Articolo di Giuseppe Mommo 17.09.2007
pubblicato con l-autorizzazione dell-autore
Nonostante le polemiche circa l’ammissibilità morale e legale del “testamento biologico”, ovvero delle cosiddette “direttive anticipate”, esiste la possibilità (non solo teorica!), per ogni persona in procinto di sottoporsi a un delicato e rischioso intervento medico-chirurgico, di pretendere e ottenere un “ampliamento del consenso informato”, con l’aggiunta della dichiarazione del rifiuto di qualsiasi forma di accanimento terapeutico.
Il testamento biologico come possibile estensione del consenso informato
di Giuseppe Mommo
Sommario: 1. Consenso informato e mancato consenso alle cure vitali. - 2. Ambito di legittimità e definizione di accanimento terapeutico - 3. La deontologia medica vieta l’accanimento terapeutico - 4. Opinione pubblica e organi giurisdizionali favorevoli ad una legge sul testamento biologico. - 5. Una nuova formulazione del consenso informato può rappresentare una soluzione (in attesa della legge sul testamento biologico)? - 6. Il modulo per il testamento biologico proposto dalla “Fondazione Umberto Veronesi”
1. Consenso informato e mancato consenso alle cure vitali.
L’istituto del consenso informato, che rappresenta il diritto del paziente di scegliere, accettare o anche rifiutare le cure ed i trattamenti che gli vengono proposti, ha negli ultimi anni sostanzialmente spostato il potere di decisione dal medico al paziente, mutando profondamente il modo di intendere il rapporto.
Si basa sul fatto che la Costituzione garantisce all’articolo 13 l’inviolabilità della libertà personale (intesa pure come libertà fisica e morale) ed al successivo articolo 32 tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, fissando il principio secondo cui nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario contro la sua volontà, se tale trattamento non è previsto come obbligatorio “per disposizione di legge”.
E’ormai unanimemente accettato, quindi, che la salute è un diritto fondamentale e che in mancanza del consenso (valido) del malato qualsiasi cura o terapia deve ritenersi priva di legittimità.
Il principio individuato dalla locuzione “consenso informato” si è gradualmente affermato in giurisprudenza, soprattutto dopo che i giudici di legittimità nel lontano 1967 ebbero a stabilire che prima di ogni “trattamento medico-chirurgico suscettibile di porre in grave pericolo la vita e l’incolumità fisica” era necessario acquisire il consenso e che per essere considerato “valido” doveva essere preceduto dalle informazioni circa le potenziali cause d'inefficacia della operazione chirurgica (Cassazione sezione III 25 luglio 1967 n. 1945).
Si può aggiungere che, dal punto di vista legislativo, a dare valore alla volontà del paziente, oltre ai principi costituzionali richiamati, esiste soltanto la previsione dell’articolo 33 della legge 833/1978, invero abbastanza generica, secondo cui “gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari”.
La disposizione della legge 833/1978 è stata interpretata concordemente dai giudici nel senso che deve escludersi “la possibilità d'accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà e il consenso del paziente, se questo è in grado di prestarlo” (tra le ultime decisioni v. App. Roma Sez. II, 22 giugno 2006; Cass. civ. Sez. III, 14 marzo 2006, n. 5444; App. Roma Sez. III, 24 gennaio 2006; Trib. Bologna Sez. III, 30 dicembre 2004; Cass. civ. Sez. III, 30 luglio 2004, n. 14638).
In mancanza di una norma di specificazione, che definisca, delimiti e caratterizzi il consenso che il malato deve esprimere e l’informazione che il medico deve fornire, la giurisprudenza costituisce un fondamentale punto di riferimento per quanto riguarda il contenuto della locuzione “consenso informato”.
C’è poi da considerare che, dal punto di vista deontologico, anche prima della approvazione del nuovo Codice deontologico dei medici (dicembre 2006) già il Codice del 1995, a proposito di consenso informato (art. 31) prevedeva che “In ogni caso, in presenza di esplicito rifiuto del paziente capace di intendere e di volere, il medico deve desistere da qualsiasi atto diagnostico e curativo, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà del paziente”.
Il caso Welby, ed in tempi più recenti il caso Nuvoli, hanno richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica sul principio dell’autodeterminazione e sulla estensione e i limiti del consenso informato.
In tali particolari situazioni, si è trattato di mancanza di consenso ad una cura vitale, che determinava un “prolungamento artificiale” della vita, ragione per cui è stato inevitabile mettere il (mancato) consenso alle cure in rapporto al tema pietoso del morire.
