Francesco Donato Busnelli
emerito di Diritto civile
Scuola Superiore Sant’Anna (Pisa)
Fatti illeciti e responsabilità civile:
criteri di identificazione e profili di diversificazione
(prendendo spunto dalla Legge cinese 26 dicembre 2009)
1. Chi osservi i moderni indirizzi legislativi in materia di responsabilità extracontrattuale, in Europa e nel mondo, non tarda ad accorgersi di un fenomeno diffuso e crescente: la progressiva evaporazione della dimensione dell’illiceità, considerata fin dal diritto romano come concetto fondamentale in materia.
Nei trattati si scrive “fatti illeciti”, ma si legge “responsabilità civile”; il risarcimento del danno non è più una “sanzione”, ma risponde a un sostantivo di nuovo conio: “compensazione”; esso mira, appunto, a “compensare” il pregiudizio subito dalla vittima, non serve a punire il trasgressore.
Scopo della presente relazione non è però quello di restaurare una responsabilità extracontrattuale inscindibilmente collegata al fatto illecito.
E’ piuttosto quello di ricercare quali possano esse, oggi, i rapporti tra fatto illecito e responsabilità extracontrattuale: se le conseguenze di un fatto illecito possono essere diverse da quelle regolate dalla disciplina della responsabilità extracontrattuale; se, in senso opposto, esistono ipotesi di responsabilità extracontrattuale che non dipendono da un fatto illecito; se l’illiceità del fatto può produrre conseguenze non meramente risarcitorie; se, infine, la responsabilità extracontrattuale debba continuare a distinguersi radicalmente dalla responsabilità contrattuale.
Va detto subito che spunti preziosi per questa ricerca sono offerti dall’ultima legge che, al livello mondiale, si propone di disciplinare in maniera organica il settore in esame: la legge cinese del 26 dicembre 2009.
Il Cap. II, dedicato al “fondamento della responsabilità e ai metodi della relativa assunzione” descrive all’art. 15 le conseguenze di un fatto illecito diverse dal risarcimento del danno: porre fine alla lesione; rimuoverne gli effetti; eliminare il pericolo; restaurare la proprietà o l’originaria condizione o stato della vittima; fare atto di pentimento.
Il Cap. V, nel disciplinare la responsabilità del produttore, dispone che se i prodotti vengono fabbricati e venduti con conoscenza dei difetti e ne derivi la morte o un grave danno alla salute di altri, la vittima ha il diritto di agire “per i danni punitivi secondo la legge”.
Nei Capitoli VIII e IX vengono disciplinate ipotesi di responsabilità che non dipendono da un fatto illecito. Il Cap. IX, in particolare, stabilisce all’art. 69 che “chiunque intraprende un lavoro che comporta un alto grado di pericolo e causa danno ad altri è considerato responsabile”.
Il Cap. V e il Cap. VI, dedicato alla responsabilità medica, lasciano intravedere un superamento della distinzione tra le due responsabilità (contrattuale ed extracontrattuale).
2. La categoria giuridica del “fatto illecito”, nonostante l’apparenza evocatrice di risalenti tradizioni, è una novità del codice civile italiano del 1942: il quale vi si riferisce una prima volta in apertura del Libro quarto, inserendolo tra le “fonti delle obbligazioni”, accanto al “contratto” e a “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico” (art. 1173), e una seconda volta in apertura del Titolo IX dello stesso Libro, dedicato ai “fatti illeciti” e a sua volta aperto da una norma (l’art. 2043) che ne fornisce una definizione espressamente orientata, fin dalla rubrica – “risarcimento per fatto illecito” -, alla disciplina degli effetti risarcitori.
La definizione offerta dall’art. 2043, anch’essa innovativa, non consente all’interprete, che si attenga alla sua formulazione letterale, di sciogliere i dubbi che nascono dall’esigenza di mettere a fuoco il preciso significato e l’esatta collocazione sistematica della categoria.
Non chiarisce, anzitutto, se esista un’unica figura di “fatto illecito”, avente come modello di riferimento tale definizione, o se si debbano invece distinguere, all’interno del Titolo IX, più “fatti illeciti” diversamente strutturati.
