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Enrico gabrielli:Il contratto, il torto e il danno da chance perduta: profili di un’ipostasi giurisprudenziale.

 Il contratto, il torto e il danno da chance perduta: profili di un’ipostasi giurisprudenziale.

  Sommario: 1. Una premessa. – 2. L’ipostasi giurisprudenziale del danno da occasione perduta. – 3. La perdita di chance da interesse di fatto a entità patrimoniale autonoma. – 4. Un profilo comparatistico. – 5. L’ambito della chance risarcibile. – 6. La teoria probabilistica del verificarsi dell’evento perduto, la prova del danno da occasione perduta. – 7. Profili sulla quantificazione del danno.

  1. Una premessa.

  Giavoleno Prisco insegnava che “omnis definitio in jure civili periculosa est” (202 D, de reg. iur., 50,17), ma, ciò nonostante, la tendenza alla ipostatizzazione di concetti e parole nell’ambito della scienza giuridica non è mai venuta meno nel corso dei secoli. Tant’è che ancora oggi assistiamo alla creazione pretoria di istituti e fattispecie che probabilmente non hanno ragione di esistere, in quanto tali o comunque con la rilevanza che a loro viene assegnata, perché non fondati sulla ricostruzione di un corpo normativo che ne legittimi l’esistenza nel quadro degli istituti che trovano riconoscimento ad opera dell’ordinamento.

  Il caso del danno da perdita di chance sembra utilmente rappresentare questo tipo di vicenda che, ovviamente non è soltanto storica o concettuale, ma è espressione di questioni e problemi di diritto positivo, in ragione dei quali riconoscendo un valore normativo a quella che invece è una mera ipostasi, si finisce per riconoscere a determinate situazioni di fatto una protezione, o quanto meno un determinato livello di protezione, che in termini di disciplina alle stesse non è attribuibile.

  La vicenda concettuale che segna questo tipo di procedimento logico è semplice nella sequenza dei suoi passaggi: dalla vita di relazione, o dal contesto di determinati fatti che paiono assumere rilievo economico e patrimoniale, sembra profilarsi una situazione configurabile in termini di “perdita”.

  Situazione che tuttavia, per una pluralità di ragioni, è priva di un oggettivo fondamento in termini di interessi protetti, o di rilevanza della qualità di quegli interessi, sicché sul piano dei valori tutelati dall’ordinamento essa risulta irrilevante, in quanto non giuridicizzata, e quindi assurge tutt’al più al rango di mero interesse di fatto, relativo e contingente.

  In quanto tale esso può ricevere una tutela solo indiretta e sempre che ricorrano certe e ben definite condizioni, poiché, ad onta della qualificazione che ne opera la giurisprudenza, mediante un modello rappresentativo che si avvale della raffigurazione del fenomeno in termini di astrattezza concettuale, quella situazione ha una portata ontologica meramente apparente, dato che a quel concetto, nella realtà dell’ordinamento, non corrisponde una situazione protetta: esso è soltanto una mera ipostasi.

  2. L’ipostasi giurisprudenziale del danno da occasione perduta.

  Il problema del danno da perdita di chance sorge negli orientamenti della giurisprudenza soprattutto in materia di rapporti di lavoro o di responsabilità medica, quando le Corti hanno avuto occasione di enucleare la figura della perdita da occasione favorevole prendendo le mosse, nelle prime pronunce sul tema, dal concetto di perdita e di guadagno di cui all’art. 1223 c.c. interpretato nel senso che si riferisce non solo ad entità patrimoniali ma a qualsiasi altra utilità economicamente valutabile, nella quale viene ricondotta anche “una situazione cui è collegato un reddito probabile: il valore economico è offerto dall’entità di questo reddito e dal grado di probabilità che il reddito sia effettivamente prodotto; il fatto che la situazione sia idonea a produrre solo probabilmente e non con assoluta certezza il reddito ad essa rannodato, influisce non sull’esistenza, ma sulla valutazione di un danno risarcibile”, così che il risarcimento si riferisce “non alla perdita di un risultato favorevole, bensì alla perdita della possibilità di conseguire un risultato utile”.

  In tal senso la perdita di chance viene considerato “fenomeno” che può essere assimilato alla perdita di avviamento commerciale e la giustificazione del riconoscimento della risarcibilità viene trovato nella “peculiare situazione soggettiva di potenzialità del pregiudizio” .

  Il riconoscimento della pretesa risarcitoria venne successivamente fondato sulla lesione del diritto all’integrità del proprio patrimonio, e quindi sulla violazione non tanto di un diritto soggettivo pieno, quanto di una legittima aspettativa di diritto (e non di fatto), che, quale danno emergente da perdita di una possibilità attuale, è stato tenuto distinto dalla perdita di un futuro risultato utile .

