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Giudizio: processo, decisione

Giudizio: processo, decisione (*)

(*) Questo scritto riproduce, con l'aggiunta delle note, il testo di una relazione tenuta a Palermo l'11 ottobre 1997 durante il convegno internazionale sul tema "Il giudizio" organizzato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Palermo.

Riv. trim. dir. proc. civ. 1998, 03, 787

Michele Taruffo
Ordinario dell'Università di Pavia

(pubblicato con il permesso dell'Autore)


1. - Il termine "giudizio" usato con riferimento a fenomeni giuridici conosce, nel linguaggio comune come nel linguaggio tipico dei giuristi, una rilevante biforcazione di senso. Esso viene infatti usato indifferentemente per indicare due fenomeni che forse sono connessi - ed infatti qualche aspetto di questa connessione verrà discusso più avanti - ma che sono comunque diversi, e quindi vanno distinti l'uno dall'altro. "Giudizio" ha dunque almeno due significati principali: in un primo significato il vocabolo allude a - e viene anzi spesso usato come sinonimo di - "processo". Rimandano a questo significato espressioni come "andare in giudizio", "portare in giudizio", "svolgimento del giudizio", "giudizio di primo grado", e simili. In un secondo significato il vocabolo allude a - e viene spesso usato come sinonimo di - "decisione". Rinviano a questo significato espressioni come "pronunciare il giudizio", "formulare il giudizio", "giudizio di fatto", "giudizio di diritto", e simili.
Posta in questi termini, la distinzione accentua la diversità tra le famiglie di espressioni riconducibili ai due diversi significati di "giudizio". Tuttavia occorre considerare che processo e decisione non sono fenomeni distinti e separati, in modo che si possa dire che l'impiego dello stesso termine per indicarli sia casuale. Al contrario, non v'è bisogno di sofisticate speculazioni teoriche per intendere che processo e decisione sono connessi da un legame di mezzo a fine, di strumento a risultato, di premessa a conseguenza. Non si cade in un banale post hoc, propter hoc se si dice che la decisione deriva e dipende dal processo che la precede e la produce, e quindi ne è modellata e condizionata in più modi (2)

(2) In uno studio recente Mirjan Damaska illustra in modo molto chiaro le connessioni esistenti fra la struttura del procedimento, con particolare riferimento all'individuazione e all'acquisizione delle prove, e la natura e i limiti della decisione in fatto che ne deriva. Cfr. Damaska, Evidence Law Adrift, New Haven-London, 1997, spec. pp. 61 ss. e 76 ss. Su temi analoghi cfr. anche Schum- Tillers, Marshalling Evidence for Adversary Litigation, in 13 Cardozo L. Rev., 1991, p. 657 ss.
. Ne segue la considerazione che il processo serve soprattutto (benché - forse - non soltanto) (3)

(3) Non è il caso di affrontare qui il complesso problema degli scopi del processo, che ha soluzioni molto diverse a seconda dei sistemi e delle prospettive in cui ci si colloca (per un'approfondita analisi comparatistica cfr. Damaska, I volti della giustizia e del potere, tr. it., Bologna, 1991, pp. 97 ss. e 133 ss.). Per quanto interessa in questa sede è sufficiente rilevare che il processo è funzionalmente orientato verso l'atto che tipicamente lo conclude, che in linea di principio (e salva l'eventualità di fenomeni anomali) è una decisione. Quale sia poi il contenuto della decisione, e quali fini essa realizzi o quali interessi serva, è problema ulteriore che qui non interessa discutere.
a produrre decisioni, sicché la sua struttura può essere diversamente modellata a seconda delle decisioni che si vogliono conseguire (4)

