della civiltà medievale…., la nuova civiltà (borghese)….fa i conti con chi ha…. E il proprietario subisce per il solo possesso dei beni una palingenesi che lo separa dai mortali e lo colloca tra i modelli….Se si aggiunge che l’operazione culturale è affiancata da una efficace azione politica che vede lo Stato garantire generalmente le ricchezze a chi legittimamente le detiene e fondarsi sul consenso degli abbienti, si capisce quanto l’idea della proprietà come diritto naturale e del proprietario come cittadino per eccellenza mettesse radici saldissime; quelle radici che il profilo ideologico corroborava in maniera profonda”. E ciò comportava, in ultima analisi che le “cose” fossero generalmente considerate come “merce” a disposizione dei proprietari, venditori e compratori, e fosse estremamente difficile pensare ad una legislazione che si prendesse cura della tutela del bene in sé, nell’interesse generale, considerandosi comunque questa tutela un “limite” alla proprietà privata.

  Ed a questo proposito è subito da avvertire che la figura del diritto soggettivo di proprietà privata, con i suoi caratteri di “pienezza” del diritto, nel senso che il proprietario può fare della propria cosa quello che vuole, compreso la sua inutile distruzione, e di “esclusività” del diritto stesso, nel senso che il proprietario ha il diritto di escludere chiunque altro dal godimento della propria cosa, si oppone in modo radicale alla tutela dell’ambiente, il quale non è una “merce”, ma un bene di valore”, che va tutelato e salvaguardato nell’interesse di tutti: proprio l’opposto di quel che persegue il diritto di proprietà.

  La figura, invece, che ben si attaglia alla tutela ed alla fruizione dell’ambiente è quella della “proprietà collettiva”, la quale ha la caratteristica della conservazione del bene oggetto di godimento e della fruizione comune del bene stesso. Qui il bene non è più ”merce”, ma “bene di valore”, oggetto di tutela diretta da parte della legge e non tutelato, come la merce, perché oggetto di proprietà privata (art. 810 c. c.). Si deve anzi dire che, nell’ipotesi della proprietà collettiva, più che di “proprietà”, deve parlarsi di “appartenenza” collettiva, nel senso che il bene “appartiene”, “è parte” della Comunità, come era ben chiaro ai Romani, che consideravano “parti” della Comunità, sia il “territorio”, sia “i cittadini”.

  2. La dimensione del “collettivo” nella Costituzione della Repubblica Italiana.- A questo punto, comincia ad apparire chiaro che, per creare un sistema del diritto ambientale, occorre sbarazzarsi di concetti superati, appartenenti allo Stato di diritto di stampo liberale, ed applicare in pieno la Costituzione, la quale, come è noto, conosce non solo la dimensione del “pubblico” e quella del “privato”, ma anche, e soprattutto, la dimensione del “collettivo”. Basti pensare che costituiscono “principi costituzionali supremi” la “sovranità popolare” (art. 1 Cost.) ed il diritto-dovere di “partecipazione” di tutti “all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3, comma secondo, Cost.). E ciò consente, non è chi non lo veda, di affermare che la tutela e la gestione dell’ambiente, e di conseguenza la sua fruizione, non è nelle mani dell’Autorità, ma nelle mani del Popolo, implicando peraltro la partecipazione di tutti i cittadini.

  3. La rilevanza della “cosa”, in vista dell’interesse generale.- Si deve, d’altro canto, tener presente che, alla luce della vigente Costituzione, diversamente da quanto accadeva sotto la vigenza dello Statuto albertino, viene in evidenza anche il valore della cosa in sé, la quale diventa “bene giuridico” proprio perché è tutelato direttamente dalla legge, nell’interesse generale. Lo conferma l’art. 117, comma secondo, lett. s) della Costituzione, il quale prevede che lo Stato ha competenza legislativa esclusiva in materia di “tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali”.