Non risolve, poi, il problema del rapporto tra “fatti illeciti” e “responsabilità” – categoria, questa, non espressamente definita e tuttavia postulata, fin dalla rubrica, dagli artt. 2048, 2049 e 2050 – non consentendo di stabilire se, secondo l’intenzione del legislatore, la “responsabilità” abbia necessariamente per fonte un “fatto illecito” o possa configurarsi quale effetto di un “altro atto o fatto idoneo a produrre obbligazioni” ai sensi dell’art. 1173.
Non risolve, infine, il problema inverso: ossia se quest’ultima norma, individuando il “fatto illecito” come “fonte di obbligazioni”, debba interpretarsi come mera norma di rinvio all’art. 2043 o possa configurarsi anche come possibile fonte di obbligazioni non risarcitorie.
3. Occorre, allora, andare “oltre” la formulazione letterale della definizione offerta dall’art. 2043 per tentare di ricostruirne le fondamenta storiche e gli obiettivi innovativi verosimilmente perseguiti dal legislatore del 1942..
L’obiettivo più vistoso – ma forse meno significativo di quanto correntemente si ritiene - - consiste nel definitivo distacco dal paradigma romanistico dei “delitti” (e dei “quasi-delitti”) che dal Code Napoléon era passato intatto nel codice civile del 1865 (artt. 1097, 1151 ss.), ancora animato dall’intento di conservare, almeno formalmente, un diretto raccordo con l’impostazione penalistica della romana Lex Aquilia.
“Fatto illecito” vuol essere una categoria generale, idonea ad affrancarsi decisamente dall’esemplificazione casistica che ancora era dato riscontrare nel “pionieristico” codice civile prussiano del 1794 – un vero e proprio “Fall-Regel-Recht” di stampo romanistico, con i suoi 138 articoli dedicati alle molteplici “unerlaubten Handlungen” - , ma che scompare già con la stesura definitiva del Code Napléon a seguito dell’affermazione, nel corso della discussione al Consiglio di Stato, del criterio “que l’énonciation du principe suffit; que les exemples doivent être retranchés” .
Ma vuol essere al tempo stesso una categoria subordinata rispetto a quella, primaria, degli “atti leciti”. E ciò in omaggio a quella che è stata chiamata la “rivoluzione kantiana”, che segna il passaggio dal principio secondo cui il legislatore deve proibire tutto, salvo quanto è espressamente autorizzato da una norma, al principio opposto secondo cui tutti gli atti si presumono leciti, salvo quelli che il legislatore considera illeciti.
E’ questa, forse, una delle ragioni che spiegano, anche se non giustificano pienamente, la scelta del legislatore italiano del 1942, che ha preferito “la denominazione di ‘fatti illeciti’, anziché quella di ‘atti illeciti’, perché – così motiva la Relazione al codice – con la voce ‘atti’ si sono designati i negozi giuridici”. La spiegazione, chiaramente influenzata dal dogma – ancora imperante - della volontà individuale, non convince più di tanto: il “fatto illecito” è comunque un “fait de l’homme”, e quindi un atto, mai un mero fatto; e come “atto” deve essere qui considerato.
L’illiceità - concetto non espressamente definito dall’ordinamento italiano, ma dallo stesso variamente menzionato - vale a caratterizzare l’atto come “compiuto in violazione di diritti” e come tale suscettibile di provocare una responsabilità “secondo le leggi penali, civili e amministrative” (art. 28 Cost.).
Due sono, dunque, i tratti che lo caratterizzano: il profilo sanzionatorio insito nella reazione a un’avvenuta “violazione” di diritti; il necessario riferimento alla “legge” per l’accertamento giurisprudenziale di una tale violazione. Non compare un riferimento al tipo di sanzione; e tanto meno un collegamento necessario con il risarcimento del danno. Né entra direttamente in considerazione la colpa del trasgressore come necessario presupposto.
Singolare è la coincidenza con l’art. 7 della legge cinese, ai sensi del quale “se una persona lede diritti e interessi altrui, e una norma specifica che deve assumerne la responsabilità, questa norma è vincolante, sia essa persona in colpa o meno”.