In tale prospettiva di “fine vita” è stato inquadrato anche dal Tribunale di Roma che, nell’ordinanza emessa a seguito del ricorso in via di urgenza presentato dagli avvocati di Piergiorgio Welby (ordinanza 15-16.12.2006), dopo aver considerato il principio del consenso informato “una grande conquista civile delle società culturalmente evolute”, ha specificato che “esso permette alla persona, in un'epoca in cui le continue conquiste e novità scientifiche nel campo della medicina consentono di prolungare artificialmente la vita, lasciando completamente nelle mani dei medici la decisione di come e quando effettuare artificialmente tale prolungamento, con sempre nuove tecnologie, di decidere autonomamente e consapevolmente se effettuare o meno un determinato trattamento sanitario e di riappropriarsi della decisione sul se ed a quali cure sottoporsi”.
Di fatto, nella realtà attuale, per l’affermarsi del principio della libertà e della volontarietà delle cure sancito dagli artt. 13 e 32 della Costituzione, il malato (fino a quando conserva le facoltà mentali!) ha ogni possibilità di decidere se accettare o rifiutare (“determinate”) cure e terapie.
Il caso Welby (assurto a fatto mediatico) e il caso Nuvoli, hanno sensibilizzato i cittadini sulla delicata questione del “mancato consenso alle cure vitali” facendo trarre la conclusione che il principio relativo alla libertà di curarsi può non valere, soprattutto in Italia, per quelle cure e terapie che siano indispensabili per tenere in vita l’infermo.
E’ apparso infatti evidente che la libertà di scelta del malato (anche terminale) finisce o potrebbe finire (dipende dalla discrezionalità dei medici?), comunque potrebbe incontrare le notevoli difficoltà evidenziate dai media, di fronte al rifiuto di cure vitali o alla richiesta di interrompere trattamenti (palesemente inutili) che servano solo ad un mero prolungamento della vita vegetativa.
In sostanza, si è capito che il malato ha la possibilità di decidere su interventi, cure e terapie; ma si è avuta la conferma che nulla può fare per impedire un (eventuale) “accanimento terapeutico” per mantenerlo in vita.
Anche se il Consiglio Superiore di Sanità ha espresso il parere che le cure a Piergiorgio Welby, ed in particolare il respiratore che lo manteneva in vita, non potevano considerarsi accanimento terapeutico, c’è da dire che come tale veniva percepito dal malato, che era contrario a quella che considerava una ostinazione (indesiderata) in cure inutili.
2. Ambito di legittimità e definizione di accanimento terapeutico
Quanto all’accanimento terapeutico, secondo l’ordinanza del Tribunale di Roma già citata, manca nel nostro ordinamento una “previsione normativa degli elementi concreti, di natura fattuale e scientifica, di una delimitazione giuridica di ciò che va considerato accanimento terapeutico”.
Generalmente si parla di "accanimento terapeutico" quando le terapie non sono finalizzate alla guarigione, ritenuta dai medici impossibile, ma sono volte al mantenimento in vita di pazienti affetti da patologie inguaribili.
Le diverse definizioni fanno riferimento all'applicazione di tecniche mediche che prevedono l'uso di macchinari e farmaci al fine di sostenere artificialmente le funzioni vitali di individui affetti da patologie gravi e tali da determinare la loro morte in assenza dell'impiego di tali tecniche.
Secondo l’Associazione Scienza e Vita si parla di accanimento terapeutico quando gli interventi che vengono attuati non sono più proporzionati alla condizione di malattia in cui si trova la persona. La valutazione può essere basata sul tipo di terapia; sulla proporzione tra mezzo e fine perseguito; sul grado di difficoltà e il rischio; sulle condizioni generali del malato (fisiche, psichiche, morali).
Per il Movimento per la vita italiano con accanimento terapeutico si deve intendere l’ostinazione “futile” a proseguire terapie, che si sono dimostrate inutili o sproporzionatamente gravose per il malato, per il fatto che non migliorano la sua condizione né impediscono la morte per un tempo ragionevole, ma solo prolungano di qualche tempo la vita, imponendo all’ammalato gravi sofferenze.
Anche la Commissione Giustizia del Senato ha proposto una sua descrizione di accanimento terapeutico, dove in chiave più “politichese” che scientifica viene definito “ogni trattamento praticato senza alcuna ragionevole possibilità di un vitale recupero organico funzionale”.
Per quanto riguarda l’accanimento terapeutico, il vero problema può essere quello che manca una legge che ne definisca i contorni, perché sul fatto che si consideri vietato non ci possono essere dubbi.