  Secondo l’orientamento che nel tempo si è andato via via formando e che oggi può dirsi oramai sufficientemente consolidato, anche nel recente riconoscimento delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, il danno da occasione perduta si configura come perdita di una concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene, ma esso “non è una mera aspettativa di fatto ma un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione”.

  Il creditore che voglia ottenere, oltre al rimborso delle spese sostenute, anche i danni derivanti dalla perdita dell’occasione, di conseguenza, “ha l’onere di provare, pur se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile dev’essere conseguenza diretta ed immediata”.

  La definizione offerta dalla Corte Suprema, ed oggetto di puntuale critica ad opera della dottrina, giunge ad esito di un approfondimento giurisprudenziale, del quale sarebbe allo stato superfluo ripercorrere i momenti più significativi, ma del quale invece non è inutile cogliere alcune sfumature che nell’occultare i nodi problematici oggettivamente sottesi al tema svelano come, al di là dell’illusoria linearità del risultato interpretativo finora raggiunto, il percorso logico che sorregge la figura di creazione giurisprudenziale risulti molto più incerto e contraddittorio di quanto, da una sua prima lettura, possa in realtà apparire.

  L’ordinamento infatti non prevede la chance come situazione giuridica, dato che per attivare la tutela alla cui protezione è diretta la disciplina dell’illecito aquiliano il danno deve essere (anzitutto concreto) e soprattutto ingiusto.

  Ragionando, secondo i criteri seguiti dalla giurisprudenza, infatti si confonde la natura meramente patrimoniale di una perdita, quale è quella ipoteticamente rinvenibile nell’occasione perduta, con il diverso contenuto di cui si compongono le situazioni giuridiche soggettive.

  Ad esempio in un caso di responsabilità medica, la Corte definisce il danno da perdita di chance “non come mancato conseguimento di un risultato soltanto possibile, bensì come sacrificio della possibilità di conseguirlo, inteso tale aspettativa (la guarigione da parte del paziente) come ‘bene’, come diritto attuale, autonomo e diverso rispetto a quello alla salute”.

  Il fondamento di tale posizione autonoma non viene però giustificato sulla base di una norma che la preveda (quale l’art. 1223 c.c. che stabilisce la risarcibilità delle posizioni soggettive, se “la perdita subita dal creditore, come il mancato guadagno” siano “conseguenza immediata e diretta” del danno), ma considerando il nesso causale come “misura della relazione probabilistica concreta” tra comportamento e fatto dannoso.

  Il criterio per rinvenire nelle sequenze causali di cui si compone il giudizio di responsabilità l’esistenza del nesso di causa tra il fatto (atto, comportamento, ecc.) e la perdita subita da chi si assume danneggiato è fondata dunque in questa giurisprudenza sull’esito di un giudizio che si concluda nel senso di: «più probabile che non».

  In tal modo, mediante un evidente processo di astrazione “quello che sta sotto” – cioè la mera aspettativa in fatto di un possibile (ma non probabilmente certo) risultato “utile” viene assunta al rango di bene, e quindi oggetto di una situazione giuridica soggettiva avente autonomo contenuto patrimoniale e suscettibile di specifica tutela da parte dell’ordinamento.

  L’occasione perduta da ipostasi diviene così fattispecie.

  3. La perdita di chance da interesse di fatto a entità patrimoniale autonoma.

  Conferma del procedimento con il quale la giurisprudenza dall’esame di una situazione che involge interessi di mero fatto opera la trasmigrazione di un fenomeno relativo e transeunte (la possibilità o eventualità di un risultato) in un concetto che acquista rilievo normativo (la perdita di una chance), e dal mero concetto fa poi discendere una categoria ordinante (il danno da perdita di chance), perfino quando di siffatta operazione manchino i fondamenti normativi per la carenza di una situazione giuridica soggettiva, si trae anche dall’osservazione di un dato empirico. Sovente la affermazione della categoria del danno da occasione perduta (e la sua concettualizzazione mediante una o più formule definitorie) avviene in occasione di controversie nelle quali, a fronte dell’enunciazione dei caratteri astratti della fattispecie, il rimedio del risarcimento del danno (e ancor prima la esistenza in concreto del danno stesso da chance) viene tuttavia negato.