  Alla luce di queste premesse, è ora forse possibile, quanto meno, tentare di porre le basi di una possibile costruzione sistemica del diritto ambientale (in proposito, vedi l’importante lavoro di M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente, come sistema complesso, adattativo, comune, Torino 2007), se ancora una volta si fa riferimento a tre concetti chiave del diritto romano (costituenti la “sistematica” più famosa e seguita fino a Giustiniano, anche se i giuristi romani preferirono seguire di solito un criterio casistico: vedi, A. Guarino, Diritto privato romano, Napoli 2001, pag. 84 nota), tre concetti intorno ai quali, come ci attesta Gaio (Gai, Inst., 1, 2), si è dipanata l’intera scienza del ius romanum: “Omne autem ius, quo utimur, vel ad personas pertinet, vel ad res, vel ad actiones”(sulla natura ”elastica” di questa definizione, nel senso che i Romani non conoscono una contrapposizione netta tra soggetto ed oggetto e considerano “personae” e “res” dal punto dei vista della funzione, piuttosto che dal punto di vista ontologico, vedi: P.P. Onida, Il problema della qualificazione dogmatica dell’animale non umano nel sistema giuridico-religioso romano, in Archivio di Stato di Salerno,Saggi 95, Per una storia non antropocentrica, Ministero per i beni culturali 2010, pag. 159 ss.; Idem, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, Torino 2002, pag. 125 ss.).

  L’essenza di questa definizione sta nel fatto, rilevantissimo, che per i Romani la giuridicità non era, come per il positivismo moderno, la conseguenza di una previsione legislativa, ma dipendeva unicamente dalla meritevolezza della tutela giuridica, sicché la dignità della “persona” e la funzione economico-sociale della “res” erano di per sé elementi sufficienti per assicurare a queste due entità una tutela giuridica. E questa tutela, sia ben chiaro, riguardava la situazione concreta oggetto di esame, per cui la stessa entità poteva rilevare, sia come “persona”, sia come “res”. Emblematica è la posizione dei “servi”, i quali, erano persone se compivano atti negoziali, mentre erano cose se venivano in evidenza come oggetto di proprietà del dominus. Si tratta di una caratteristica che ha un notevole valore identitario della scienza giuridica romana, caratteristica che può essere oggi valorizzata proprio alla luce della vigente Costituzione repubblicana, la quale, come si è accennato, non esita a dar valore giuridico all’ambiente, facendo forse venir meno quella netta contrapposizione tra soggetto ed oggetto, alla quale è tanto affezionato il positivismo moderno.

  Ed a questo proposito è appena il caso di ricordare che di una scienza giuridica romana in senso davvero unitario, come afferma Schulz (F. Schulz, o. c., pag. 10), si può parlare a decorrere dal quarto secolo a. C. (451-450 a. C.), e cioè dopo l’emanazione delle dodici tavole (che probabilmente furono elaborate sotto l’influenza del diritto greco) fino al 534 d. C., e cioè alla la codificazione di Giustiniano, a seguito della quale cominciò a parlarsi di scienza giuridica “bizantina” per l’Oriente, e di scienza “romanistica” per l’Occidente.

  Tornando al tema oggetto principale della nostra riflessione, si può dunque affermare che, pur tenendo conto del carattere “elastico” della tripartizione gaiana, la costruzione di un sistema del diritto ambientale, se vuole avere una sua intima coerenza, non può decampare dai temi obbligati della individuazione del soggetto al quale l’ambiente appartiene, della natura comune del bene ambiente ed infine delle azioni che i soggetti possono esperire per i fini della tutela ambientale. Il tutto, ovviamente, alla luce dei principi costituzionali e tenendo conto degli istituti giuridici tuttora vigenti, non ostante la pervasiva tendenza a ridurre tutto nella sfera d’azione del diritto di proprietà privata.