4. Queste sono le scarne, ma significative, indicazioni normative che possono implicitamente trarsi dalla Costituzione.
Esse consentono anzitutto di rispondere al quesito prospettato al termine del paragrafo 2. L’art. 1173, individuando il “fatto illecito” come “fonte di obbligazioni”, non deve interpretarsi come mera norma di rinvio all’art. 2043, ma si configura al tempo stesso come fonte autonoma – ossia svincolata dal presupposto della colpa e dall’esistenza di un danno – di obbligazioni non risarcitorie. Esemplare, al riguardo, è la sanzione inibitoria: la quale, paradossalmente, è venuta assumendo nei tempi recenti una crescente importanza strategica in parallelo, apparentemente, con una crescente disattenzione della dottrina che sembra talvolta dimenticare – e, comunque, non riconnettere al fatto illecito – le norme del codice (artt. 7, 9, 10; art. 2599) che contemplano detta sanzione con riferimento alla violazione di diritti fondamentali. La legge cinese, che all’art. 17 sistematizza tale sanzione, potrebbe essere di stimolo a riconsiderare la stessa nel quadro di una concezione del fatto illecito non necessariamente legato ai presupposti e agli effetti contemplati dall’art. 2043.
Ma, all’interno di quest’ultima norma, le suddette indicazioni normative consentono all’interprete di riconsiderare il collegamento stretto tra le due “novità” introdotte dal codice vigente: il carattere “illecito” del “fatto” e il connotato di “ingiustizia” del danno che lo caratterizza.
E’, questo, un ritorno, più o meno consapevole, al diritto romano. L’illiceità dell’atto, ignorata dalla definizione dell’art. 1382 del Code civil francese (e dell’art. 1151 del codice del 1865), torna a costituire il nucleo essenziale della definizione introdotta dall’art. 2043; e lo fa distaccandosi dalla formula tipizzante della unerlaubte Handlung (che dall’ALR prussiano del 1794 è passata nel BGB tedesco del 1900) o della widerrechtlichen Handlung dell’ ABGB austriaco del 1811, per ricollegarsi direttamente alla nozione di iniuria, che già nella Lex Aquilia, nel delineare “un profilo di una condotta già descritta, e già qualificata come lesiva di un diritto … risulta orientata a cogliere l’ingiustificatezza della condotta”, per sfociare poi nella sintesi ulpinianea, secondo cui “quod non iure factum est, hoc est contra ius”.
Ulpiano aggiungeva peraltro un nesso di apparente immedesimazione con la colpa (“ … id est si culpa quis occiderit”), destinato ad alimentare con l’avvento delle moderne codificazioni una crescente “ambiguità dei rapporti tra illiceità e colpa”: se ne può cogliere ancora oggi una vistosa traccia nell’alternativa tra le due principali soluzioni “moderne”: quella che dall’ALR prussiano e dall’ABGB austriaco giunge fino al BGB tedesco, ove illiceità e colpa vengono menzionate come presupposti a sé stanti della responsabilità; e quella adottata dal Code civil francese che con il suo silenzio in ordine all’illiceità sembra soppiantare tale presupposto a favore di un principio autosufficiente di colpa, direttamente affidato all’esperienza giurisprudenziale.
Ma l’alternativa celava, a ben vedere, un processo storico già da tempo avviato di declino dell’illiceità e di avvento della colpa. Invero, se per un verso l’art. 1382 del Code civil, e la sua traduzione letterale nell’art. 1151 del codice italiano del 1865, è stato visto dagli stessi romanisti come una “rottura più o meno palese dei ceppi della tradizione romanistica” in favore di un “principio della colpa di matrice giusnaturalistica”, modellato sul “tipo ideale” di individuo elaborato da tale cultura, per altro verso l’appello alla colpa come simbolo di una “moralisierende Funktion des Schadensrechtentes” dei Glossatori nel quadro del nascente dogma del “Volontarismus” e della generale “Entprivatisierung des Privatrecht” non ha mancato di farsi sentire anche là dove non è scomparso il riferimento all’illiceità, se è vero che l’ALR prussiano accordava alla colpa “une place de choix” e che l’ABGB austriaco “mit la faute en avant et reléguait l’illicéité”.
