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Franco Gallo:Etica, fisco e diritti di proprietà

 Etica, fisco e diritti di proprietà

  1. – La storia del tributo è anche in parte la storia del diritto di proprietà e del suo bilanciamento con i diritti sociali. Forse, sarebbe meglio dire, è la storia dei limiti al diritto di proprietà indotti dalle esigenze di finanziamento della spesa pubblica.

  1.1. Nell’era moderna questa storia comincia in Italia verso la metà dell’Ottocento e vede il diritto proprietario “vincente”. Dominando allora la teoria e la pratica del laissez faire e del laissez passer, non erano, infatti, ammesse incisive intrusioni dello stato nella società civile, si identificava la persona con i diritti proprietari, il patrimonio dell’individuo aveva una propria, naturale legittimazione morale e non poteva, quindi, essere eroso direttamente dalla tassazione. Anzi, in nome della liberazione dell’individuo dall’oppressione dello stato Leviatano, si ripudiava e si considerava ingiusta ogni forma di “prestazione imposta” che non fosse ispirata al criterio del “beneficio”. Non costituisse cioè, in un’ottica contrattualistica, remunerazione del godimento di pubblici servizi resi ai privati.

  Coerentemente a tale filosofia, in quell’arco storico si è perciò attribuita all’imposizione una funzione meramente commutativa e il tributo ha assunto in termini economicistici soprattutto la forma e la sostanza del corrispettivo di un servizio pubblico divisibile, ovvero della tassa. Questa conclusione era del resto inevitabile, dato che a quell’epoca la divaricazione tra pubblico e privato, tra stato e società borghese e la tutela assoluta della libertà individuale, da una parte, imponevano allo stato di limitarsi a correggere gli estremi dello stato di natura e a tutelare la sicurezza pubblica e la proprietà individuale; dall’altra, gli vietavano sul piano economico-finanziario sia di acquistare e conservare capitali, sia di controllare i conti dei privati, sia di gestire industrie o commerci.

  1.2. – La storia dei rapporti tra proprietà e tributo muta verso la fine dell’Ottocento quando comincia timidamente ad emergere quell’importante filone del pensiero liberale che riconosce allo Stato un qualche ruolo di mediatore e distributore. Con l’abbandono delle teorie contrattualistiche e l’avvento dello stato di diritto (democratico), infatti, prende via via piede l’idea di uno stato meno neutrale e più articolato, per certi versi più vicina (sotto il profilo della funzione distributiva e di mediazione) e per altri più lontana (sotto il profilo della gamma dei doveri di “protezione” dei diritti proprietari cui lo stato medesimo deve attendere) dai classici paradigmi smithiani dello stato liberale impositore.

  In un primo momento e fino all’avvento del fascismo, lo stato si presenta ancora come garante delle situazioni giuridiche soggettive della persona ed ha, perciò, tra le sue funzioni più importanti quella di far rispettare i diritti proprietari, senza darsi eccessivo carico di quelli sociali. La peculiarità di questa fase storica sta però nel fatto che esso, pur continuando ad avere la funzione di assicurare il rispetto dei diritti proprietari, nella sua autorità di stato titolare a sua volta di un diritto (“naturale”) di imposizione è tuttavia abilitato a condizionarli e a limitarli, a condizione che ciò avvenga con il consenso dei cittadini incarnato nella legge.

  È solo in un secondo momento, dopo la parentesi autoritaria (e corporativa) fascista e la seconda guerra mondiale, che si verifica un’ulteriore definitiva evoluzione istituzionale, la quale, sulla spinta delle aumentate esigenze sociali, porta ad estendere la funzione di garanzia dello stato ai diritti positivi di libertà, a fare emergere con chiarezza il suo ruolo distributore dei carichi pubblici e a svilire, di conseguenza, il limite alla tassazione costituito, fino ad allora, dal diritto proprietario. Si impone così il modello dello stato sociale, che può ritenersi tuttora predominante, ancorché oscilli spesso tra eccessi e attenuazioni e, come si dirà meglio più avanti, sia minacciato dalla ciclica reviviscenza del più intransigente pensiero liberista.

  Pur nelle non indifferenti difficoltà applicative manifestate dalla permanenza di una forte evasione e pur nell’inefficienza dell’azione amministrativa, può ben dirsi, quindi, che l’attuale sistema tributario ha subìto una netta evoluzione in senso distributivo, solidaristico e dell’effettività: un’evoluzione che, per le grandi linee e in astratto, non si è discostata granché dai classici schemi liberal-democratici di finanza pubblica adottati dalla maggior parte degli stati europei.