  Sicché ci si potrebbe limitare alla banale osservazione che la creazione della categoria sembrerebbe soddisfare, nell’impiego che ne opera la giurisprudenza, unicamente mere esigenze di classificazione dei possibili caratteri mediante i quali si manifestano situazioni di perdita patrimoniale, e ciò indipendentemente dal successivo passaggio logico diretto a valutare se tali mere situazioni di fatto siano poi suscettibili di essere correttamente inquadrate negli statuti normativi del danno aquiliano (fra i quali poter in tal modo comprendere anche quello del danno da “possibile evento favorevole con verificabilità più probabile che improbabile”).

  Si potrebbe infatti essere indotti a concludere in questo senso, se non fosse per la circostanza che, viceversa, attraverso il ricordato processo logico alle fattispecie riconducibili alla figura dell’occasione perduta (e quindi ad una situazione non correttamente inquadrabile tra quelle soggettive) viene attribuita la tutela tipica del diritto soggettivo pieno, quale è quella di chi, secondo il dettato dell’articolo 1223 c.c., soffre un danno come conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento o del ritardo.

  Laddove nel tema di cui si discute quello che manca, sul piano normativo, è proprio il riscontro dell’esistenza di un oggettivo nesso di diretta consequenzialità giuridica tra fatto (mancata acquisizione di un risultato in astratto possibile e forse probabile) e perdita (cioè situazione deteriorata intesa in termini di danno), alla quale si cerca di supplire mediante il ricorso al giudizio che si avvale dei criteri e delle modulazioni della probabilità: “più sì che no”, ovvero “più probabile che improbabile”.

  Quando, al contrario, la valutazione del fenomeno dovrebbe indurre ad operare non con un procedimento, quale quello ipostatizzante, di assolutizzazione di un principio relativo; ma, viceversa, mantenendo sul piano contingente e relativo ciò che tale è nel mondo degli accadimenti giuridicamente rilevanti, evitando pertanto, nella struttura del nesso di causalità, di assimilare, e quindi confondere, quello che attiene al piano della possibilità e della probabilità del verificarsi di un evento, con quello che attiene al piano della oggettività e della certezza dell’evento medesimo.

  Se si tenta di tirare le fila delle indicazioni che provengono dagli orientamenti delle corti ci si avvede allora che sotto il nomen “occasione perduta” o “perdita di chance” le corti tendono in buona sostanza a creare una nuova fattispecie di responsabilità aquiliana di fonte pretoria, seppur dagli incerti e nebulosi confini.

  La risarcibilità della chance viene tuttavia in dottrina riconosciuta anche sul piano della tutela aquiliana, quale specie autonoma di danno, con la precisazione che essa “non per questo deve condurre ad un doppio risarcimento in favore del danneggiato. Deve cioè trattarsi di una perdita che altrimenti non potrebbe essere ricompresa in un’altra voce di danno”.

  Deve però trattarsi di una perdita la cui fonte produttiva non deve derivare da un comportamento dell’asserito danneggiato, poiché la perdita di chance (indipendentemente da quale sia il titolo al quale si fa riferimento, aquiliano ovvero contrattuale, per far valere il ristoro della perdita subita), è configurabile unicamente quando l’inadempimento o l’illecito abbia cagionato una nuova situazione, in ragione della quale appaia meno probabile il conseguimento di utilità future, giacché in questo caso “la misura del danno è pari al prezzo che si sarebbe stati disposti ad accettare in cambio della rinuncia alla chance”.

  La chance è infatti, seppure non sempre, commerciabile; ma ciò non impedisce, come si è rilevato, di considerare la perdita come un danno patrimoniale, pari alla somma che si sarebbe stati disposti ad accettare in cambio della chance.

  Con la conseguenza che, una volta accettato anche ex ante (rispetto al suo verificarsi) il rischio sulla medesima, essa non può formare oggetto di reviviscenza, in ragione di fatti successivi, o di fatti antecedenti ma emersi successivamente.

  E’ il caso della transazione sulla lite in corso, ovvero sulla rinuncia a proporre ricorso in cassazione avverso una sentenza di appello, quando successivamente a tale transazione si verifichi un fatto, come una pronuncia della Corte costituzionale, che annulli la norma sulla quale la pretesa era basata e sulla quale la stessa transazione si era formata.

  Secondo autorevole dottrina il danno da chance è in ogni caso estraneo al sistema della responsabilità aquiliana, diversamente da quanto invece ritenuto dalla giurisprudenza, poiché esso, come è stato osservato, non è altro che un suggestivo modo per giustificare il risarcimento di un danno meramente patrimoniale “specificamente connotato dall’essere non certo ma soltanto in un certo grado probabile”, di modo che quando l’interesse violato non abbia natura patrimoniale esso si configura come il mancato conseguimento di un risultato utile la cui derivazione causale da condotte commissive od omissive non è certa.