Anche l’Ordinanza del tribunale di Roma prima citata lo ha evidenziato, “il divieto di accanimento terapeutico è un principio solidamente basato sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona, previsto nel codice deontologico medico, dal Comitato nazionale per la Bioetica, dai trattati internazionali, in particolare dalla Convenzione Europea”.
3. Le deontologia medica vieta l’ accanimento terapeutico
Quanto alla deontologia medica, nel nuovo codice deontologico pubblicato nel dicembre 2006, aggiornato tenendo conto dei temi etici più rilevanti degli ultimi anni, il (già previsto) divieto dell’accanimento terapeutico è stato ribadito con maggiore intensità.
Nel nuovo Codice di deontologia, l’ammalato rimane figura centrale della procedura clinica ed assistenziale, particolare rilievo viene ad assumere la “volontà del paziente” ed il no all'accanimento terapeutico non poteva essere più netto: “Il medico, anche tenendo conto delle volontà del paziente, laddove espresse, deve astenersi dall'ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita” (art. 16).
Un no deciso anche all’eutanasia, perché “Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocare la morte” (art. 17).
Di grande interesse, in relazione al tema dell’autodeterminazione e del valore da dare ad eventuali direttive anticipate, sono gli ultimi due commi dell’articolo 35 che si occupa della “acquisizione del consenso”:
“in ogni caso, in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi, non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”;
“il medico deve intervenire, in scienza e coscienza, nei confronti del paziente incapace, nel rispetto della dignità della persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle precedenti volontà del paziente”.
Il Codice affronta anche la questione della “assistenza ai malati inguaribili” nel CAPO V, che si compone di un solo articolo (art. 39) riguardante “assistenza al malato a prognosi infausta”, dove è stabilito: “In caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve improntare la sua opera ad atti e comportamenti idonei a risparmiare inutili sofferenze psicofisiche e fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità della vita e della dignità della persona”.
Nell’ultimo comma dello stesso articolo 39 si considera il caso di “compromissione dello stato di coscienza”, nel qual caso “il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile evitando ogni forma di accanimento terapeutico”.
Nessun dubbio quindi sul fatto che l’accanimento terapeutico si consideri vietato, il vero problema, come ha sottolineato il giudice del Tribunale di Roma nell’ordinanza più volte citata è quello che nel nostro ordinamento “manca una definizione condivisa ed accettata dei concetti di futilità del trattamento, di quando l'insistere con trattamenti di sostegno vitale sia ingiustificato o sproporzionato”.
4. Opinione pubblica e organi giurisdizionali favorevoli ad una legge sul testamento biologico.
La sofferenza dimostrata dal caso Welby ha contribuito al formarsi e al diffondersi nella società civile di una opinione largamente favorevole all'introduzione di una legge sul riconoscimento del diritto del malato di far cessare terapie per il mantenimento di una vita “artificiale” .
Secondo una indagine effettuata in quel periodo (tra la fine di novembre e i primi di dicembre del 2006), la legge sul testamento biologico è voluta da tre italiani su quattro.
Il dato emerge dal “Rapporto Italia 2007” dell'Eurispes (Istituto di Studi Politici, Economici e Sociali), presentato il 26 gennaio 2007 a Roma, la cui anticipazione è stata presentata il 18 gennaio al Senato.
Stando ai dati raccolti, l’84% degli italiani conosce l’argomento ed il 74,7% è favorevole all'introduzione di una legge sul testamento biologico.
Il 66,2%, ha dichiarato di aver sentito parlare, nell'ultimo anno, di testamento biologico a fronte del 28,5% che ha detto di non conoscere l'argomento.
E’ emerso poi che il blocco di opposizione all'interruzione delle cure nei malati terminali ha perso consensi a favore dell'autodeterminazione del singolo sulle scelte riguardanti la fine della propria vita.
Interrompere le cure che mantengono in una condizione di vita biologica in caso di coma irreversibile è infatti, per il 48,7% degli intervistati, una scelta accettabile se rispecchia la volontà del paziente, e per il 28,6% è un atto di clemenza che risparmia inutili sofferenze.
A parte l’orientamento dell’opinione pubblica, il tema della urgente necessità di una legge è stato toccato, nella relazione di inaugurazione dell'Anno giudiziario, dal primo presidente di Sezione della Corte di Cassazione, Gaetano Nicastro, il quale ha scritto che "rimane ambiguo il concetto stesso di accanimento terapeutico sicché appare indispensabile e urgente un intervento del legislatore che affronti e chiarisca i gravi problemi che sempre più frequentemente si presentano al giurista e al medico".