  PARTE SECONDA

  (Concetti della giurisprudenza romana per la costruzione sistemica della materia ambientale)

  (La tripartizione gaiana)

  1. Persona e Popolo.- In proposito, appare addirittura sorprendente che il moderno concetto di Stato-comunità, introdotto nel nostro ordinamento dall’art. 1 della Costituzione, nonché i concetti di bene comune, qual è l’ambiente, e di tutela giuridica ambientale, visti alla luce della vigente Costituzione repubblicana, possono agevolmente ricostruirsi proprio ricorrendo alle categorie giuridiche romane.

  Per quanto riguarda lo Stato-comunità, è evidente che esso corrisponde al concetto romano di Populus. Qui, come è stato egregiamente posto in luce da Pierangelo Catalano (P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, pag. 79), viene in evidenza un concetto assai radicato nella mentalità giuridica romana, quello della parte e del tutto: il civis è tale perché è membro del Populus ed agisce, nello stesso tempo, nell’interesse proprio, e della Comunità di tutti i romani. Egli, ad esempio, diviene proprietario di un fondo perché l’appartenenza della terra “è mediata dal suo messere membro della comunità…il suo rapporto con la proprietà privata è un rapporto con la terra, ma al contempo con la sua esistenza in quanto membro della comunità (Karl Marx)”.

  Per definire esattamente lo Stato-comunità, dunque, occorre riferirsi al diritto romano, tener presente, cioè, il concetto “parte-tutto”.

  Si tratta di una precisazione importante, poiché, come è noto, l’idea del soggetto plurimo è alquanto estranea alla cultura giuridica dominante. Per un’antica tradizione che risale al giusnaturalismo, e che ha avuto la sua massima espressione nella pandettistica, l’idea di soggetto è strettamente collegata all’idea di individuo: soggetto è la persona singola. E questa idea è talmente forte, che, per ammettere la soggettività di aggregati umani (le associazioni) o di uomini e mezzi (le fondazioni) è sembrato indispensabile ricorrere ad una astrazione: la persona giuridica. La persona giuridica fenomenicamente non esiste, è una entità solo pensata (Jhering, Lo scopo del diritto, trad. it. di Losano, Torino 1972, 393 ss.), ed è inutile affermare che si tratta di una realtà giuridica (Ferrara, Teoria delle persone giuridiche, Napoli 1923): la verità è che si tratta di una finzione giuridica, come affermava il Savigny. D’altro canto è da tener presente che il concetto di soggetto plurimo, pur se avversato dai moderni ordinamenti giuridici, ha resistito in numerose ipotesi. Si pensi al caso dell’associazione non riconosciuta, del condominio, della comunione, della comunione familiare, e così via dicendo. Né si dimentichi che la stessa Costituzione identifica nel Popolo il detentore della sovranità (art. 1 Cost.), in tutti gli uomini i titolari dei diritti inviolabili e nelle “comunità di lavoratori o utenti” i titolari di determinate imprese che si riferiscano a servizi pubblici essenziali, o a fonti di energia (art. 43 Cost.).

  2. Res communes (beni comuni).- Per quanto riguarda la nozione di bene comune, si tratta di un concetto che è stato fortemente avversato dalla cultura borghese dello Stato di stampo liberale, come poco sopra si è accennato. Si può comunque con certezza affermare che, secondo l’ordinamento vigente, è “comune” la cosa che, per natura, ha la funzione di soddisfare in modo diretto bisogni essenziali della collettività, e che, comunque, è oggetto di “proprietà collettiva”, appartiene cioè al Popolo, ovvero a Comunità di residenti in un determinato territorio. Esattamente come dicevano i Romani, quali distinguevano tra res publicae, res universitatis e res communes omnium.

  In proposito, una chiara definizione ci viene offerta da Gaio (Gai, Inst., 2, 11), il quale afferma: “Quae publicae sunt, nullius videntur in bonis esse: ipsius enim universitatis esse creduntur. Privatae sunt quae singulorum hominum sunt”. Ed a tal proposito, molto illuminante è l’osservazione di Bonfante (Corso di diritto romano, vol II, parte prima, Milano 1966, pag 82), secondo il quale “Gaio intendeva (che le res nullius) sono di nessuno in particolare, perché appartengono a tutti”. Ciò che è evidente, continua ancora il Bonfante, se si pensa che per il pensiero antico non c’è nessuna difficoltà a riconoscere come soggetto la collettività o il populus.