  2. - Nonostante questa naturale evoluzione del quadro normativo, va tuttavia rilevato che, soprattutto nell’ultimo ventennio, si sono riproposti con grande forza in Italia – a livello sia scientifico che di polemica politica – contrari orientamenti liberisti di ceppo soprattutto nordamericano. I quali hanno trovato un favorevole humus nella generale riprovazione delle politiche assistenziali eccessivamente dispendiose degli anni settanta e ottanta e nella forte richiesta di minore pressione fiscale, di più mercato e di superamento della crisi fiscale dello stato attraverso la forte riduzione delle spese sociali.

  Questi orientamenti, pur non potendo giungere (per evidenti ragioni sia storiche che economiche e politiche) a riportare l’imposizione allo schema ottocentesco di prelievo-controprestazione hanno tuttavia fornito nuovi argomenti per sminuire la funzione distributiva dell’imposizione, per apprezzare il criterio del beneficio e quello della proporzionalità, per rivalutare i metodi forfetari e premiali di determinazione delle basi imponibili e per mettere in risalto gli aspetti coercitivi statalistici di sacrificio individuale a detrimento di quelli, vanoniani, partecipativi e di collaborazione.

  Il recupero di questa visione protoliberale – che chiamerò d’ora innanzi neoliberismo fiscale per differenziarlo, anche terminologicamente, dal liberismo ottocentesco – ha il tratto, molto accattivante, dell’anti-politica, considera la tassazione progressiva sui redditi un “sottoprodotto” necessario del contestato welfare state e si fonda sull’assioma negativo dell’inefficienza accertativa e della prepotenza repressiva dello stato impositore. Culturalmente esso trova la sua linfa soprattutto in quelle tradizionali teorie economico-filosofiche proprie delle ideologie liberali dell’Ottocento, le quali in termini etici vedono nel tributo un fattore di alterazione del diritto fondamentale di proprietà, a sua volta considerato base ed espressione della persona e della sua libertà individuale e limite, solo eccezionalmente valicabile, alla tassazione. In questo contesto, il tributo torna ad essere visto nella sostanza come uno strumento di mero finanziamento della spesa per la sicurezza e per la protezione dei diritti proprietari e, in genere, delle cosiddette libertà negative. Con la conseguente tendenza non solo a contestarlo come fattore di distribuzione e redistribuzione, ma anche a riproporre nella sostanza i modelli di finanza pubblica che privilegiano, con la persona, i suoi diritti proprietari ed escludono dal finanziamento tramite imposte – e, quindi, dal riparto delle relative spese – la gran parte dei fondamentali diritti positivi, civili e sociali.

  A questa scuola di pensiero – cui si è in parte ispirata l’iniziativa legislativa di alcuni governi del passato – vale la pena di dedicare qualche riflessione critica, in considerazione anche della forte presa che essa ha avuto ed ha tuttora sulla opinione pubblica.

  2.1. - Storicamente, il neo-liberismo fiscale non solo è il frutto della rielaborazione del contrattualismo del fondatore del pensiero liberale, John Locke, secondo cui lo stato deve essere circoscritto al massimo per non assumere la forma e la funzione del Leviatano di hobbesiana memoria e deve limitarsi a proteggere gli individui contro la violazione dei loro primordiali diritti proprietari. Trova anche gli ascendenti più prossimi nell’individualismo giusnaturalista ottocentesco – sulla cui base culturale è stata costruita in passato la nozione del tributo-controprestazione – e, più specificatamente, nell’ordoliberalismo tedesco e nel costituzionalismo liberale hayekiano, che vedono il mercato come un “ordine spontaneo”, precedente alla decisione di sistema istituzionalizzata nel diritto dell’economia. Queste correnti di pensiero hanno in comune il considerare i diritti proprietari come libertà naturali, pre-politiche e pre-istituzionali, traducentisi sul piano giuridico in una “sorta di pretesa ostile verso terzi” da parte del soggetto che ne è titolare e in un certo qual modo indipendenti dal loro riconoscimento costituzionale. Di conseguenza, intendono il rapporto tra l’individuo-proprietario e la collettività prevalentemente in senso naturalistico, antisolidaristico e antiegualitario. L’individuo, con tutti i suoi attributi patrimoniali, sarebbe – naturalmente e in senso anche morale – un atomo a-istituzionale e la sua appartenenza alla collettività non avrebbe alcun senso in termini di responsabilità collettiva, non esistendo questa come principio di regolazione sociale e, nemmeno, come criterio di riparto dei carichi pubblici. Una traccia, per quanto labile, di questa impostazione si rinviene nell’ambito europeo. Non per nulla nella Convenzione Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) e nella Carta dei Diritti di Nizza (che a tale Convenzione si richiama) il diritto proprietario è considerato un diritto fondamentale della persona che, almeno secondo una certa linea interpretativa che personalmente non condivido, deve prevalere sui diritti sociali in sede di bilanciamento.