Ha ammesso che non è semplice rispondere alla domanda su quando può considerarsi "legittimo interrompere il trattamento terapeutico nei malati terminali" perché "Alla soluzione sono indubbiamente connessi profondi problemi etici, che investono il significato stesso della vita umana e diritti ritenuti indisponibili”.
Tuttavia, ha aggiunto, “è difficile appellarsi, allo scopo, alla legge 598/'93, che collega la morte alla cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo, dettata da altri fini, mentre è indubbio che la nostra Costituzione esclude che si possa essere obbligati ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, garantendo il diritto alla salute e contemporaneamente, all'autodeterminazione".
Sulla medesima questione si è pronunciato anche il presidente della Corte Costituzionale, Franco Bile, che rispondendo alle domande dei giornalisti durante la conferenza stampa di inizio d’anno, ha detto che il varo da parte del Parlamento di una legge sui malati terminali, espresso dal presidente anziano di sezione della Corte di Cassazione, è un “auspicio più che condivisibile”, perché “parliamo di un tema all’attenzione dell’opinione pubblica” e occorre fare chiarezza legislativa.
Poi, il presidente della Consulta ha precisato: “quale sarà la scelta del Parlamento e come verrà articolata, questo riguarda un futuro per ora imprevedibile. Sarebbe fuori luogo qualunque anticipazione di giudizio. Quando e se la questione arriverà alla Corte, ce ne occuperemo”.
All’inizio dell’anno, i tempi sembravano ormai maturi per accogliere esplicitamente nel sistema delle leggi il principio del consenso (e del rifiuto) informato, sul diritto del malato ad essere compiutamente informato sulla sua situazione clinica e a decidere, in accordo con il medico, le terapie a cui sottoporsi o a cui rinunciare.
Sembrava allora che il testamento biologico sotto forma di “direttive anticipate” potesse presto diventare legge anche in Italia, visto che le cosiddette living will (direttive anticipate) già sono state regolamentate per legge in altri paesi.
C’è da dire che l’acceso dibattito, seguito al caso Welby, anche se si è incentrato su diverse questioni, ed in particolare sul fatto che fosse stata chiesta l’eutanasia, è servito a far prendere coscienza che, senza una regolamentazione legale dell’accanimento terapeutico e del testamento biologico (detto anche testamento di vita o direttive anticipate o dichiarazione anticipata di trattamento), resta affidata alla discrezionalità dei medici la prosecuzione o meno di cure inutili nel senso che servirebbero solo ad un prolungamento della vita biologica, che potrebbe essere anche molto doloroso e penoso.
Si è pure presa coscienza che le direttive anticipate possono rappresentare uno strumento per garantire il diritto all’autonomia delle scelte a chi dovesse perdere la capacità di intendere e volere e venisse a trovarsi nell’impossibilità di esprimere la sua volontà in merito all’accettazione o al rifiuto delle cure.
Sembrava chiaro, dopo tutto, che si sarebbe trattato di varare una legge per definire l’“accanimento terapeutico”, per legittimare l’autodeterminazione delle terapie vitali, al fine di evitare cure e sofferenze inutili alle persone in grado di decidere e per consentire (in piena libertà) la redazione del testamento biologico a quelle persone che avessero voluto cautelarsi dando delle direttive per il caso di perdita della capacità di comunicare le proprie decisioni.
Non riconoscere il diritto all’autodeterminazione delle terapie neppure al “malato a prognosi mortale in fase terminale ed in grave sofferenza” (Welby), in un'epoca in cui i medici possono prolungare artificialmente la vita, è apparso sotto diversi aspetti un fatto abnorme ed ingiusto.
In altre parole, la situazione determinatasi ha fatto emergere l’attesa da parte della società civile, ma anche di medici, giuristi, notai, esperti di bioetica, di una legge che dovrebbe in primo luogo riconoscere il diritto all’autodeterminazione delle terapie “vitali” sia alle persone in grado di decidere, come pure, attraverso le direttive anticipate (testamento biologico), alle persone che dovessero perdere la capacità di disporre.
Nel riconoscere il diritto del singolo all'autodeterminazione delle terapie, dovrebbe anche offrire una definizione oggettiva e normativa sull'accanimento terapeutico, stabilendo condizioni tendenti ad escludere qualsiasi forma di suicidio assistito e/o di eutanasia, soprattutto per il caso la condizione del malato non fosse quella di malattia terminale.
