1. Premessa
Sui diversi modi di interpretare una norma giuridica, esistono trattati, studi, saggi e dissertazioni di ogni genere, ma si tratta di opere destinate prevalentemente agli studiosi ed ai conoscitori del diritto.
Lo scritto che segue è una piccola goccia nel “mare magnum” dell’immensa letteratura sul problema dell’interpretazione della legge, che vuole essere però, almeno nell’intenzione dello scrivente, una goccia per quanto possibile semplice e chiara, intesa a facilitare la lettura e la comprensione anche ai non addetti ai lavori giuridici.
Si tratta di una presentazione dell’argomento che si prefigge soprattutto due finalità concrete.
La prima è quella di chiarire come nel nostro sistema giuridico fondato sulla legge scritta, trovare una “sentenza”, sia pure di un giudice di legittimità (Cassazione o Consiglio di Stato), che spesso viene cercata perché considerata risolutiva di un problema interpretativo o come se fosse un toccasana “vincolante” per l’antagonista o la controparte, può avere la sua importanza di “precedente” ma, generalmente, lascia “il tempo che trova” perché di fatto vincola solo le parti in causa.
La seconda finalità è quella di cercare di spiegare “ai non addetti ai lavori” come sia possibile che la stessa norma venga interpretata in “cento” modi diversi, che è un fatto per molti sorprendente.
Il numero indicato potrebbe sembrare l’esagerazione di un comune modo di dire, ma stando ad un saggio filosofico del prof. Luigi Vallauri Lombardi (ordinario di Filosofia del Diritto all'Università di Firenze) esisterebbero “144 modi diversi d'interpretare una norma giuridica”.
Non essendo qui il caso di fare una rassegna completa, si vogliono presentare quelle interpretazioni “usuali”, la cui definizione si può trovare su ogni manuale di diritto che affronta l’argomento “interpretazione della legge” e che sono spessissimo citate dalla giurisprudenza, in quanto su di esse si fondano le motivazioni di molte decisioni.
Ovviamente, si vuole qui di seguito discutere dell’interpretazione, per così dire, “qualificata” compiuta da chi mediante un’operazione intellettiva sappia cogliere la portata e il significato della norma che è (dovrebbe essere!) ordinata in un sistema di norme collegate e coordinate nell’ambito di un ordinamento giuridico.
Restano fuori dal discorso le molteplici interpretazioni spesso ingenue o “arbitrarie” di chi, inesperto, non sappia vedere il testo della norma inserito in un sistema coordinato.
A proposito di interpretazione, l’illustre costituzionalista Temistocle Martines (stimato professore dello scrivente) assimila il testo normativo ad una partitura musicale per dire che “ad un profano a chi non conosce le note, quella partitura non dirà niente, non esprimerà alcun contenuto; chi ha studiato musica , invece, sarà in grado di trarre dalla partitura i suoni di cui le note sono simboli e di intenderne il valore; chi, poi, dovrà eseguire la partitura mediante uno strumento darà vita ai suoni, secondo una sua interpretazione”.
Vivendo in una società in cui tutti fanno di tutto e nessuno è più disposto a svolgere solo il proprio mestiere, senza invadere il campo degli altri, è bene chiarire che soltanto chi conosce le tecniche giuridiche, per usare le parole dello stesso autore “potrà compiere l’operazione intellettiva (interpretazione) diretta ad individuare la norma; chi è chiamato ad applicare il diritto, oltre ad interpretare il testo normativo, renderà viva e concretamente operante la norma”.
Traspare da quanto appena riportato, come l’interpretazione possa avere una duplice finalizzazione.
Ad una interpretazione “concettuale” quasi come fosse “palestra di interpretazioni logiche” o come costruzione teorica puramente dottrinale, fine a se stessa e senza riflessi pratici, si abbina una interpretazione esecutiva ed applicativa (da parte del giudice, dell’avvocato, del funzionario, del tecnico ecc.) dove la conoscenza della norma è finalizzata ( a risolvere una controversia, a redigere un atto giudiziale, a prendere una decisione, a progettare nel rispetto delle norme ecc.).