  La perdita dell’occasione pertanto se riguardata sul piano della causalità indica un nesso insufficiente per fondare la responsabilità, se osservata su quello del danno si riferisce ad una perdita possibile, ovvero anche probabile, ma non certa, ed infine, se esaminato sul piano della lesione, manca una situazione soggettiva che ne risulti colpita, così che la chance “si risolve in concreto in un interesse di mero fatto, non meritevole di tutela risarcitoria”.

  4. Un profilo comparatistico.

  L’occasione perduta dunque va espunta dall’ambito del diritto della responsabilità extracontrattuale da fatto illecito, trovando il proprio fondamento altrove, come peraltro conferma un seppur sintetico confronto con i sistemi a noi più vicini.

  Nel diritto tedesco, ad esempio, si trovano solo sporadiche sentenze in cui la giurisprudenza si confronta con la questione della perdita di chance (Chanceverlust), poiché in quel sistema il diritto al risarcimento per responsabilità aquiliana (ai sensi del § 823, comma 1, BGB) esiste solo nella misura in cui si accerti una violazione di uno dei beni giuridici che sono elencati nella norma.

  I possibili danni conseguenti alla perdita di chance di profitto o di esito favorevole di natura processuale non sono compresi nell’elenco, perché comportano un “puro” danno patrimoniale (il cd. reine Vermögenschaden), così che si sostiene che il profitto futuro, proprio perché futuro, non può essere considerato ancora proprietà e dunque, in mancanza di una situazione giuridica soggettiva qualificata, la perdita della chance non rientra in alcun modo nella previsione del § 823, comma 1, BGB.

  In Germania uno spiraglio all’applicazione del danno da perdita di chance viene riconosciuto semmai unicamente nel caso della responsabilità medica, tuttavia confondendo, al pari di quanto avviene negli orientamenti della nostra giurisprudenza, l’ambito della responsabilità contrattuale, che è la sede propria di siffatte ipotesi, con quella ex delicto.

  La dottrina tedesca dal canto suo è molto restia al riconoscimento della chance di guarigione come bene tutelato dal § 823, comma 1, BGB, poiché tale riconoscimento andrebbe contro la lettera della norma e le intenzioni del legislatore. Tant’è che in quel sistema l’inammissibilità di una soluzione in chiave delittuale del problema ha mosso gli interpreti a spostarsi sul terreno contrattuale, al fine di rinvenire uno spazio per il riconoscimento del danno da occasione perduta e quindi affrontare in quel contesto il caso in cui una parte perda una chance a causa dell’inadempimento della controparte.

  Nel diritto inglese la loss of chance doctrine, dopo le aperture offerte dal caso Chaplin v. Hicks sembra incontrare significative resistenze ad un suo indiscriminato allargamento, anche al fine di evitare che il risarcimento delle chance si risolva, sul piano della valutazione probabilistica, in una sorta di esercizio matematico o statistico.

  Se infine si osserva pure l’esperienza francese, nel cui ambito l’idea della chance si è sviluppata, il discorso non sembra dover giungere a conclusioni diverse, giacché l’ipotesi più emblematica di occasione mancata, cioè la perte d’une chance de guerison ou de survie, a causa del fatto lesivo omissivo o commissivo del medico viene inquadrata nell’ambito della responsabilità contrattuale.

  Del resto, come si è autorevolmente rilevato, nella responsabilità contrattuale, e nella prestazione medica o professionale in generale, il fondamento della responsabilità deve rinvenirsi, e quindi affermarsi, non tanto sul piano del danno risarcibile, quanto piuttosto su quello dell’accertamento dell’inadempimento, e ciò sia che si tratti dell’obbligo di prestazione, sia che ricorra un rapporto obbligatorio senza tale obbligo, poiché l’oggetto del risarcimento non va ricercato tanto nel valore negativo del venir meno di un’occasione favorevole, quanto nella perdita dovuta alla mancanza del risultato dovuto in conseguenza dell’inadempimento o della violazione del rapporto.

  Esclusa dunque, secondo parte della dottrina, la perdita da occasione favorevole dall’area del danno risarcibile di natura aquiliana, si tratta di verificare se, ed in che limiti, la cd. perdita di chance possa essere accolta nell’ambito del danno patrimoniale di natura meramente contrattuale, ovvero se anche su quel piano rappresenti, se non del tutto quanto meno in parte, una creazione concettuale di fonte giurisprudenziale.

  5. L’ambito della chance risarcibile.

  La risarcibilità della chance sul terreno del danno patrimoniale di matrice contrattuale viene ritenuta “coerente con le funzioni economiche del contratto e della responsabilità contrattuale” poiché adeguando “il risarcimento alle probabilità di profitto venute meno realizza la giusta pressione a fini di incentivo e la giusta ripartizione dei rischi”.