  2.2. - È appena il caso di sottolineare che questa scuola di pensiero va collegata ed è in parte conseguente, sul piano delle dottrine economiche, alla reazione – prodottasi in USA e, di rimbalzo, anche in Europa – alle teorie keynesiane e rooseveltiane dominanti nel secondo dopoguerra. Come è noto, antesignani di questa reazione sono stati, sopratttutto, Ronald Coase e Milton Friedman, rispettivamente nel 1961 e nel 1962, i quali, sulla scia anche del pensiero espresso da Friedrich Von Hayek fin dal 1944, hanno contribuito alle teorie liberiste, rilanciando le c.d. “politiche dal lato dell’offerta” (nella versione, soprattutto – chiamata ironicamente da Samuelson woodoo economics – che prescrive il taglio delle tasse come rimedio ad ogni male economico e come ricetta infallibile per la ripresa) e sottolineando, nel contempo, l’inefficienza della grande spesa pubblica, i limiti e le prodigalità delle politiche statali di piena occupazione e l’inidoneità dei governi a risolvere i problemi della società.

  Sul fronte prettamente fiscale, che a noi qui interessa, il descritto revival neoliberista ha prodotto nel mondo occidentale prese di posizione altrettanto forti, fino al punto di mettere in discussione la giustificazione morale e solidaristica del principio stesso di tassazione. E’ eloquente al riguardo per tutti la posizione di R. Epstein, il quale – quasi dimenticando la ricordata faticosa evoluzione storica della nozione di tributo in termini distributivi – ha affermato che il potere di imposizione non è altro che una forma di “espropriazione senza indennizzo” e una “confisca senza causa”, aggiungendo che “con l’imposizione il governo sottrae ai cittadini la proprietà nel senso più stretto del termine, appropriandosi di ciò che una volta era in mani private”.

  3. - Alla rediviva visione minimalista dell’intervento pubblico si sono contrapposte, come è noto, le teorie liberali diciamo così “non liberiste”. Queste teorie, pur non disconoscendo l’importanza dei diritti proprietari quali garanzia delle libertà individuali, li sganciano tuttavia dalla persona e li considerano una mera conseguenza di leggi, anche fiscali, che hanno come fine anche la tutela di altri rilevanti valori sociali ed economici. Da ciò facendo derivare un’idea della proprietà come istituto fondato sul criterio dell’appartenenza, ma nello stesso tempo legato ad un sistema complesso di obbligazioni sociali e rispondente al principio di giustizia distributiva.

  Un moderno pensatore deontologico come Rawls si guarda bene al riguardo dall’indulgere in visioni minimaliste della distribuzione e allocazione pubblica della ricchezza, fondate sull’idea che l’individuo e i suoi diritti proprietari esistono prima e a prescindere dalla collettività e dalle istituzioni che ne mediano le relazioni con il collettivo sociale. Il suo pensiero è, invece, tutto teso a valorizzare, con la libertà dell’individuo, il ruolo della responsabilità collettiva e della giustizia come equità distributiva e a dimostrare la necessità di dare priorità ai miglioramenti delle condizioni dei più svantaggiati rispetto a quelle dei più ricchi (secondo il noto principio di differenziazione e di massimizzazione del minimo, il cosiddetto maximin). Il che, almeno secondo la teoria rawlsiana del “disinteresse reciproco”, in netta contrapposizione su questo punto alle teorie liberiste, richiede necessariamente e, anzi, presuppone la divaricazione tra ciò che alla persona appartiene – ed è quindi “suo” senza essere, però, interno ad essa – e ciò che invece la persona medesima è, quale individuo sociale titolare di altri diritti e altri doveri (e non quale soggetto astratto e distaccato).