Si tratta, in ogni caso, non di un lavoro qualsiasi ma di un’impegnativa attività intellettuale il cui esercizio è reso sempre più difficile e incerto dal fatto che il legislatore, sotto la spinta dell’emergenza, emana spesso delle norme senza tenere nella massima considerazione il fatto che le stesse devono essere coordinate tra loro e con quelle dell’intero sistema giuridico vigente.
Ne deriva, come inevitabile conseguenza, che l’attività dell’interprete non sempre può svolgersi nell’ambito di un ordinamento giuridico ordinato e armonico, dove ogni norma dovrebbe trovare una sua coerente collocazione.
2. La legge e la giurisprudenza nelle aree di civil law e di common law: particolare valore della fonte legislativa in Italia
Nel nostro ordinamento, come in tutti quelli del cosiddetto civil law (quasi tutti quelli dell’Europa continentale), la fonte legislativa assume un ruolo fondamentale perché su di essa si fonda il sistema giuridico.
Il nostro ordinamento, se da un lato affonda le radici nel Diritto Romano dall’altro si rifà al sistema nato in Francia ai primi dell'800, con la codificazione napoleonica, la cui caratterizzazione è appunto quella di far ruotare tutto il sistema intorno alla fonte legislativa .
Un sistema dove ai giudici è assegnato il preciso ruolo di applicare la legge per risolvere le controversie sottoposte al loro giudizio.
Nell’ordinamento italiano, non solo viene conferita la massima importanza alle norme poste dal legislatore, vige anche il principio di cui all’articolo 2909 del Codice civile in base al quale le sentenze “fanno stato” solo fra le parti ed i loro eredi ed aventi causa.
Non è così per gli ordinamenti dei paesi anglosassoni cosiddetti di common law, dove ad assumere un ruolo fondamentale e preminente è il diritto giurisprudenziale, mentre quello di natura legislativa, pur esistente a regolare vari settori, assume la funzione di contorno.
Nei sistemi di common law la legge è una delle fonti del diritto, senza alcuna preminenza sulle altre, con la particolarità che il diritto di origine giurisprudenziale si legittima in modo indipendente rispetto al diritto di produzione legislativa.
Anzi, il diritto delle Corti costituisce il diritto o legge generale (common law), mentre la legge emanata dal Parlamento si inserisce nell’ordinamento come norma speciale e secondaria.
Il giudice che deve applicarla, la prende pure in considerazione ma l’interpretazione che ne fa, se non proprio vincolata, è condizionata dall’esigenza di non alterare troppo il quadro d'insieme del diritto generale.
Si dice che i giudici del common law sono fonte di “produzione del diritto”, in primo luogo per il ruolo creativo del giudice nel caso di indeterminatezza legislativa, ma anche perché nei sistemi giuridici anglosassoni vige il così detto principio del “precedente vincolante”.
Si tratta del perdurare di una dottrina (c.d. stare decisis), nata intorno al '600, in base alla quale pur non essendo impedito ai giudici di discostarsi dalle precedenti decisioni riguardanti casi analoghi, li obbliga a motivare le ragioni di una pronuncia non conforme a quanto statuito in precedenza.
Tra il sistema a base romanista e quello anglosassone, si può parlare di chiara divergenza, anche se occorre registrare che nei tempi recenti la distinzione si è attenuata.
Ora, in realtà, la divergenza fra i due sistemi sembra non sia più così netta, in quanto da più parti si è fatto osservare che nel common law si tende ad emanare provvedimenti legislativi per disciplinare settori o istituti non toccati in precedenza o ad approfondire la disciplina di quelli già regolati.