L’introduzione, da parte dell’art. 2043 del codice vigente, di un asse portante idoneo a collegare l’illiceità dell’atto con l’ingiustizia del danno impone all’interprete di riconsiderare anche il rapporto tra illiceità e colpa, superando l’ostacolo della conclamata immedesimazione per aprire le porte, nel quadro di un imprescindibile principio di tipicità, a un risarcimento del danno che da “rimedio” – altro sostantivo di nuovo conio - diviene “sanzione” , come tale idonea anche a punire violazioni di diritti ritenute dal legislatore particolarmente gravi.
Insomma, non bisogna in via pregiudiziale aver paura dei “danni punitivi”, come categoria capace di scardinare il sistema.
4. Eppure tutto sembrerebbe muoversi in senso contrario.
Ne è prova eloquente una sentenza della Corte di Cassazione che, nel negare il riconoscimento di una decisione nordamericana di risarcimento dei punitive damages per contrarietà all’ordine pubblico interno, si spinge ad affermare che nel nostro sistema “l’idea della punizione e della sanzione [sic!] è estranea al risarcimento del danno, così come è indifferente la condotta del danneggiante”. Detta sentenza ricalca quasi pedissequamente nella motivazione le argomentazioni addotte allo stesso fine da una sentenza tedesca del 1992, con la quale il Bundesgerichthof, nel negare l’exequatur a una pronuncia statunitense di condanna di un cittadino tedesco – che in primo grado era stata dichiarata esecutiva dal Landgericht di Dusseldorf – aveva affermato che la natura di “pena privata” dei punitive damages si pone in contrasto con i princìpi fondamentali dell’ordinamento tedesco, in quanto il Grundgesetz sancisce il monopolio del giudice penale in materia di sanzioni. Ciò facendo, il Bundesgerichthof aveva modificato anche la pronunzia di secondo grado con cui l’Oberlandesgericht di Dusseldorf aveva semplicemente decurtato l’ammontare del risarcimento, giudicato “grossly excessive”, senza peraltro discutere l’an. Il cerchio si è chiuso, poi, nel 1994 con l’avallo del Bundesverfassungsgericht: il quale ha però ammesso che i danni punitivi possono tendere a finalità compatibili con i princìpi dell’ordinamento tedesco, quando essi comprendono in sé il ristoro dei danni morali.
All’attenzione scrupolosa per l’indirizzo giurisprudenziale tedesco, considerato come particolarmente significativo dalla nostra Corte di cassazione, fa da contrasto la mancata considerazione – consapevole o casuale? - di una non meno significativa sentenza pronunziata dal Tribunal Supremo spagnolo: la quale, nel concedere l’exequatur a una decisione texana, pur mostrando di non ignorare che “no sempre es fàcil … delimitar el quantum correspondiente a esa sanción coercitiva”, giunge alla conclusione che “no puede hablarse de los daños punitivos como una entitad atentatoria para el orden publico”, in quanto “los referidos ‘punitive damages’ han utilizado la responsabilidad civil como ente del derecho privado, como un menoscabo del derecho punitivo, lo que esta totalmente de acuerdo con la doctrina de la intervención mìnima en el indicado ambito penal”.
La mancata considerazione della sentenza emanata dal Tribunal Supremo spagnolo non deve, tuttavia, sorprendere più di tanto. Sorprende di più la circostanza che i quindici anni trascorsi dalla sentenza della Suprema Corte tedesca a quella della consorella italiana sembrano non aver lasciato alcuna traccia del processo di “costituzionalizzazione” dei punitive damages avvenuto negli States proprio in quegli anni di drastica “cura dimagrante” inferta all’ammontare “grossly excessive” dei risarcimenti tradizionali, poi sfociata, con la decisione del “caso Baker” (2008) in una massima che sembrerebbe perfettamente compatibile con il principio dell’ordine pubblico (anche interno): “the common sense of justice would surely bar penalties that reasonable people would think excessive for the harm caused in the circumstances”.