  Questa contrapposizione tra “privato-individuale” e “pubblico-collettivo” (cioè del popolo o di una Universitas), è presente in molte altre fonti, riguardanti specialmente il lido del mare, tra i quali sembra opportuno ricordare D.1.8.6 pr. (Marcianus libro tertio Institutionum). “In tantum, ut ei soli domini constituantur qui ibi aedificant, sed quamdiu aedificium manet; alioquin aedificio dilapso quasi iure postliminii revertitur locus in pristinam causam, ut si alius in eodem loco aedificaverit, eius fieret”. Chi edifica sulla spiaggia ha il dominio dell’edificio, ma se questi va in rovina e la spiaggia riprende la sua forma primitiva, un altro soggetto può costruire a suo vantaggio in quello stesso luogo. La costruzione sul lido del mare, in altri termini, costituisce un uso del lido stesso, che per sua natura è pubblico, appartiene cioè al popolo, e torna nel dominio di questi non appena vien meno la costruzione stessa. E che Marciano intendesse riferirsi al Populus, ovvero ad una Universitas, è dimostrato in questo suo stesso passo (D.1.8.6.1), là dove egli afferma che “Universitatis sunt, non singulorum, veluti quae in civitatibus sunt theatra et stadia et similia et si qua alia sunt communia civitatis”.

  La distinzione tra “proprietà del singolo” e “proprietà comune” è qui evidentissima, e cosa debba intendersi per “beni comuni” lo dice espressamente lo stesso Marciano nel famosissimo D.1.8.2.1 (Marcianus libro terbio institutionum). “Et quidam naturali iure omnia communia sunt illa : aer, aqua profluens, et mare, et per hoc litora maris ». Il concetto comune di ambiente è già indicato in nuce in questo testo di Marciano.

  L’appartenenza dei beni, dunque, per i Romani, o è di tutti (appartenenza plurima), o è di un singolo; si tratta in altri termini, o di beni in proprietà collettiva, o di beni in proprietà individuale. E qui è da sottolineare che, per i Romani, la parola “publicus” non vuol dire “dello Stato”, ma del “Popolo”, sicché, quando essi contrappongono “singulus” o “privatus” a “publicus”, non contrappongono, come penseremmo noi moderni, il singolo privato allo Stato, ma il singolo alla Comunità, che può essere la più ampia, il “Populus”, come spesso accade, ma anche una Comunità minore (“Municipia”, “Coloniae”, o una qualsiasi “Universitas”). In ultima analisi la contrapposizione “proprietà pubblica-proprietà privata” equivale alla contrapposizione “proprietà collettiva-proprietà individuale”.

  Secondo la terminologia moderna, invece, il termine “pubblico” è ambiguo, poiché può significare, sia “appartenenza ad un soggetto pubblico”, sia “appartenenza ad una Comunità, intesa quale soggetto plurimo. Per evitare equivoci, è dunque necessario far riferimento soltanto alla distinzione “proprietà collettiva-proprietà individuale” (M. Esposito, I beni pubblici, in Trattato di diritto privato, diretto da Mario Bessone, Torino 2008).