Per contro, nell’altro sistema (e quindi anche nel nostro) il precedente giurisprudenziale viene ad assumere sempre più importanza ed alle decisioni degli organi giudiziari si tende a dare sempre più rilevanza.
Spesso, lo stesso potere legislativo al fine di definire con chiarezza e con carattere di generalità i rapporti che possono essere oggetto di ripetute controversie, recepisce con norme di carattere generale le indicazioni della precedente consolidata interpretazione giurisprudenziale in materia.
Pur essendo ogni giudice libero di interpretare la legge diversamente (come sarà chiarito parlando di interpretazione giudiziale), quasi sempre (quando è possibile) nelle motivazioni di diritto delle sentenze dei giudici, sia di merito che di legittimità, viene preso in considerazione il “precedente orientamento” per motivare le ragioni di una pronuncia non conforme o per aderirvi con locuzioni del tipo: “a tale orientamento questo Collegio ritiene di aderire”; “da tale indirizzo il Collegio non ha alcun motivo per discostarsi”; “secondo il delineato indirizzo giurisprudenziale, dal quale non vi è motivo per discostarsi” ecc.
3. Distinzione in base ai soggetti che interpretano la legge: interpretazione dottrinale, giurisprudenziale e autentica.
Prima di entrare nello specifico ed accennare ai diversi modi in cui una legge può essere “comunemente” interpretata, è bene indicare sommariamente la distinzione che solitamente viene fatta in relazione ai soggetti che la compiono.
Sotto tale aspetto (soggettivo) l’interpretazione viene distinta in dottrinale, giudiziale e autentica.
L’interpretazione dottrinale, costituita dagli apporti di studio dei cultori di materie giuridiche, spesso diventa una palestra di esercitazioni logiche ed è chiaro che non può avere nessun carattere vincolante.
A proposito del carattere non vincolante della interpretazione dottrinale (e giurisprudenziale), in una vertenza in cui era parte una amministrazione pubblica, tanto per dare un’idea di “libertà interpretativa”, tra le motivazioni di una sentenza della Cassazione si legge che “la Pubblica Amministrazione non ha alcun obbligo di conformarsi alla interpretazione dottrinale e giurisprudenziale, mentre ha invece l'obbligo - dovendo svolgere ogni sua attività con la rigorosa osservanza del principio di legalità - di applicare la legge dandone, in base ai prescritti canoni ermeneutici, una interpretazione conforme alla sua effettiva portata normativa”. (Cassazione Civile Sent. n. 14086 del 01-10-2002).
Invero, l’interpretazione intellettiva e didattica degli studiosi, con la raccolta di materiale utile all’interpretazione delle varie disposizioni, l’illustrazione dei possibili significati, la sottolineatura delle implicazioni e delle conseguenze delle varie soluzioni interpretative, costituisce un sostegno fondamentale nelle scelte di quanti giornalmente concretamente operano nell’ambito del diritto.
Tra questi, i principali fruitori sono proprio i giudici per i quali l’interpretazione della legge con accuratezza e scrupolo costituisce una parte fondamentale del lavoro quotidiano.
I continui riferimenti alla interpretazione dottrinale contenuti nelle motivazioni delle sentenze stanno a testimoniarlo.
Locuzioni largamente usate sono le seguenti: “... secondo la prevalente interpretazione dottrinale e giurisprudenziale ...”; “...principio del nostro ordinamento, consolidatosi nell'interpretazione dottrinale e giurisprudenziale è quello secondo cui ...”; “...in piena sintonia con la prevalente interpretazione dottrinale ...” ed altre espressioni similari.
L’interpretazione giudiziale, compiuta dai giudici nell'esercizio della funzione giurisdizionale, come anticipato, deve ritenersi vincolante soltanto per le parti del giudizio.
Ciò vuol dire che non vincola neppure il giudice successivo, se non quando la Corte di Cassazione , accogliendo il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, enunci il principio al quale il giudice di rinvio dovrà uniformarsi (art. 384 cpc.).