  Altri pensatori egualitaristi, come Amarthya Sen, arrivano nella sostanza, nello scorcio del secolo passato, alle stesse conclusioni del neo-contrattualista Rawls sul punto della giustizia distributiva e, soprattutto, della considerazione della persona (“divaricata” dalla proprietà) quale individuo sociale, non autointeressato e non egoista. Sen non crede certo in una netta contrapposizione fra rigidi schemi utilitaristici, propri del liberismo aggiornato della seconda metà del Novecento, e altrettanto rigidi schemi equitativi, parteggiando fideisticamente per i secondi. Ma alla base del suo pensiero c’è pur sempre l’opinione, comune alle costituzioni dei paesi europei, che è dello stato – quale strumento non burocratizzato della collettività politica – e delle sue leggi la responsabilità ultima sia nell’individuazione e rimozione delle cause di ingiustizia distributiva socialmente inaccettabile, sia nella distribuzione e redistribuzione dei beni primari, sia nell’elargizione pubblica diretta di servizi, sia infine nel reperimento – con imposta sostanzialmente progressiva – delle entrate necessarie a finanziare detti servizi e a garantire, comunque, una soglia minimale di benessere nella dignità. Il quale stato, nel perseguire un ragionevole equilibrio tra i principî di libertà, di uguaglianza sostanziale ed economica e di solidarietà, deve altresì preoccuparsi che l’utilizzazione dei suddetti beni e servizi e la fruizione di tali benefici siano consentite e garantite a chiunque non certo in modo uniforme, conforme ed eterodiretto, bensì adeguandole alla “capacità” differenziata di ciascuno e al progetto di vita che l’individuo vuole seguire (human functioning).

  Il messaggio che mi pare venga molto chiaramente da questa (peraltro, non sempre concordante) scuola di pensiero è il seguente: in un contesto di “uguaglianza di capacità” e di “equa differenziazione” il tributo, quasi paradossalmente, limita la libertà, i diritti proprietari e le stesse potenzialità economiche dell’individuo, e in ciò sta indubbiamente un sacrificio individuale; per aumentare però le libertà positive, e in ciò sta la funzione promotrice del tributo medesimo nell’ottica dell’equo riparto. In altri termini, se si ritiene che la libertà si espande in senso positivo nella società solo se la si associa ad obiettivi di uguaglianza, deve ritenersi anche che nelle moderne democrazie il tributo, legittimato dal consenso dei consociati espresso dalle leggi, è lo strumento più idoneo per perseguire concretamente questa associazione.

  Nella visione di Sen, e soprattutto in quella di altri egualitaristi di estrazione giuridica come Dworkin, è dunque proprio sull’uguaglianza (a seconda delle opinioni, uguaglianza solo di risorse e di opportunità ovvero di “capacità”) che si fonda, in ultima analisi, la legittimità etica dello stato sociale impositore e la sua funzione mediatrice e distributiva. Se, infatti, per uguaglianza si intende l’eguale interesse che lo stato deve provare per ogni cittadino da cui pretende il rispetto delle leggi, va da sé che la sua legittimità non dipende altro che dalla uguale cura che, attraverso le leggi medesime, esso mostra per la sorte e le libertà di ciascuno dei suoi cittadini e, di conseguenza, dal suo trattarli come uguali e con uguale rispetto. E per fare ciò e per fare acquisire e mantenere ad essi il necessario autorispetto ed un’eguale dose di libertà e di chances, esso è autorizzato a porre, sul fronte sia del reperimento delle risorse che della destinazione delle spese, una serie di “costrizioni” legali alla proprietà, alla distribuzione della ricchezza nazionale e alla fruizione in regime concorrenziale dei diritti patrimoniali; costrizioni che trovano un limite solo in altri diritti e principî fondamentali inviolabili, primi fra tutti, i principî – corollari di quello di uguaglianza – di razionalità, coerenza e congruità.

  4. – Questa visione dei rapporti tra fisco e diritti proprietari e questa accentuata valorizzazione della funzione distributrice dello stato sociale meritano, a mio avviso, di essere condivise.