Nei giorni dell’agonia di Welby ed in quelli che seguirono si è riflettuto anche sul fatto che in tutte quelle situazioni in cui il paziente ed i suoi familiari piombano in una situazione di tribolazione, quando non c’è più la speranza che le cure possano servire a qualcosa, l'interruzione dell'accanimento terapeutico diventa rispettoso della dignità del paziente ma anche di quella dei suoi familiari.
Anzi, si è anche sostenuto che dal punto di vista psicologico l’interruzione della spirale di dolore può servire ad elaborare positivamente il lutto dei parenti, evitando che il ricordo della sofferenza e del degrado fisico prendano il sopravvento sulla dignità dell’uomo.
Sembrò nei primi mesi dell’anno che anche in Italia una legge chiara e ampiamente condivisa sul testamento biologico fosse una necessità improrogabile, anche perché era apparso di tutta evidenza il non senso dell’ostinarsi in cure indesiderate ed inutili, che avevano il solo scopo di prolungare la sofferenza.
Nei giorni che seguirono la vicenda Welby, è stato dato rilievo al fatto che il testamento biologico è regolamentato e tranquillamente utilizzato nei Paesi del Nord Europa (Olanda, Belgio, Danimarca, Germania) e negli Stati Uniti ed anche dal punto di vista politico parlamentare, allora qualche passo si fece perché secondo quanto ha dichiarato qualche tempo dopo la morte di Welby (7.2.2007) il presidente della commissione Sanità di Palazzo Madama, Ignazio Marino, “la legge sul testamento biologico è necessaria proprio per fare chiarezza sull’accanimento terapeutico”.
Essendo anche medico, responsabilmente, ebbe solo a precisare che se da un lato è vero come “una legge sul testamento biologico sia quanto mai necessaria” è pure vero che “vi è una difficoltà ad offrire una definizione oggettiva e normativa sull'accanimento terapeutico” perché “è il rapporto medico-paziente che, caso per caso, aiuta a capire se si è in presenza di accanimento o meno”.
Aggiunse: "Il concetto di accanimento terapeutico è quanto mai soggettivo: ognuno di noi vuole naturalmente essere curato e assistito in ogni fase della propria vita e ne ha il diritto, ma allo stesso tempo, ognuno sa cosa, nella sofferenza più grave, è disposto a tollerare e ad accettare, in termini di cure, per la propria salute e per la propria vita”.
Intervenuto il 13 febbraio ad un convegno sul tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento promosso da Forza Italia, Marino a proposito del testamento biologico ha specificato che “non si tratta di una legge per ‘staccare la spina’, ma per dare a ciascuno la possibilità di scegliere cosa fare alla fine della propria esistenza, quando non ci fosse più alcuna speranza di un ritorno all’integrità intellettiva”.
Ammise che in mancanza di una legge, “il progresso della scienza e della tecnica sempre più spesso ci condurrà ad assistere a casi drammatici, e a difficili scelte, di rilievo etico”.
In sintesi, anche il prevalente orientamento politico dei parlamentari, spinto e sorretto dall’opinione pubblica, sull’onda dell’emozione sembrava orientato nel senso che nel nostro ordinamento non potesse mancare, ed anzi fosse urgente e necessaria, una legge tale da consentire di limitare o escludere l’inutile sofferenza.
Sta di fatto che, per divergenze politiche, religiose e di pensiero, i disegni di legge che già allora giacevano in Parlamento, non sono riusciti ancora a diventare un testo unico da proporre al voto dell'aula.
Ostacolo insormontabile si è rilevata la spaccatura tra laici e cattolici, ma soprattutto il fatto che viene (impropriamente ) sollevato il problema dell’eutanasia.
L’area politica cattolica paventa il rischio che dare valore alle direttive anticipate sia un modo per introdurre surrettiziamente l’eutanasia nel nostro ordinamento.
Fino ad ora sono cadute nel vuoto, autorevoli rassicurazioni come quella più volte manifestata da Umberto Veronesi, direttore scientifico dell'Istituto europeo oncologico di Milano, secondo cui "Il testamento biologico non è altro che l'estensione del consenso informato ed è quindi l'opposto dell'eutanasia".
Mentre la commissione sanità guidata dal Senatore Ignazio Marino continua a lavorare per formulare una proposta da mettere ai voti, si hanno notizie che negli ospedali, nelle cliniche e nelle case private sono molti gli ammalati affetti da gravi malattie degenerative che esprimono il desiderio di non essere sottoposti a cure inutili.