In base al citato articolo infatti La Corte, quando accoglie il ricorso per violazione o falsa applicazione di norme di diritto, enuncia il principio di diritto al quale il giudice di rinvio deve uniformarsi, ovvero decide la causa nel merito qualora non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”.
Il giudice, nel pronunciare sulle cause sottoposte al suo giudizio, pur dovendosi attenere al principio dettato dall’articolo 113 cod. proc. civ. che lo obbliga a seguire le norme del diritto, salvo che la legge gli attribuisca il potere di decidere secondo equità, gode di due tipi di libertà: da una parte, la libertà nei confronti della legge scritta nell'interpretarla; dall'altra, la libertà nei confronti degli altri giudici per la mancanza di vincolatività del precedente giurisprudenziale.
Tale libertà (quasi incondizionata) porta inevitabilmente a contrasti giurisprudenziali simultanei e nel tempo, derivanti da una serie di (possibili) interpretazioni diverse della stessa norma giuridica.
V’è da osservare, tuttavia, che anche nel nostro ordinamento fondato sul diritto scritto, l’interpretazione giudiziale assume fondamentale importanza per il fatto che con essa l’astratta previsione normativa si concretizza in quanto viene applicata al caso concreto.
Quando più leggi (alle volte non coordinate tra loro) disciplinano la stessa materia, la funzione del giudice, diventa fondamentale anche per identificare la norma da applicare al caso concreto.
Sotto un altro aspetto, la produzione giurisprudenziale soprattutto nel caso in cui l’interpretazione si venga a consolidare in indirizzi ben precisi e costanti, diventa “condizionante” o, per meglio dire, indicativa di comportamenti e di possibili soluzioni giudiziali e stragiudiziali.
Si può quindi affermare che l’ordinamento giuridico italiano è quello che risulta dai Codici e dalle varie leggi, ma , almeno in parte, anche quello che risulta dalle sentenze della magistratura e quindi dalla giurisprudenza.
Vengono citate a tal proposito come pietre miliari le sentenze n. 95 del 1976 e n. 34 del 1977 della Corte costituzionale, secondo le quali “le norme vivono nell’ordinamento nel contenuto risultante dall’applicazione fattane dal giudice”.
L’interpretazione autentica è quella che proviene dallo stesso legislatore per chiarire il significato di norme preesistenti.
In alcuni casi i testi normativi possono rivelarsi talmente ambigui e mal formulati che lo stesso legislatore per risolvere situazioni di contrasto e di non esatta interpretazione è costretto ad intervenire con un’altra legge per chiarire e precisare il senso della norma dubbia.
Perché si possa parlare di interpretazione autentica, il legislatore deve intervenire con una legge pari-grado o con un provvedimento ad essa equiparato (decreto legge, decreto legislativo) perché questo tipo di interpretazione non è consentito da una fonte secondaria (la circolare esplicativa con questo discorso non c’entra).
Le espressioni usate sono del seguente tenore: l’articolo ... della legge ... si interpreta nel senso che ...; oppure il comma .... dell’articolo ....... della legge ......deve intendersi nel senso che ....
In questo caso la legge interpretativa ha efficacia retroattiva ed è vincolante per tutti i destinatari.
4. Diversi modi di interpretare i testi normativi e regole interpretative
Tralasciando le teorie interpretative puramente dottrinali e le varie costruzioni teoriche, si vuole qui parlare dell’interpretazione della legge come di quella attività tendente a determinare il significato della norma giuridica al fine della sua applicazione.
Di una attività dell’interprete non meramente conoscitiva, ma che concorra (nei limiti sopra specificati) alla creazione del diritto, integrando dove sia necessario, i comandi legislativi.
Occorre avviare quindi il discorso dalla regola preordinata ricavabile dal sistema normativo che è quella dettata dall’articolo 12 , comma I, delle “Disposizioni della legge in generale”.