  Ciò che tuttavia negli orientamenti degli interpreti rimane incerto è l’inquadramento e la qualificazione del fenomeno nell’ambito degli strumenti di reintegrazione della situazione lesa, e segnatamente se l’occasione persa debba essere ricondotta al danno emergente ovvero al lucro cessante.

  Autorevole dottrina qualifica la perdita come “una situazione giuridica soggettiva che si inserisce in una sequenza causale, costituendo l’antecedente in termini di possibilità di un vantaggio finale, onde la sua perdita è bensì un danno emergente immediato, ma non distinto da quello finale, consistente nel non aver conseguito il vantaggio. Ma la perdita sussiste solo quando il vantaggio non è più raggiungibile definitivamente ed irreversibilmente, perché è di tutta evidenza che se esso ancora lo fosse, la chance ancora sussisterebbe”.

  Secondo altra opinione, che pure colloca la privazione di chance nel quadro della responsabilità contrattuale, il mancato conseguimento di un vantaggio quando si manifesta sul terreno del danno patrimoniale configura un “lucro cessante ipotetico”, del quale si può legittimamente chiedere se esso sia risarcibile a prescindere da un danno emergente, che derivi come conseguenza immediata e diretta della lesione di una situazione soggettiva.

  Sul tema si è tuttavia sostenuto che è superfluo tentare di ricondurre la qualificazione di tale lesione nel quadro del lucro cessante piuttosto che in quello del danno emergente, inteso quale perdita attuale di un elemento patrimoniale corrispondente ad un miglioramento futuro e probabile, poiché si tratta di un ragionamento considerato al medesimo tempo “scorretto e inutile”, dato che la perdita di chance non costituisce né l’uno, né l’altro, ma semplicemente, volta a volta, un criterio per la quantificazione dell’uno o dell’altro.

  Il problema della classificazione in una o nell’altra partizione deve essere superato anche in ragione della circostanza che, in presenza di una chance (sia essa perduta, sia essa ancora potenzialmente produttiva di effetto), la misura del danno subito e della necessaria reintegrazione non può che essere affidata alla valutazione da farsi caso per caso, proprio in ragione della sostanziale “atipicità” delle situazioni causali mediante le quali la perdita dell’occasione può manifestarsi, e che possono essere valutate soltanto in concreto.

  La valutazione della perdita può infatti essere effettuata soltanto quando sia stato possibile ricostruire con ampio margine di oggettività la struttura, e il percorso diacronico, della sequenza dei fatti nel cui contesto si è posto, ovvero si è verificato, l’evento che ha cagionato la presunta perdita.

  In tal senso occorre altresì opportunamente distinguere nel giudizio di causalità tra articolazione delle sequenze mediante le quali esso si manifesta; incidenza diretta o indiretta, anche nella rispettiva dimensione temporale, dei singoli fatti interruttivi sulle sequenze medesime; grado di probabilità del completarsi della sequenza in un senso o nell’altro, anche in assenza dell’evento interruttivo della stessa. Vale a dire se, come e quando, la chance si sarebbe in ipotesi potuta realizzare e con quale grado di probabilità.

  Il discorso deve dunque muovere sul piano di indagine offerto dalla verifica in concreto, volta per volta, circa l’effettivita incidenza che in maniera diretta o indiretta nello svolgimento della sequenza causalistica l’inadempimento, o il ritardo, ha prodotto in ordine al possibile e probabile vantaggio di cui si lamenta la perdita.

  Il rapporto di causalità tra inadempimento all’obbligazione assunta e perdita dell’occasione deve essere anzitutto distinto dal problema della stima del valore economico della chance, giacché il primo profilo attiene alla valutazione della incidenza della situazione deteriorata sul concreto svolgimento della vicenda obbligatoria, e quindi all’esistenza o meno di un danno in concreto; il secondo, invece, a quello della sua eventuale quantificazione.

  Con la conseguenza che, sul primo piano, opera un giudizio di natura probabilistica; sul secondo, un giudizio che, tenendo conto degli esiti del primo, individui con riguardo al singolo caso quali siano le misure rimediali da applicare, potendosi ad esempio utilmente fare applicazione, oltre al risarcimento per equivalente, anche, secondo una certa giurisprudenza, di quello in forma specifica.

  6. La teoria probabilistica del verificarsi dell’evento perduto e la prova del danno da occasione perduta.

  In dottrina correttamente si afferma che il grado di probabilità con il quale deve risultare la perdita dell’occasione favorevole deve essere “alto”, poiché esso deve sostanzialmente equivalere ad “una pratica certezza”, dato che in tal caso si tratta di applicare, seppur attraverso il giudizio probabilistico, un criterio che sia sostanzialmente equivalente a quello di cui all’art. 1223 c.c..