  Alla base delle affermazioni degli egualitaristi e, in genere, dei liberali non liberisti sulla sottomissione dei diritti proprietari alle regole “ragionevoli” anche fiscali, vi è, infatti, l’apprezzabile idea che una società, che fosse fondata sul mito della (intangibilità della) proprietà e fosse priva degli interventi di uno stato distributore, si ridurrebbe inevitabilmente ad una società preborghese e regredita alla fase precedente alla rivoluzione francese: una società senza coesione sociale, senza considerazione dei rapporti interpersonali e con scarsa formazione di capitale umano. Cosa sarebbe questa società nei paesi industrializzati se si ragionasse – come ragionano i neoliberisti e ancor di più i libertaristi – esclusivamente in un’ottica naturalistica e di autoreferenzialità del mercato e in termini di “stato minimo” e di assoluta prevalenza (e non di bilanciamento) dei diritti proprietari rispetto a quelli sociali? Cosa sarebbe, in particolare, questa società se non si fosse invece fondato il riparto dei carichi pubblici sui principî di equità e di giustizia distributiva in luogo dei principî commutativi e di tutela integrale della proprietà, e non si fosse tentato di superare i fallimenti, le imperfezioni e il malfunzionamento del mercato medesimo attraverso la fissazione di regole che ne garantiscano quantomeno l’efficienza? E, soprattutto, quale situazione sociale avremmo oggi e di quale libertà godremmo se attraverso l’intervento pubblico regolatore non si fosse promossa l’equità di quello che gli economisti chiamano lo scambio fiscale e non si fossero garantiti, insieme ai diritti proprietari, anche i cosiddetti diritti “presi sul serio”, e cioè i diritti di libertà dai bisogni essenziali?

  La risposta a tali domande è già contenuta nel loro carattere retorico. I fautori delle teorie egualitarie esplicitano, peraltro, la loro risposta quando, in radicale opposizione al pensiero liberista e libertarista, affermano che nelle moderne democrazie l’intervento pubblico sarà a volte paternalistico, ma è pur sempre frutto della funzione conformatrice del diritto e, perciò, del fondamentale principio del consenso popolare incarnato nella legge. Ed è indispensabile tanto per attuare, attraverso lo strumento fiscale, il riparto dei carichi pubblici secondo il principio di equità distributiva e per superare gli eccessivi egoismi del mercato e le disuguaglianze che ne conseguono, quanto per adottare politiche concrete ai fini di promozione dello sviluppo e di garanzia del benessere sociale, oltre che dei diritti di libertà.

  Il che, a mio parere, non significa certo che gli individui non abbiano un diritto tutelabile al loro patrimonio o al loro reddito, derivante dalle più diverse attività svolte nel mercato in regime di concorrenza o da situazioni quali il lavoro, gli investimenti e ogni tipo di contratto. Significa semplicemente che, come dice bene Rawls, la forza morale di questo diritto proprietario non trova il suo fondamento esclusivamente nella persona che ne è il titolare e per il solo fatto che la persona esiste, ma dipende dalla rete esogena delle regole, delle procedure e delle istituzioni grazie alle quali detto diritto è stato acquisito. E si è visto che queste regole sono “giuste” solo se includono prestazioni patrimoniali imposte – come, appunto, il tributo – quali strumenti a disposizione dello stato per sostenere politiche egualitarie e di pari opportunità, per produrre e fornire beni pubblici, per acquisire beni comuni, per attuare in ultima analisi la giustizia distributiva. E se, dunque, il reddito posseduto e ogni altro presupposto di imposta hanno il requisito della “moralità” solo se è “giusto” il sistema delle regole, anche fiscali, nel cui contesto sono realizzati, va da sé che il diritto al reddito, ogni altro diritto proprietario e, in ultima analisi, ogni titolo legittimo di possesso non possono essere considerati, di per sé e da soli, misuratori estrinseci dell’eticità della tassazione e, perciò – come le più intransigenti teorie neoliberiste vorrebbero – nemmeno gli unici presupposti di equità di un sistema fiscale.

  5. - Se si calano queste considerazioni nella realtà dell’ordinamento giuridico italiano del secondo dopoguerra, ci si rende facilmente conto che la non identità tra proprietà e persona e l’aggrovigliarsi indissolubile del regime legale delle tasse con quello di un welfare ragionevole e con quello della proprietà per definire gli ambiti dello stato distributore, redistributore e moderatamente investitore, non sono affatto concetti astratti e nuovi, da scoprire o ritrarre solo ora dal ricordato pensiero liberale. Sono invece valori ben presenti da tempo nella nostra cultura e nel nostro ordinamento, che hanno rappresentato lo sfondo etico e il background culturale della Costituzione italiana e ne costituiscono oggi la componente, economica e sociale, sostanziale.