Tale disposizione prevede che “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”.
Da tale testo, che ovviamente è stato necessario interpretare, se ne è tratta la norma che l’interprete di un testo normativo deve tener conto del significato grammaticale delle parole considerate non isolatamente ma nella loro connessione sintattica (interpretazione letterale).
Oltre a tener conto del significato delle parole, in presenza di problemi interpretativi per insufficienza del dato letterale o equivocità, deve anche considerare l’intenzione del legislatore riferita non soltanto alla volontà di coloro che hanno formulato il testo, quanto alla norma immessa nel sistema di norme che disciplinano la stessa materia(interpretazione logica).
Più precisamente, quando l’interpretazione letterale dia luogo ad incertezze o dubbi riguardanti la costituzionalità, la ricerca (anche attraverso i lavori preparatori) della mens legis (interpretazione logica) devono essere integrati dal fatto che la norma deve essere considerata come inserita nell’ordinamento complessivamente considerato (interpretazione sistematica), del quale ovviamente fa parte anche la Costituzione.
Infatti, dall’interpretazione della norma dovrà trarsi un significato sempre conforme ai principi costituzionali e quando non sia possibile occorrerebbe denunciarne l’incostituzionalità.
Inoltre, per applicare la legge può essere necessario stabilire il suo scopo, in modo tale che la sua applicazione sia conforme alle finalità per cui essa è stata emanata (interpretazione teleologica).
Può anche accadere, soprattutto nell’interpretazione giudiziale, che il giudice pur ricorrendo ai criteri sopra enunciati, non trovi una norma che disciplini o si adatti perfettamente al caso concreto.
Allora il giudice, non potendosi sostituire, almeno nel nostro sistema, al legislatore per creare una norma ad hoc, può applicare la disciplina legislativa prevista per fattispecie simili (interpretazione analogica).
Dopo averle brevemente presentate, le più comuni forme di interpretazione individuate meritano qualche ulteriore indicazione specifica.
5. Interpretazione letterale
A proposito della interpretazione letterale si può dire che deve considerarsi il criterio assorbente ed esauriente rispetto a tutti gli altri canoni interpretativi del testo normativo; nonché il primo e fondamentale elemento per indagare quale sia stata l’intenzione del legislatore.
Quando l’individuazione del proponimento del legislatore sia consentito da espressioni testuali sufficientemente chiare, precise e adeguate deve considerarsi preclusa la possibilità di ricorrere ad altri criteri interpretativi.
Sul punto la Cassazione ha testualmente stabilito che “Quando l'interpretazione letterale di una norma di legge sia sufficiente ad esprimere un significato chiaro ed univoco, l'interprete non deve ricorrere all'interpretazione logica, specie se attraverso questa si tenda a modificare la volontà di legge chiaramente espressa. (...)”. ( Cass. Sez. Lav., sent. n. 11359 del 17-11-1993).
6. Interpretazione logica
Come si è fatto cenno, quando il senso letterale delle parole non è preciso e da luogo a dubbi interpretativi, l'interpretazione letterale deve essere integrata dall’interpretazione logica che, secondo l’art.12 delle disposizioni sulla legge in generale, deve prendere in considerazione l’intenzione del legislatore.
Aprendo una breve parentesi, si può far cenno alla due teorie che si contendono il terreno sul come deve intendersi l’espressione “intenzione del legislatore”: la cosiddetta teoria soggettiva e la teoria oggettiva dell’interpretazione .
Per la prima l’interprete deve ricercare l’intenzione del legislatore e lo scopo che si è proposto di conseguire nel dettare quella determinata disposizione.
Per la teoria oggettiva, invece, ciò cha va ricercato non è quello che il legislatore ha voluto, ma quello che risulta dalla legge obbiettivamente considerata, dato che la legge, con la sua promulgazione, si stacca dalle persone che l’hanno redatta ed acquista un significato autonomo.