Chi, in dottrina, ha inteso affrontare il problema all’interno dell’art. 2059 – che prevede la risarcibilità del danno non patrimoniale nei casi previsti dalla legge - suggerendone una lettura in chiave di pena privata, ha proposto di interpretare il “risarcimento” di cui parla la norma quale “riparazione”, muovendo dalla premessa che il risarcimento postulerebbe una funzione esclusivamente compensativa.
La stessa premessa sembrerebbe aver indotto, ora, il Regolamento europeo n. 864/2007 “sulla legge applicabile alle obbligazioni extracontrattuali (Roma II) a adottare l’infelice espressione “danni non risarcitori”. In realtà, i danni stricto sensu punitivi, per loro natura, si ribellano ad una artificiosa qualificazione in termini risarcitori o riparatori. Rileva, qui, la criptica anfibologia del termine “danni”, che meglio si evidenzia nella dichiarata ambivalenza del termine “damages”: il quale vale a designare, al tempo stesso, i pregiudizi e i “remedies”. Orbene di rimedi, rectius di sanzioni civili, si intende discutere quando si parla di danni stricto sensu punitivi: “danni” (intesi come misure sanzionatorie) che non sono qualificabili come pregiudizi sofferti dalla vittima dell’illecito, ma che rilevano in quanto addossati all’agente allo scopo di punire la sua condotta gravemente lesiva: di qui la giustificazione della loro qualificazione come “pene private”.
In questi limiti, può dirsi che, in un sistema dominato dalla “compensazione”, sopravvive - se ci si riferisce all’art. 2059 nel suo raccordo privilegiato con l’art. 185 c.p. - o nasce - se ci si riferisce alle recenti norme che prevedono misure sanzionatorie in sede di responsabilità endofamiliare (art.709 cod. proc. civ.) o di tutela giurisdizionale contro la discriminazione - una prospettiva di deterrenza quale coerente finalità dell’illecito.
Dilatarne la portata, fino a suggerire frettolose equazioni con i punitive damages del sistema nordamericano, è atteggiamento culturalmente sconsiderato oltre che operativamente improvvido.
Valorizzarne gli effetti appare invece senz’altro opportuno, anche perché “una responsabilità civile che non accarezzi la deterrenza non è una vera responsabilità civile”.
La legge cinese sembra andare in tale direzione parlando espressamente di “danni punitivi” sia pure limitatamente al settore della responsabilità da prodotti.
Attribuire alla discussa categoria dei danni punitivi carattere generale pone comunque il problema dell’individuazione dei presupposti e delle modalità della loro possibile rilevanza. Nulla poena (privata) sine previa lege, anzitutto.
Il legislatore dovrebbe formulare regole chiare in tre direzioni.
Dovrebbe anzitutto chiarire che la regola all’uopo dettata ha funzione prettamente sanzionatoria; è sganciata da un diretto riferimento all’effettivo pregiudizio (eventualmente) subito dalla vittima dell’illecito, ma deve raccordarsi con la gravità dell’offesa arrecata.
Dovrebbe, altresì, procedere a una rigorosa tipizzazione dell’illecito o degli illeciti a cui intende riferirsi, e eventualmente indicare parametri prefissati di quantificazione, al fine di assicurare obiettivi di legalità e di certezza compatibili con i princìpi generali del diritto civile.
Dovrebbe, infine, dettare criteri operativi per una corretta applicazione, caso per caso, della regola. Può risultare utile a questo riguardo, come precedente legislativo, la criteriologia dettata dal nuovo Codice civile del Quebec “lorsque la loi prévoit l’attribution de dommages-intérêts punitifs” (art. 1621). Tali danni (rectius, la relativa condanna) “ne peuvent excéder, en valeur, ce qui est suffisant pour assurer leur fonction préventive” (comma 1), e si apprezzano tenendo conto di tutte le circostanze appropriate, e in particolare della gravità dell’elemento soggettivo della condotta dell’offensore, della sua situazione patrimoniale o dell’ammontare del risarcimento a cui è già obbligato nei confronti della vittima, e infine della sussistenza o meno di una copertura assicurativa (comma 2).