La situazione attuale, ad un anno dal caso Welby, continua ad essere quella che si trascina almeno dal 2001 quando l’Italia ha ratificato la convenzione di Oviedo del 1997, dove è stabilito che “i desiderî precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la propria volontà saranno tenuti in considerazione”, ma non si è ancora provveduto a dare attuazione legislativa interna alla previsione ratificata.
In mancanza di una legge, ogni decisione continuerà a pesare sulla discrezionalità dei medici, che possono avere convinzioni e comportamenti diversi, spetterà comunque a loro “gestire” quello che è stato definito “il prolungamento del processo del morire”.
Si tratterà di una valutazione che non potrà basarsi, almeno per ora, su norme di diritto ma su regole che possono essere quelle della morale, dell’orientamento religioso, più che della deontologia medica.
Recentemente, il caso di Giovanni Nuvoli, finito anche questo sulle pagine dei giornali, ha fatto nuovamente riflettere sulla necessità di evitare situazioni assurde ed ha risvegliato le coscienze sul diritto che ogni persona ha di morire con dignità, senza l’imposizione, da parte dei medici, di un artificiale prolungamento del “processo del morire”.
Nuvoli aveva chiesto, come Welby, il distacco del respiratore sotto sedazione, dopo che la stessa malattia (sclerosi laterale amiotrofica), aveva ridotto un corpo di 184 centimetri a pesare 37 chilogrammi.
Nel caso di specie l’operazione del distacco è stata impedita dalle forze dell'ordine su decisione della Procura del Tribunale di Sassari e l’infermo è morto il 23 luglio scorso, ad una settimana da quando aveva volontariamente smesso di nutrirsi e di bere.
Secondo quanto riferito dalla moglie, si è lasciato morire di fame e di sete aiutato solo con sedativi e al momento del decesso aveva ancora attaccato il respiratore artificiale che lo teneva in vita.
Alcune associazioni che si battono per i diritti del malato, su diversi siti internet, hanno fatto notare che pur di non accogliere la sua richiesta si è preferito farlo morire dalla fame e dalla sete; una morte orribile e che suscita il giusto raccapriccio nella pubblica opinione.
5. Una nuova formulazione del consenso informato può rappresentare una soluzione (in attesa della legge sul testamento biologico)?
Il nuovo Codice di deontologia medica pone, come accennato, la figura del paziente al centro della procedura clinica ed assistenziale e conferisce particolare rilievo alla sua “documentata volontà”.
Riepilogando, per evidenziare alcuni passaggi, a proposito di accanimento terapeutico (art. 16) prevede che il medico “deve astenersi dall’ostinazione in trattamenti diagnostici e terapeutici da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita” e lo stesso articolo prescrive che deve tener conto (anche) “delle volontà del paziente laddove espresse”.
Per quanto riguarda l’informazione (art. 33), “Il medico deve fornire al paziente la più idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive e le eventuali alternative diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate” e nel comunicare con il malato dovrà tener conto “delle sue capacità di comprensione, al fine di promuoverne la massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche”.
In fatto di acquisizione del consenso (art. 35) il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente espresso in forma scritta nei casi previsti dalla legge e nei casi in cui “per la particolarità delle prestazioni diagnostiche e/o terapeutiche o per le possibili conseguenze delle stesse sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione documentata della volontà della persona”.
Qualsiasi attività notevolmente rischiosa per l'incolumità della persona può essere intrapresa “solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso”.
In ogni caso, “non essendo consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona” in presenza di documentato rifiuto di persona capace, il medico deve desistere dai conseguenti atti diagnostici e/o curativi.
Nei confronti del paziente incapace, il medico deve intervenire, in scienza e coscienza, “nel rispetto della dignità della persona e della qualità della vita, evitando ogni accanimento terapeutico, tenendo conto delle precedenti volontà del paziente”.
Tenuto conto di quanto stabilito dalla citata ordinanza del Tribunale di Roma, delle precise indicazioni del nuovo Codice deontologico riguardo l’acquisizione del consenso, di quanto stabilito dalla Costituzione in materia di libertà nella sottoposizione (o meno) a determinati trattamenti sanitari e delle regole e convenzioni che escludono la possibilità di eseguire interventi sanitari contro la volontà del paziente qualora questi sia in grado di prestarla, a giudizio dello scrivente, il contenuto del consenso informato, soprattutto se il paziente ne fa richiesta, potrebbe (dovrebbe!) essere arricchito ed ampliato con le “direttive anticipate” per il caso di possibili complicanze e di compromissione dello stato di coscienza.