Teorie a parte, semplificando si può dire che si tratta di individuare la “ratio” giustificativa collegata alla introduzione della norma; ragione che può essere ben evidenziata dai lavori preparatori.
Si cerca, in altre parole di comprendere, oltre ad individuare una ragionevolezza della determinazione legislativa, quale “logica razionale” abbia seguito il legislatore nell'ambito della sua discrezionalità.
A proposito dei lavori preparatori, la Cassazione ha avuto modo di chiarire che ad essi può riconoscersi “valore unicamente sussidiario nell'interpretazione di una legge, trovando un limite nel fatto che la volontà da essi emergente non può sovrapporsi alla volontà obiettiva della legge quale risulta dal dato letterale e dalla intenzione del legislatore intesa come volontà oggettiva della norma ("voluntas legis"), da tenersi distinta dalla volontà dei singoli partecipanti al processo formativo di essa”. (Cass Civ. Sez. III, sent. n. 3550 del 21-05-1988).
Successivamente la stessa Cassazione ha ribadito: “La volontà emergente dai lavori preparatori non può sovrapporsi a quella obiettivamente espressa dalla legge, quale emerge dal suo dato letterale e logico. Peraltro agli stessi lavori preparatori può riconoscersi valore sussidiario ai fini ermeneutici, quando essi, unitamente ad altri canoni interpretativi ed elementi di valutazione emergenti dalla norma stessa, siano idonei a chiarire la portata di una disposizione legislativa di cui appaia ambigua la formulazione”. (Cass. civ. sez. I 27-02-1995, n. 2230).
In relazione agli esiti, quando i risultati dell'interpretazione letterale coincidono con quelli dell'interpretazione logica si ha un'interpretazione dichiarativa; quando il significato della norma si arricchisca, si ha un'interpretazione estensiva.
Viceversa, quando per avere una interpretazione logica e razionale il significato del dato letterale debba essere ridotto si parla di interpretazione restrittiva.
7. Interpretazione sistematica
L’interpretazione sistematica di una norma, che non deve porsi contro il dato letterale e quello logico, ha lo scopo di determinare il significato della disposizione inserita nel sistema legislativo complessivo, ossia tenendo conto della disciplina vigente in cui si inserisce la norma da interpretare.
L’interpretazione sistematica esige una correlazione ed un raffronto perché il significato della norma viene determinato tenendo conto della connessione con le altre norme.
Si basa essenzialmente sul contesto in cui si colloca la disposizione da interpretare e sulla presunzione che il sistema giuridico sia dotato di una certa coerenza.
In altre parole, possiamo chiamare logico-sistematica quella interpretazione che evitando in primo luogo le contraddizioni nell'ambito di un singolo documento normativo, cerca anche di escludere quei significati che renderebbero il testo incoerente con il sistema.
Per poter valutare le ragioni per cui la nuova norma è stata introdotta si può fare riferimento ai precedenti storici che regolavano la stessa fattispecie (criterio storico).
8. Interpretazione teleologica
In giurisprudenza si fa spesso riferimento alla interpretazione teleologica in abbinamento agli altri criteri interpretativi già esaminati.
Vengono usate espressioni del tipo: “... a tale conclusione concorrono sia l'interpretazione letterale e logica della disposizione che quella teleologica ...”; “... così dovendosi interpretare, in virtù di un'esegesi teleologica, logico-letterale e sistematica ...”; ... in ragione dei criteri ermeneutici letterale, sistematico e teleologico, va interpretato nel senso che ...”.
L’interpretazione teleologica è quella che da un peso prevalente allo scopo (telos) per il quale la norma è stata emanata.
Tale indirizzo interpretativo fu istituito dai giuristi romani per i quali già allora (traducendo dal Digesto):“interpretare le leggi non significa capire meccanicamente le loro parole, ma comprenderne l’effettiva portata nel suo complesso” .