Al livello di progetti, di “dommages-intérêts punitifs” parla l’Avant-projet francese “de réforme du droit des obligations” in una norma (l’art. 1371), inserita nella Sezione dedicata al risarcimento dei danni, che tiene a distinguerli nettamente dai “dommages-intgérêts compensatoires” in virtù di profili peculiari – la non assicurabilità, la facoltà (demandata al giudice) di farne beneficiare parzialmente il Tesoro pubblico – che non sono facilmente riconducibili alla struttura dell’obbligazione risarcitoria. In particolare, la non assi curabilità viene ritenuta “indispensable pour donner à cette condamnation la portée punitive qui constitue sa raison d’être”. E’ stato al riguardo evidenziata, qui, la scelta di “una soluzione diversa da quella della maggioranza degli Stati americani”: il che rivela senza dubbio un aspetto nevralgico della difficile trasferibilità in Europa del concetto nordamericano dei punitive damages.
5. Parlare di fatti illeciti con riferimento alla previsione normativa di una responsabilità per danni da attività pericolose è quanto meno improprio: manca infatti la dimensione di illiceità dell’attività svolta; e l’orientamento emergente dai più recenti sistemi normativi che prevedono tale responsabilità è nel senso di non richiedere neppure la colpa del danneggiante, ma di stabilire piuttosto dei criteri di graduazione della pericolosità.
Se ne ha piena conferma nella Legge cinese del 2009, che prevede una responsabilità del danneggiante a prescindere dalla colpa dello stesso, e dunque una responsabilità oggettiva, semplicemente condizionata al presupposto di “un alto grado di pericolo”.
Ancora più rigorosa è la disciplina del “Novo Còdigo Civil” brasiliano, che “obbliga a risarcire il danno, indipendentemente dalla colpa, quando un’attività normalmente svolta dal danneggiante implica, por sua natureza, un rischio per i diritti altrui” (art. 927, Par. único).
In Europa, i codici tradizionali (il BGB tedesco e il Code civil francese) non prevedevano al riguardo una specifica disciplina normativa; sì che all’ipotesi in esame si estendono le regole generali sui fatti illeciti.
Il codice italiano del 1942 è stato, in Europa, il primo codice civile a prevedere un’espansione della responsabilità civile al settore dei danni derivanti dall’esercizio di attività pericolose, mediante una norma – il già ricordato art. 2050 – che si pone, per così dire, a cavallo tra responsabilità per colpa e responsabilità oggettiva.
Nel suo contributo ai Gutachten, pubblicati or sono trent’anni in un primo tentativo di riforma dello Schulrecht, Hein Kötz ebbe ad attribuire a detta norma, forse con eccessiva generosità, natura di vera e propria clausola generale in materia di Gefährdungshaftung, lamentandone l’assenza nel BGB, e perorando una modifica legislativa diretta a introdurre una, sia pur “partielle, Generalklausel” . Ma la perorazione non è stata accolta dalla riforma tedesca del 2002; e le ipotesi di Gefährdungshaftung continuano rimanere disseminate nelle leggi speciali.
In Francia, invece, le cose potrebbero cambiare: l’Avant-projet di riforma già menzionato propone l’introduzione di una norma che, pur limitando il proprio ambito di operatività alle attività anormalmente pericolose, prevede per i danni derivanti da queste ultime una responsabilità strettamente oggettiva, lasciando quindi verosimilmente che le altre attività pericolose ricadano a seconda dei casi nell’ambito di operatività della più blanda responsabilità oggettiva per fait des choses, o finalmente in quello della responsabilità per colpa.
Il criterio della graduazione della pericolosità alla stregua della soglia della (a)normalità è adottato anche dai Principles redatti dall’European Group of Tort Law, ma con un diverso obiettivo: quello di prevedere senz’altro una responsabilità oggettiva per i danni derivanti da un’attività anormalmente pericolosa (art. 5:101), lasciando che i diritti nazionali possano estendere la responsabilità, che rimane però pur sempre oggettiva, “anche se l’attività non è anormalmente pericolosa” (art. 5:102).