  Anticipando per certi versi e, comunque, andando in parallelo con gli orientamenti liberali “progressisti” di cui ho dato finora conto, i Costituenti hanno infatti operato nel ‘48 la scelta di riconoscere e garantire – con gli articoli 42 e 43 Cost. – i diritti proprietari quali strumenti dell’autonomia privata; nei limiti, però, delle “decisioni politiche di potere” imposte (anche) dalle esigenze di finanziamento della spesa pubblica e, perciò, nella logica consequenzialista, convenzionale ed egualitaria appena esposta. Senza entrare nel dibattito sulla natura dirigistica o interventista di tali articoli (e sul loro essere o meno frutto di un consapevole compromesso tra tradizione liberale, solidarismo cattolico e dirigismo socialista), nessuno ora dubita in via generale che i diritti proprietari in parola non sono essi stessi un limite alla legge, bensì è questa che li riconosce, li qualifica e ne determina i contenuti e la portata anche ai fini sociali, oltre che di interesse generale e di pubblica utilità: avendo come fine quello di garantire una ragionevole tutela di tali diritti e, nel contempo, rendere governabile e compatibile lo sviluppo economico con un ordine sociale “giusto”. Nell’ordinamento italiano la ratio della tutela della proprietà non è, quindi, tanto la personalità - con la conseguente congiunzione necessaria della proprietà stessa con i diritti inviolabili dell’uomo - quanto la funzionalità del sistema socio-economico.

  I diritti proprietari sono, dunque, il frutto di un sistema, appunto, convenzionale, determinato dalla Costituzione e da ogni altra norma atta a garantire libertà e a sancire responsabilità individuali e collettive: come tali, in presenza di valori contrapposti di indole sociale meritevoli di particolare protezione, essi – pur mantenendo una loro essenziale connotazione – possono essere bilanciati con questi valori e, quindi, anche affievoliti. In particolare, possono essere “compressi” in via legislativa sia dal limite interno della funzione sociale che da quello esterno dell’interesse generale e della pubblica utilità. Con l’importante avvertenza, però, che nel caso di espropriazione previo indennizzo di cui all’art. 42 Cost., nel caso di limitazione senza indennizzo della proprietà di intere categorie di “beni privati di interesse pubblico” e nel caso di espropriazione di imprese di cui al successivo art. 43 Cost., la “compressione” è disciplinata da questi stessi articoli e avviene per raggiungere lo scopo, bilanciato e costituzionalmente garantito, di interesse generale e di pubblica utilità; che è come dire per realizzare l’obiettivo di fare acquisire al potere pubblico un bene avente caratteristiche tali da renderlo rispondente all’interesse generale. Nel diverso caso, invece, di imposizione fiscale, la “compressione” avviene ugualmente, ma attraverso lo specifico, più intrigante e invasivo strumento di ablazione costituito dal tributo. Ed avviene allo scopo – ben diverso dal punto di vista funzionale – di attuare il precetto costituzionale dell’art. 53 Cost.; e cioè di realizzare (non certo una espropriazione senza indennizzo, ma) il riparto solidaristico dei carichi pubblici a titolo di concorso alle spese pubbliche e sociali, avendo – come vedremo più avanti – quale limite invalicabile solo il rispetto del principio di uguaglianza quale base e fondamento del principio di capacità contributiva.

  In questo contesto i Costituenti hanno selezionato, costituzionalizzandoli, i diritti civili e sociali che lo stato – quale portatore di fini che trascendono quelli dei singoli – deve per legge garantire a tutti i cittadini insieme ai diritti proprietari, per consentir loro una “ esistenza libera e dignitosa per sé e per la propria famiglia” (art. 36 Cost.). Tali diritti aterritoriali sono determinati dallo stesso stato nei loro livelli essenziali ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m), hanno il fondamento nei principî fondamentali di uguaglianza (art. 3) e solidarietà (art. 2) e, attraverso la mediazione di questi principî , sono invalicabili anche dalle stesse norme comunitarie relative alla libertà di concorrenza e di mercato (potendo eventualmente assurgere a controlimiti opponibili alla applicazione di queste ultime). Compongono, insomma, ciò che viene chiamata l’“organizzazione sociale e solidaristica dello stato”, costituendo l’essenza sociale delle pubbliche spese oggetto di riparto, alle quali, secondo il precetto funzionale dell’art. 53, correlato all’art. 3, ciascuno deve concorrere versando le imposte in ragione della propria capacità contributiva.