Scire leges - si legge nel libro 26° dei digesti – non hoc est verba earum tenere, sed vim ac potestatem (D.1,3,17.Celso).
Il criterio di interpretazione teleologica, pur riconoscendo che la lettera della legge costituisce un limite che l’interprete non può superare e deve rispettare, porta a tenere presente, da un lato, il fatto sociale che sta alla base della norma e che è regolato da essa; dall’altro a considerare le conseguenze che deriverebbero da una data interpretazione, per escludere quelle che non corrispondono allo scopo della disposizione.
Pur risalente al diritto romano, tale metodo interpretativo che da peso allo scopo ed ha un’impronta nettamente realistica e concreta, secondo alcuni autori, sembra adattarsi perfettamente al dinamismo che caratterizza l’epoca in cui viviamo.
9. Interpretazione analogica
Il sistema legislativo di uno Stato per quanto completo e dettagliato possa essere non può mai contemplare ogni rapporto e ogni situazione.
Inevitabilmente possono verificarsi, nell’attività giudiziale, casi concreti che non rientrano in una fattispecie astratta disciplinata dal legislatore.
Per tali situazioni, il sistema stesso ha previsto al II comma dell’articolo 12 delle disposizioni sulla legge in generale una “scappatoia”: “Se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i principi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato”.
Quindi, se un caso non è espressamente regolato lo si può risolvere per analogia in coerenza con quanto è previsto da altre norme giuridiche.
Tale analogia è quella che va sotto il nome di analogia legis; da essa generalmente si distingue la così detta analogia iuris, la quale si ha quando non essendoci nemmeno una disposizione che regola casi analoghi si trova una soluzione facendo ricorso ai principi generali dell’ordinamento (principio di completezza dell’ordinamento).
Come dire: una norma da applicare, anche se inespressa, si può sempre trovare nel sistema, si tratta solo di cercarne una “somigliante”, se proprio non si trova, una decisione si può sempre prendere rispettando i principi generali!
La somiglianza è data dal fatto che, pur trattandosi di fattispecie diverse, vi è corrispondenza di quegli elementi sostanziali che sono rilevanti per la regola giuridica.
L’interpretazione analogica si concretizza nel lavoro necessario a trovare la norma applicabile che implica un processo logico, derivante dall’esame delle disposizioni che disciplinano casi simili o materie analoghe e consiste in un giudizio di similitudine tra diverse fattispecie.
10. Interpretazione analogica nel diritto penale
In base all’art. 14 delle disposizioni preliminari del Codice civile il procedimento analogico non è ammesso per le leggi eccezionali (che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi) e per le leggi penali.
Infatti, tutta la materia delle fonti del diritto penale è dominata dal principio di legalità condensato nella formula latina “nullum crimen, nulla poena, sine lege” (senza legge, non vi è crimine né pena).
Principio di legalità che è implicitamente contenuto dall’art.25 della Costituzione e che è stato riaffermato nella norma fondamentale sancita dall’articolo 1 del codice penale :”Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”.
Possiamo dire che nel nostro diritto la situazione e chiara per quanto riguarda la così detta analogia in malam partem, nel senso che non è consentita l’estensione analogica di una norma che sia sfavorevole al reo.
Gravi incertezze sorgono invece rispetto alle disposizioni che non risultano sfavorevoli all’imputato, come quelle che prevedono cause di giustificazione o che escludono l’imputabilità.
Secondo l’insegnamento dei maggiori criminalisti, il ricorso all’interpretazione analogica è ammissibile rispetto alle disposizioni che vanno a favore dell'imputato, quali innanzitutto le norme scriminanti; cioè per tutta la così detta analogia in bonam partem.
Già nell’Ottocento, del resto, nel suo famoso programma di diritto criminale che costituisce la base di qualunque studio che si voglia fare in materia penale, Francesco Carrara scriveva: “Per analogia non si può estendere la pena da caso a caso: per analogia si deve estendere da caso a caso la scusa”。