  Giudizio che quindi tenga conto del rapporto di derivazione immediata e diretta tra inadempimento e occasione perduta, in quanto soltanto operando con tale criterio, anche in caso di inadempimento da fatto omissivo, si possono raggiungere quelle probabili certezze che deriverebbero dall’applicazione dell’art. 1223 c.c. se la sequenza causale dell’inadempimento si fosse realizzata in pieno producendo gli effetti finali allo stesso inadempimento connessi.

  La giurisprudenza, in realtà, per valutare la rilevanza dell’occasione perduta, e quantificarne gli eventuali effetti lesivi, seppur facendo riferimento al giudizio in termini di possibilità e probabilità, applica criteri a volte fra loro differenti, a volte divergenti.

  Il giudice amministrativo, ad esempio, quando il problema si presenta con riguardo ai procedimenti di gara, e quelli per l’assegnazione di un appalto in particolare, dopo aver definito la chance come “l’astratta possibilità di un esito favorevole” ed averla inquadrata nell’ambito delle situazioni soggettive tutelabili, ha sostenuto che la verificazione dell’azione o della situazione fattuale – come situazione soggettiva tutelabile che si pone quale condizione, certa o probabile, di un evento favorevole – dovesse essere misurata alla luce della migliore scienza ed esperienza con un giudizio ex ante e secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, sulla base di elementi di fatto forniti dal danneggiato, intesi a dare la prova che “il pericolo di non verificazione dell’evento favorevole, indipendentemente dalla condotta illecita, sarebbe stato inferiore al 50%”.

  In seguito ha modificato, precisandolo ed integrandolo, il proprio orientamento ed ha distinto tra chance “risarcibile” (cioè la probabilità di riuscita) e chance “irrisarcibile” (cioè la mera possibilità di conseguire l’utilità sperata), indicando, quale criterio di distinzione tra le due ipotesi quello che si serve della teoria probabilistica, nel senso che, nell’analisi del grado di successione tra azione ed evento al fine di stabilire se esso avrebbe o meno costituito conseguenza dell’azione, “scandaglia, fra il livello della certezza e quello della mera possibilità, l’ambito della cd. probabilità relativa, consistente in un rilevante grado di possibilità”.

  In definitiva ci si affida ad un metodo scientifico, che “si sostanzia in un procedimento di sussunzione del caso concreto che si voglia di volta in volta analizzare sotto un sapere scientifico”, che nei sistemi giuridici si concretizzerebbe in un “sapere probabilistico”, il quale fa leva – oltre che sul principio dell’id quod plerumque accidit, criterio utilizzabile nelle fattispecie nelle quali la realtà sia comprensibile sulla base di nozioni di comune esperienza – sul riferimento alla migliore scienza; cioè “al più esauriente assetto gnoseologico in grado di fornire un giudizio il più possibile corretto e compiuto in ordine alla prognosi probabilistica circa il verificarsi o meno dell’evento vantaggioso preso in considerazione” .

  Tenendo altresì presente che il parametro del 50% “non ha valore assoluto, poiché “il grado di possibilità qualificabile come probabilità presenta una soglia costitutiva variabile da determinare caso per caso sulla base del concreto assetto della situazione esaminata”, la quale deve essere valutata “alla luce delle peculiarità delle situazioni soggettive di vantaggio proprie del diritto amministrativo, nel quale un ruolo decisivo assume l’esercizio, nelle sue diverse forme, della discrezionalità amministrativa in ordine sia all’esito del giudizio prognostico, sia alla determinazione della consistenza e della rilevanza dell’utilità potenziale e quindi della sua concreta tutelabilità.

  Di recente la giurisprudenza, in tema di risarcimento derivante da illegittimo affidamento a trattativa privata, in luogo dell’affidamento con procedura ad evidenza pubblica, è giunta alla diversa conclusione che il relativo danno da perdita di chance sia “da quantificarsi con la tecnica della determinazione dell’utile conseguibile in caso di vittoria, scontato percentualmente in base al numero dei partecipanti alla gara o al concorso”.

  Il quadro offerto dagli orientamenti in materia mostra dunque nella sua sintesi che la giurisprudenza non potendo (ovvero non sapendo) fare affidamento su criteri certi di selezione del fatto negativo, che siano oggettivamente in grado di dare prova della concreta incidenza sulla interruzione o modificazione della sequenza favorevole – invece di ricorrere, come dovrebbe, alla quantificazione del danno secondo equità, e quindi ad un criterio di giustizia del caso concreto – si avvale del pericoloso criterio delle presunzioni.