Si avrebbe in tal modo una “manifestazione documentata della volontà della persona” con l’indicazione dei suoi desideri e della sua volontà a proposito di eventuali terapie di sostegno vitale che non procurino beneficio per la sua guarigione e dalle quali “non si possa fondatamente attendere un beneficio e/o un miglioramento della qualità della vita”.
Una significativa vicenda dimostra che esiste la possibilità (non solo teorica) per ogni persona in procinto di sottoporsi a un trattamento medico di ampliare il consenso informato, esprimendo le proprie scelte su particolari cure e trattamenti vitali per il caso di sopravvenuta incapacità
Sul sito dell’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti è stata pubblicata la storia di uno psicologo di Genova (storia di Bruno), che circa un anno fa, dovendosi sottoporre ad un delicato e rischioso intervento chirurgico ha sottoscritto il consenso informato a condizione che gli fosse stata data la possibilità di inserire una clausola aggiuntiva.
Seguendo le indicazioni del comitato etico dell’ospedale San Martino di Genova, ha dato il consenso all’intervento, manifestando la propria volontà in merito al rifiuto di eventuali terapie volte al mantenimento di una vita artificiale, qualora in futuro non avesse potuto più farlo.
Il consenso all’intervento è stato subordinato alla accettazione, da parte del comitato etico, della postilla aggiunta contenente il rifiuto, nel caso di stato vegetativo persistente o altra grave inabilità, di ogni forma di accanimento terapeutico (comprese idratazione e alimentazione artificiali) e di qualsiasi cura inefficace per la guarigione, come la rianimazione.
Secondo l’Associazione UAAR, il caso dello psicologo di Genova è stata l’occasione per smascherare l’inconsistenza degli argomenti contro il testamento biologico (come estensione del consenso informato) e per sottolineare il raggiungimento di importanti risultati.
Seguendo l’esempio dello psicologo di Genova, chi debba sottoporsi a delicati interventi chirurgici e quindi esporsi al rischio statistico di un esito anomalo con conseguente grave inabilità della persona, quale ad esempio uno stato vegetativo persistente, potrebbe inoltrare richiesta al Comitato Etico della struttura ospedaliera per fare aggiungere al consenso informato il rifiuto di consenso all’accanimento terapeutico, cioè la richiesta che ogni cura estrema e inefficace sul piano della guarigione venga sospesa o addirittura non intrapresa.
Quindi, con il consenso informato si autorizzerebbe il medico ad effettuare l’intervento; ma con la clausola, fatta inserire al termine del consenso informato, si disporrebbe il rifiuto dell’accanimento terapeutico per il caso in cui venisse a mancare la possibilità di esprimere la volontà e si verificasse una condizione clinica di guarigione impossibile, con insopportabilità e irreversibilità delle sofferenze.
Nonostante le polemiche circa l’ammissibilità morale e legale del “testamento biologico”, ovvero delle cosiddette “direttive anticipate”, esiste la possibilità (non solo teorica!), per ogni persona in procinto di sottoporsi a un delicato e rischioso intervento medico-chirurgico, di pretendere e ottenere un “ampliamento del consenso informato”, con l’aggiunta della dichiarazione del rifiuto di qualsiasi forma di accanimento terapeutico.
La clausola aggiunta per volontà del malato, “condizionerebbe” il consenso all’auspicato rispetto delle proprie scelte su cure non desiderate e trattamenti vitali da evitare, nella malaugurata eventualità che per un esito imprevisto si dovesse verificare una condizione irreversibile di “vita vegetativa” priva della possibilità di relazionarsi con chiunque.
A giudizio dello scrivente, sarebbe opportuno che, in tutti i casi in cui deve essere acquisito il consenso, il medico (anche al fine di cautelarsi), usando la massima attenzione e prudenza, magari premettendo che obiettivo primario sarà sempre quello della salvaguardia dell’integrità psicofisica e della vita, informasse il paziente in merito al fatto che non è mai possibile escludere del tutto il rischio di un esito imprevisto, tale da determinare una condizione di incapacità (permanente), coma irreversibile ecc.; che in tal caso, i medici dovrebbero tener conto “delle precedenti volontà del paziente”; che per qualsiasi intervento si rende quindi necessario conoscere la sua volontà in merito a determinate cure o terapie (ad esempio, cure di mantenimento in una vita “artificiale”, priva di qualsiasi relazione).