  La distinzione seguita dalla Costituzione, purtroppo, risente ancora delle vecchie concezioni dello Stato liberale, esprimendosi nella dicotomia “pubblico-privato”. L’art. 42 Cost., primo alinea, afferma infatti che “la proprietà è pubblica o privata”. Si tratta, però di una indicazione soltanto verbale, poiché in pratica la Costituzione, pur proclamando in astratto, come or ora si è visto che “la proprietà è pubblica o privata”, nel dettare il regime della proprietà prende in considerazione soltanto la proprietà individuale o solitaria che dir si voglia, ponendo soltanto a carico di questa i vistosi limiti di cui agli articoli 42 e seguenti, senza parlare di proprietà collettiva. Il che induce a ritenere che con la parola “pubblico” il Legislatore costituente abbia voluto riferirsi ai beni demaniali ed ai beni patrimoniali indisponibili a questi equiparabili, i quali, come è quasi universalmente ritenuto, costituiscono una “proprietà collettiva”, cioè sono direttamente in uso ed in appartenenza al Popolo, e non costituiscono una proprietà individuale dello Stato persona. Né per essi si pone la necessità di dettare una disciplina per stabilirne i modi di acquisto, considerato che la proprietà collettiva può nascere in modo originario, per il fatto stesso che vengono in essere taluni beni naturali (demanio naturale o necessario), come avviene per il demanio idrico e per il demanio marittimo, oppure può esistere ab immemorabili, com’è per le classiche forme di proprietà collettive riferite a gruppi di residenti in un determinato territorio.

  L’istituto della “proprietà collettiva” può, dunque, dirsi implicitamente previsto nella Costituzione e può, di conseguenza, ben parlarsi di una “proprietà collettiva del bene comune ambiente” (la tesi è sostenuta da P. Maddalena, in Danno pubblico ambientale, Rimini 1990). E tale proprietà collettiva, si badi bene, riguarda l’intero Popolo italiano, trattandosi, per l’appunto, di un bene comune a tutti.

  C’è solo da precisare che in questa materia, come si è più volte ripetuto, esercita un ruolo di primissimo rilievo il concetto romano di “parte-tutto”, nel senso che il cittadino, in quanto singolo ha un diritto di uso dell’ambiente, nel rispetto ovviamente dell’uso da parte di tutti, ed in quanto “parte” della collettività ha un diritto alla tutela ed alla conservazione dell’ambiente stesso, ha un diritto che ben può definirsi “collettivo”, poiché appartiene ad ognuno nella stessa forma e nella stessa entità (sull’argomento, vedi: Bretone, il quale afferma che l’uomo è parte del “cosmo”; M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1992, pag. 344 ss.; Idem I fondamenti del diritto romano, Roma-Bari 2001, pag. 113 ss.).

  3. Azioni popolari.- L’ultimo aspetto che occorre ora considerare ai fini di un approccio sistematico all’intera materia ambientale è quello delle azioni giudiziarie.

  Considerato che l’ambiente riguarda un soggetto plurimo ed è un bene comune in proprietà collettiva, non dovrebbero esserci dubbi che, secondo l’insegnamento del diritto romano, lo strumento di tutela giudiziaria più idoneo dovrebbe essere l’actio popularis.

  Sennonché è noto che, a seguito dell’esperimento di azioni popolari puramente vessatorie, il legislatore nazionale è diventato molto restio a concedere tale tipi di azioni. E’ da ricordare, tuttavia, che la legge 8 luglio 1986, n. 349, ora abrogata, aveva previsto che le Associazioni ambientaliste, riconosciute ai sensi della stessa legge, potevano “denunciare” fatti lesivi dell’ambiente, e che, qualora lo Stato, le Regioni o gli Enti locali territoriali avessero promosso un’azione di risarcimento del danno, le stesse Associazioni potessero “intervenire” in giudizio per sostenere la difesa ambientale. Alle stesse Associazioni si riconosceva poi il potere di ricorrere al Giudice Amministrativo per l’annullamento di atti amministrativi illegittimi lesivi del bene ambiente.

  Il nuovo decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ora vigente, ha lasciato alle Associazioni ambientaliste il potere di “denuncia” (art. 309, comma 2), ma ha tolto loro il potere di intervenire nell’eventuale giudizio di risarcimento del danno, la cui azione può essere promossa soltanto dal Ministero dell’ambiente. Lo stesso decreto legislativo (art. 310, comma 1) prevede comunque che le Associazioni ambientaliste possano ricorrere al Giudice amministrativo per l’annullamento degli atti amministrativi illegittimi posti in essere in violazione della parte sesta dello stesso decreto amministrativo. Detto decreto prevede infine all’art. 313, comma 6, che, nel caso di danno ambientale provocato da soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti, il Ministero dell’ambiente invia rapporto alla Procura regionale competente per territorio.