  Criterio a volte mascherato dall’uso del giudizio possibilistico-probabilistico, a volte invece espresso secondo artificiose cabale aritmetiche, ovvero secondo indecifrabili algoritmi concettuali, quali quello secondo il quale il danno da chance va “liquidato in ragione d’un criterio prognostico basato sulle concrete ragionevoli possibilità di risultati utili, assumendo come parametro di valutazione il vantaggio economico complessivamente realizzabile dal danneggiato diminuito d’un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo e deducibile questo caso per caso dagli elementi costitutivi della situazione giuridica dedotta”.

  L’impiego di tale giudizio – la cui scarsa efficienza risulta provata anche dalla circostanza che, come detto, il danno da perdita di chance dalla giurisprudenza viene tendenzialmente più negato che riconosciuto – finisce nella sostanza della sua applicazione per risolversi nella valutazione secondo cui se l’evento, una volta acclarato possibile risulta anche probabile, ciò significa che automaticamente si è prodotta la situazione deteriore che configura la perdita da chance.

  Il “vantaggio possibile che risulta ipoteticamente anche probabile” diventa dunque – a prescindere da qualsiasi oggettiva e concreta prova dell’esistenza di un nesso causale diretto e consequenziale tra ipotetica chance e danno – il criterio in ordine alla valutazione (prognostica ora, ma per allora) circa l’efficacia causale determinante dell’evento ad impedire il realizzarsi del vantaggio finale.

  Il fenomeno così descritto, ancora una volta mediante un’ipostasi giurisprudenziale, da criterio ipotetico e meramente presuntivo di valutazione diviene invece duplice prova “certa” sia dell’esistenza della chance come situazione giuridica autonoma, sia della sua lesione, e quindi del suo essere suscettibile di altrettanto autonoma valutazione economica al fine della sua risarcibilità.

  Con la conseguenza che da una causalità ontologicamente “incerta” si trae, invece, la certezza dell’avvenuto realizzarsi di un nesso causale diretto e determinante ai fini del risarcimento del danno.

  La chance, cioè l’antica “cadentia” nel gioco dei dadi (cioè l’azzardo), in base al pericoloso ed a volte incontrollato sistema delle presunzioni, da aspettativa di un fatto favorevole, e quindi evento in sé ontologicamente ed oggettivamente aleatorio giacché legato ad un mero fatto incerto, si trasforma invece in “certezza” dell’evento e, per mezzo di una sorta di trasfigurazione giuridica fondata sul meccanismo delle finzioni, assume essa stessa la veste di situazione giuridica autonoma suscettibile di una propria valutazione economica, in quanto inquadrata nel contesto dell’altrettanto “fantomatica“ categoria del danno da lesione del diritto all’integrità del patrimonio.

  Con l’aggravante che il controllo sulla motivazione in questi casi diventa pressoché impossibile, e comunque difficile, sul piano della eventuale impugnazione della sentenza, in ragione del sempre più disinvolto uso che la giurisprudenza della Corte di cassazione opera del principio dell’incensurabilità della valutazione del giudice del merito, in sede di legittimità, se essa appare congruamente e sufficientemente motivata; come quando, in un caso di responsabilità aquiliana, la stessa Corte pur nel prendere atto “della improprietà della terminologia usata dal giudice” e della circostanza che “il giudice di merito mostra chiaramente di confondere il danno da lesione alla salute con quello da perdita di chance”, respinge il ricorso ritenendo che, ciò nonostante, il giudice del merito mostra chiaramente di ritenere ‘più probabile che non’ l’esistenza del nesso di causa tra il comportamento omissivo e la lesione subita dal danneggiato.

  7. Profili sulla quantificazione del danno.

  Sia nel caso della responsabilità extracontrattuale (per quei casi nei quali il fatto dannoso abbia prodotto effetti in ordine all’interruzione della sequenza causale, e quindi risulti avervi oggettivamente inciso, in modo diretto ed immediato, ed aver in tal modo ulteriormente aggravato la perdita in ragione anche dell’esistenza di una chance perduta), sia in quella contrattuale, “il concetto di chance non costituisce un titolo a fondamento della responsabilità, bensì un criterio di quantificazione del danno derivante da lesione di un interesse giuridicamente garantito contro il comportamento che è fonte di responsabilità”, il giudizio sul quantum può dunque essere avviato unicamente se risulta in concreto provata la violazione di un diritto.