Nessuno di questi criteri coincide con quello prescelto dall’art. 2050: il quale rifugge tanto da graduazioni di pericolosità quanto da qualificazioni rigide della responsabilità; ma, con la sua formula elastica in ordine all’esonero dalla responsabilità (la prova “di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno”), affida al giudice un ampio margine di manovra, consentendogli di spaziare all’interno di un arco di soluzioni che, in relazione alla peculiarità del caso concreto, vanno dalle ipotesi in cui appare ragionevole configurare una responsabilità soggettiva con inversione dell’onere della prova della colpa alle ipotesi in cui si impone, invece, un’interpretazione in termini di responsabilità oggettiva.
E’ da escludere comunque – per rispondere al quesito posto al termine del par. 2 – che una tale responsabilità abbia per fonte un fatto illecito.
6. La scelta operata dalla Legge cinese del 2009 di inserire due ipotesi, per così dire, a cavallo tra la responsabilità contrattuale e la responsabilità extracontrattuale – la responsabilità del produttore (Cap. V) e la responsabilità medica (Cap. VI) – lascia intravedere, come si è già accennato, un indirizzo di superamento della distinzione tra le due responsabilità nella direzione di un sistema generale di responsabilità civile.
E’, questo, un indirizzo che si va diffondendo, non senza contrasti, anche in Europa, ove tuttavia, de iure condito, continua a dominare il modello tradizionale di una responsabilità extracontrattuale tributaria della disciplina della responsabilità contrattuale, che dal Code civil era passato in Italia al codice civile del 1865 e, con qualche ritocco, al codice vigente.
Netta è la virata impressa, in Francia, dall’Avant Projet di riforma: nel Libro III – che non parlerebbe più “Des contrats ou des obligations conventionnelles en général” ma semplicemente “Des obligations” – verrebbe introdotto un Sotto-titolo III, dedicato alla “responsabilité civile” e aperto da una disposizione preliminare che pone sullo stesso piano “tout fait illicite ou anormal” e “toute inexécution d’une obligation contractuelle”. Si prospetta, dunque, un concetto generale e unitario di responsabilità civile, nel quale rientra, sia pure con le particolarità del suo regime normativo, anche la responsabilità contrattuale, in ragione del fatto che “essa postula un inadempimento, ossia – spiega Geneviève Viney – un fait illicite, au sense large”.
Questo rapporto tra genus e species, del resto, non è né nuovo né isolato.
In Francia, è trascorso già mezzo secolo da quando Jean Carbonnier osservava che, se è vero che un tempo “on partait des contrats, et les délits venaient à la suite, … à notre époque le rapport s’est inversé: la responsabilité contractuelle est devenue tributaire de la délictuelle”.
Non mancano, peraltro, sistemi normativi che non soltanto accolgono un concetto generale e unitario di responsabilità civile, ma si spingono fino all’unificazione piena dei relativi regimi: è il caso del “nuovo codice civile olandese” che, all’interno del Libro 6 (dedicato alla “parte generale del diritto delle obbligazioni”), riunisce nel Titolo I (sulle “obbligazioni in generale”) le norme sulle “obbligazioni legali di risarcimento del danno”, facendo seguire al Titolo III la disciplina dell’atto illecito e al Titolo V quella dei contratti in generale.
Al livello di progetti, poi, può menzionarsi il “Proyecto de Codigo Civil” argentino, che nella norma introduttiva del Titolo IV del Libro IV, dedicato alla “responsabilità civile”, stabilisce che “las disposiciones de este Titulo son aplicables cualquiera que sea la fuente del deber juridico de cumplir o de reparar el daño” (art. 1581).
Sembrerebbe, in questi casi, realizzarsi fin da ora quella che André Tunc ha chiamato “l’unification désirable des règles gouvernant les deux responsabilités”.
Ma perché questo desiderio trovi in Europa un’unanimità di consensi il cammino è ancora lungo e incerto.
Può forse venire proprio dal nuovo diritto cinese un ulteriore impulso in questa direzione?
Testo della relazione svolta al Secondo Corso di Alta formazione sul diritto romano per docenti della Reppubblica Popolare Cinese, e pubblicato in cinese, con autorizzazione d’autore, in Digesta (Xue Shuo Hui Zuan), vol. IV, Pechino, 2012.