  Come si nota, non è molto. Di una larvata azione popolare ad iniziativa delle Associazioni ambientaliste può in effetti parlarsi soltanto per quanto riguarda l’annullamento degli atti amministrativi, per il resto tutto appare rimesso all’iniziativa del Ministero dell’ambiente.

  A questo punto, comunque, il cerchio si chiude e non è chi non veda come solo attraverso l’ausilio delle fonti romane sia stato possibile mettere in ordine una serie di categorie giuridiche che potrebbero consentire l’avvio per una costruzione sistematica del diritto ambientale, il quale è costituito da una amplissima congerie di norme ed ha urgente bisogno di potersi muovere ed agire all’interno di un sistema coerente e ben congegnato.

  APPENDICE

  (Accoglimento della esposta interpretazione da parte della Corte dei conti e della Corte costituzionale italiana)

  1. L’esempio di alcune sentenze della Corte costituzionale italiana.- Prima di concludere questo scritto, è doveroso far presente che la prospettata impostazione ha avuto accoglimento dalla giurisprudenza della Corte dei conti, specie negli anni ottanta e novanta, e dalla giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, a partire dal 2007, fino ai nostri giorni.

  Delle numerose ed importanti sentenze pronunciate dalla Corte costituzionale, sembra opportuno riportare soltanto qualche passo delle prime due pronunce, la n. 367 e la n. 378, entrambe del 2007.

  Nella n. 367, tra l’altro, si legge: “La tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario, considerato dalla giurisprudenza costituzionale un valore primario ed assoluto, e rientrando nella competenza esclusiva dello Stato, precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali ed ambientali. In sostanza, vengono a trovarsi di fronte due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del paesaggio, affidato alla Stato, e quello alla fruizione del territorio, affidato anche alle Regioni”.

  Nella sentenza n. 378, ancor più incisivamente, si legge: “Occorre poi premettere…che sovente l’ambiente è stato considerato come “bene immateriale”.

  Sennonché, quando si guarda all’ambiente….è necessario tener presente che si tratta di un bene della vita, materiale e complesso, la cui disciplina comprende anche la tutela e la salvaguardia delle qualità e degli equilibri delle sue singole componenti….oggetto di tutela è la biosfera, che viene presa in considerazione, non solo per le sue varie componenti, ma anche per le interazioni tra queste ultime, i loro equilibri, le loro qualità, la circolazione dei loro elementi, e così via. Occorre, in altri termini, guardare all’ambiente come “sistema”, considerato cioè nel suo aspetto dinamico, quale realmente è, e non soltanto da un punto di vista statico ed astratto. La potestà di disciplinare l’ambiente nella sua interezza è stato affidato in via esclusiva allo Stato….Ne consegue che spetta allo Stato disciplinare l’ambiente come una entità organica, dettare cioè delle norme di tutela che hanno ad oggetto il tutto e le singole componenti considerate come parti del tutto”.

  Come si nota da questi pochi cenni, la Corte costituzionale, concentrando il suo interesse sull’oggetto, sulla res, e, parlando di bene materiale, di sistema, del rapporto tutto-parte, ha fatto chiaro riferimento alle categorie romanistiche e se tutto quello che viene prodotto in giurisprudenza ed in dottrina verrà finalmente collocato in un ordine sistematico che abbia come punto di riferimento personae, res ed actiones, forse potrà cominciarsi a parlare di un organico sistema del diritto ambientale

  Paolo Maddalena

  Testo della relazione svolta al Secondo Corso di Alta formazione sul diritto romano per docenti della Reppubblica Popolare Cinese, e pubblicato in cinese, con autorizzazione d’autore, in Digesta (Xue Shuo Hui Zuan), vol. IV, Pechino, 2012.

发布时间:2013-03-05  
 

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