  La legislazione ordinaria si muove ciclicamente verso il restringimento o l’estensione radiale di questi diritti, ampliando o scarnificando di conseguenza il diritto di proprietà soprattutto attraverso lo strumento fiscale. Il che può dar luogo a fenomeni di “crisi fiscale dello stato sociale”, sotto il profilo sia dell’eccesso della spesa per tali diritti sia della carenza delle entrate funzionali agli stessi. Ma, almeno a mio avviso, non mette necessariamente in crisi l’impianto costituzionale rigido che la maggior parte di questi paesi si è dato quanto alla tutela e al finanziamento dei diritti sociali medesimi. L’eccesso del legislatore in un senso o nell’altro è, infatti, solo frutto delle scelte politiche, più o meno azzardate, legate alla contingenza economico-finanziaria e non la conseguenza patologica e permanente della correlazione necessaria che le singole costituzioni istituiscono tra spesa sociale e suo finanziamento a mezzo tributi. Spetta, in altri termini, solo alla politica di sciogliere, all’interno del quadro costituzionale “dato”, i momenti di tensione tra liberalismo costituzionale e democrazia sociale e di adeguare allo schema, giuridico, di protezione dei diritti (sia sociali che proprietari) quello, politico, di democrazia sociale. Così come – si è visto – spetta esclusivamente alla politica di comporre il conflitto tra i diritti individuali “negativi” di protezione dello status quo (come sono i diritti proprietari) e i diritti sociali che rivendicano la redistribuzione delle risorse.

  6. - È in questo quadro che assume, dunque, spiccato rilievo funzionale il potere legislativo di imposizione quale presupposto necessario per la sussistenza dello stato in quanto collettività organizzata e, in via ancor più generale, quale collegamento di base, logico e funzionale (e non solo ideologico), tra stato di diritto e stato sociale. Tale collegamento differenzia il tributo dalle altre “prestazioni imposte” di cui all’art. 23 Cost. e trova il suo fondamento e il suo limite esclusivamente nei ricordati valori organizzanti della società medesima, espressi dai più volte richiamati principî costituzionali di uguaglianza sostanziale e di solidarietà.

  E, sempre in questo quadro, i “mezzi” tributi concorrono ad integrare un giusto ordine sociale se sono inseriti in un sistema coerente e ragionevole e se rispondono al principio di uguaglianza sostanziale. Sono i “fini” economici, politici e sociali perseguiti in sede di riparto a fare la differenza, a soddisfare gli obiettivi di solidarietà, a deviare – se del caso e se voluto dalle maggioranze politiche – la produzione e il consumo dagli indirizzi impressi dal mercato e a calibrare, di conseguenza, i diritti proprietari potenziandoli o intaccandoli.

  In tale ottica solidaristica, egualitaria e teleologica – propria dei sistemi liberali democratici occidentali improntati al moderno costituzionalismo partecipativo – il prelievo tributario non si pone come potenzialmente repressivo della persona e dei suoi diritti individuali libertari e non è giustificato dal solo fatto che il relativo gettito è diretto a proteggere tali diritti e a remunerare i servizi pubblici essenziali resi dall’ente pubblico. Non è, cioè, solo un premium libertatis o l’altra faccia negativa del costo dei diritti, ma, in un mondo disuguale quale il nostro, è soprattutto un importante strumento di giustizia distributiva che, secondo le diverse opzioni politiche, lo stato ha a disposizione – insieme agli altri strumenti di politica economica – per travalicare le opportunità del mercato e per correggerne le distonie e le imperfezioni a favore delle libertà individuali e collettive e a tutela dei diritti sociali.

  Testo della relazione svolta al Secondo Corso di Alta formazione sul diritto romano per docenti della Reppubblica Popolare Cinese, e pubblicato in cinese, con autorizzazione d’autore, in Digesta (Xue Shuo Hui Zuan), vol.IV, Pechino, 2012.

发布时间:2013-03-05  
 

Centro di studio del diritto romano e italiano presso Universita
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