  Il relativo giudizio si sostanzia infatti in una sequenza logico-argomentativa la quale si compone del preventivo giudizio sull’esistenza sia dell’occasione perduta, sia della capacità in concreto lesiva di un determinato fatto, in quanto conseguenza immediata e diretta di una violazione, commissiva ovvero omissiva, di una regola contrattuale.

  Sicché al fine di determinarne l’eventuale quantum, deve essere a monte “risolta in senso positivo la questione dell’esistenza della responsabilità”, cioè la lesione di un interesse giuridicamente garantito.

  La quantificazione del danno non può allora essere fatta unicamente mediante il ricorso al mero giudizio probabilistico, ma richiede l’oggettiva prova in concreto dell’esistenza di una situazione, che configura un interesse giuridicamente tutelato, della quale sia certa, e non probabile, l’avvenuta e definitiva lesione, quale sua conseguenza immediata e diretta.

  Il riconoscimento della chance, sul piano della corretta applicazione dei principi della responsabilità, deve essere subordinato alla prova rigorosa che il vantaggio, se effettivamente riscontrabile nella vicenda, non è più raggiungibile definitivamente e in maniera irreversibile, come avviene nel caso classico della mancata o tardiva impugnazione della sentenza da parte dell’avvocato, che con il suo inadempimento abbia determinato il passaggio in giudicato della relativa sentenza.

  Diversamente ragionando si corre il rischio di occultare, dietro il criterio della valutazione secondo la ragionevole probabilità di riuscita o di successo dell’occasione persa, giudizi rimessi alla pura ed incontrollate discrezionalità del giudicante.

  Spesso infatti quello che viene indicato come danno da perdita di chance è il risultato, ovvero il riflesso, sulla sequenza causale favorevole, di una mera situazione di fatto insuscettibile di essere valutata ai fini della quantificazione del danno, poiché tale situazione e gli eventuali interessi sottostanti, in quanto privi di riconoscimento da parte dell’ordinamento, possono tutt’al più contribuire ad arricchire la valutazione del danno subito per la lesione di una situazione giuridica soggettiva e quindi possono risultare utili solo quali meri indici per quantificarne la determinazione a fini risarcitori.

  Se l’interruzione della sequenza causale riguarda un fatto e non una situazione giuridica soggettiva, essa è priva di rilevanza ai fini della quantificazione del danno da occasione perduta, poiché la rilevanza del fatto interruttivo nulla ha sottratto alla parte che sperava o confidava nella compiuta realizzazione della sequenza, essendosi tale rilevanza limitata ad impedire il raggiungimento di un determinato risultato, il cui conseguimento, salve determinate ipotesi, seppure possibile e forse anche prevedibile non era in ogni caso certo.

  E’ del pari evidente che, per la stessa natura e radice terminologica del concetto di chance, il suo impiego può prestarsi ad un uso superficiale, ovvero indefinitamente esteso fino a ricomprendervi tutte quelle situazioni che si pongono al limite fra il possibile e il probabile, di modo che ogni auspicio, speranza o mera aspettativa da puro interesse di fatto diventi situazione giuridica da tutelare, facendo così rientrare nell’ambito del “risarcibile” ciò che invece vi è ontologicamente e giuridicamente estraneo.

  Situazione che si verifica a maggior ragione quando l’interruzione del nesso di causalità avvenga a causa di un fatto imputabile alla parte che assuma, in un secondo momento, di essere stata lesa dall’occasione perduta.

  Come nel caso di chi, soccombente in appello, dopo aver concluso una transazione e quindi aver rinunciato in ragione della stessa ad impugnare con il mezzo del ricorso per cassazione la sentenza di secondo grado, assuma successivamente di aver perso una chance, in ordine alla possibilità di concludere al meglio la transazione, in ragione della menomazione della propria libertà di contrarre, dovuta ad un fatto corruttivo, che ha inciso sulla decisione assunta in quella sentenza, e del quale non era a conoscenza quando è stato concluso il negozio transattivo.

  E’ infatti evidente che in tal caso, diversamente da quanto ritenuto in giurisprudenza, non si pone un problema di perdita di chance, per indebolimento della propria posizione negoziale in sede di transazione, ma assai più semplicemente è la decisione di aver concluso la transazione che ha definitivamente e inevitabilmente impedito che l’eventuale chance potesse perfino sorgere.

  Testo della relazione svolta al Secondo Corso di Alta formazione sul diritto romano per docenti della Reppubblica Popolare Cinese, e pubblicato in cinese, con autorizzazione d’autore, in Digesta (Xue Shuo Hui Zuan), vol. IV, Pechino, 2012.

  ENRICO GABRIELLI

发布时间:2013-03-05  
 

Centro di studio del diritto romano e italiano presso Universita
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