Nell’attesa della legge sul testamento biologico, si ha inoltre la possibilità di formalizzare per iscritto il rifiuto del mantenimento in una “vita vegetativa” non desiderata, per il caso di sopraggiunta incapacità, redigendo un “testamento biologico”(modulo diffuso dalla Fondazione Veronesi), sotto forma di scrittura privata, contenente l’autodeterminazione personale tesa a rifiutare l’ostinazione in cure estreme non mirate alla guarigione (ove ritenuta dai medici impossibile), ma all’inutile mantenimento in una vita priva di relazione ed in un perenne stato d’incoscienza.
L’evoluzione culturale degli ultimi decenni porta ad escludere che ancora per molto tempo si possa negare efficacia e valore alle direttive anticipate.
Non è dato sapere se, con il perdurare dell’inerzia del legislatore sulla questione del testamento biologico e nel definire l’accanimento terapeutico (la cosiddetta “proporzionalità” delle terapie) su malati inguaribili, la giurisprudenza arriverà a considerare illegittima, per violazione della carta Costituzionale (articolo 32, comma 2, in materia di libertà nella sottoposizione ad un trattamento sanitario), l’esecuzione di interventi sanitari di mantenimento in vita senza aver acquisito il consenso o senza conoscere la volontà del paziente.
6. Il modulo per il testamento biologico proposto dalla “Fondazione Umberto Veronesi”
L'oncologo ed ex ministro della Sanità Umberto Veronesi ha sempre rivendicato con fermezza il diritto di autodeterminazione ed ha tenuto vivo il dibattito sul “testamento biologico, o di vita” rilanciandolo con varie iniziative.
Veronesi sostiene: “La decisione a proposito di un possibile accanimento terapeutico spetta al malato quando ancora può prenderla”.
Lanciando una sfida quasi provocatoria aggiunge: “Io, il testamento biologico l'ho fatto e l'ho affidato a una persona di mia fiducia. La mia paura non è la morte, ma la perdita delle facoltà mentali, della mia coscienza. Dovesse accadere, già da ora ho deciso liberamente che non voglio accanimenti terapeutici”.
Una provocazione ed una sfida anche la proposta di un Registro nazionale per il Testamento Biologico, gestito dalla Fondazione Veronesi, sostenuta da una decina di giuristi che collaborano con la Fondazione.
Una proposta, ha spiegato Veronesi ad una Tavola rotonda promossa dalla Fondazione, per riaprire e rilanciare il dibattito sulla questione del Testamento Biologico che vede “insabbiate” le varie proposte di legge depositate in Parlamento.
Intanto, nell’attesa di una legge sul testamento biologico, che ne regoli compiutamente l’istituzione, la stessa Fondazione Veronesi, mediante la diffusione on line di un “modulo per il testamento biologico”, mette ogni cittadino in condizione di esprimere la propria volontà anticipata.
Si tratta di una dichiarazione in forma di scrittura privata, recante l’intestazione “Testamento Biologico” che, oltre ad essere debitamente sottoscritta deve essere redatta di proprio pugno in due copie (una per il firmatario ed una da consegnare ad un fiduciario).
Secondo quanto suggerito, una terza copia può eventualmente essere depositata presso un notaio o un legale di fiducia.
L’intestatario, dopo aver inserito le generalità complete (nome, cognome, luogo e data di nascita, domicilio, documento di identità), dichiarando di essere pienamente consapevole e totalmente libero nella scelta chiede “di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico” in caso di:
“malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante”;
“malattia che mi costringa a trattamenti permanenti con macchine o sistemi artificiali che impediscano una normale vita di relazione”.
E’ prevista la nomina di un “rappresentante fiduciario” del quale deve essere indicato il nome e cognome, il luogo e la data di nascita, la residenza ed il recapito telefonico.
Dopo le generalità del fiduciario è stata inserita la condizione “le presenti volontà potranno essere da me revocate o modificate in ogni momento con successiva/e dichiarazione/i”.
La prevista possibilità di revoca fa diventare l’indicazione della data un elemento indispensabile per la validità della dichiarazione.
Dopo l’indicazione del luogo e della data è prevista la firma dell’intestatario e del fiduciario con l’indicazione dei rispettivi documenti di identità.
Tale scrittura, che potrebbe non servire mai, all’occorrenza avrebbe grande valore come “documentato rifiuto di persona capace” di un trattamento medico non desiderato e nel caso di sopravvenuta incapacità, il medico sarebbe deontologicamente obbligato ad evitare ogni accanimento terapeutico in quanto deve tener conto “delle precedenti volontà del paziente”。