(4) Cfr. ancora gli scritti di Damaska citati nelle note 1 e 2.
. Può allora sorgere il sospetto che tra giudizio-processo e giudizio-decisione vi sia qualche intrinseca e profonda connessione che viene - benché spesso inconsapevolmente - evocata proprio dall'uso polisemico, ma allora non del tutto casuale, di "giudizio" per indicare alternativamente - ma spesso insieme - il processo e la decisione. Si potrebbe allora pensare che, pur essendo diversi i denotata rispettivi, tuttavia qualche corrispondenza o qualche riflesso reciproco, o qualche vicendevole implicazione, vi siano tra giudizio-processo e giudizio-decisione. Non pare però opportuno procedere solo per intuizioni generiche e globali, sicché vale la pena di svolgere qualche ulteriore considerazione sui due campi semantici di "giudizio" nel contesto giuridico, tenendo separati - ed in qualche misura forzandone la distinzione - i due significati del vocabolo. Può darsi che ciò conduca a veder meglio le connessioni tra giudizio-processo e giudizio-decisione, ma ciò - in fondo - non è neppure strettamente necessario.
2. - Nei contesti nei quali "giudizio" è usato come sinonimo di "processo" si allude al giudizio come ad una sequenza organizzata e regolata dalla legge con modalità specifiche e in vista del raggiungimento di uno scopo, o comunque di una conclusione. La categoria generale che qui viene in gioco è quella di procedimento: concetto della teoria giuridica assai discusso anche criticamente, e spesso usato in modo erroneo o maldestro, ma che tuttavia conserva - nel nucleo fondamentale - una non trascurabile utilità (5)

(5) Cfr. sinteticamente Denti, Processo, in Enc. delle scienze sociali, VII, Roma, 1998, p. 23, ed ampiamente Fazzalari, Istituzioni di diritto processuale8, Padova, 1996, pp. 60 ss. e 77 ss.; Id., voce Procedimento e processo (teoria gen.), in Enc. dir., XXXVII, Milano, 1987, p. 821 ss.
. Il richiamo a questo concetto generalissimo serve infatti a comprendere la struttura del processo come "sequenza ordinata", logicamente e cronologicamente organizzata, racchiusa e delimitata da due momenti (l'esercizio dell'azione e la decisione), e composta da una pluralità (il più delle volte non definita a priori) di momenti o passaggi o gradini intermedi. L'analisi del processo in termini di procedimento serve poi ad intendere come questi momenti siano costituiti da atti (solitamente regolati dalla legge nella loro forma-contenuto) (6)

(6) Cfr. in particolare Comoglio- Ferri- Taruffo, Lezioni sul processo civile, Bologna, 1995, p. 415 ss.; Fazzalari, Istituzioni, cit., p. 90 ss.
, che sono il modo d'esercizio di situazioni giuridiche soggettive (a loro volta previste dalla legge sia quanto all'imputazione soggettiva sia quanto alle alternative possibili), e che producono effetti (pure regolati dalla legge) in capo ad altri soggetti (indicati dalla legge), solitamente incidendo sulle situazioni soggettive di costoro e ponendo le premesse perché essi compiano atti ulteriori (7)

(7) Cfr. Fazzalari, Istituzioni, cit., pp. 77 ss. e 347 ss.; Denti, op. cit., p. 24.
. Il giudizio-processo inteso come procedimento può essere analizzato in varie prospettive: lo si può distinguere da altri procedimenti, come l'amministrativo e il legislativo, che per varie ragioni non si considerano "processi" in senso proprio e che quindi non vengono chiamati "giudizi"; si possono indagare le situazioni soggettive che entrano via via in gioco, gli effetti che derivano dal loro esercizio (o mancato esercizio), i soggetti che ne sono titolari, le modalità formali e funzionali, la natura e la tipologia degli atti che ne costituiscono estrinsecazione... e così via.
Non è però questa l'indagine che serve in questo momento. Piuttosto, e tenendo presente la dimensione procedimentale del giudizio che viene in evidenza quando si allude al processo, vale la pena di mettere in luce alcuni aspetti del procedimento-processo che possono dare corpo a questa dimensione del significato di "giudizio".
3. - Uno di questi aspetti attiene ad un elemento importante della struttura del processo, che consiste nel suo essere dialettica e policentrica.
Che la struttura del processo sia policentrica deriva dal fatto, di per sé assolutamente banale, che il processo coinvolge diversi soggetti, ognuno dei quali ha una collocazione peculiare e svolge un ruolo specifico e diverso da quello degli altri, sicché la sequenza di cui si è parlato piu sopra è soggettivamente complessa(8)

(8) In questo senso si può dire che l'articolazione soggettiva del processo è sempre policentrica, anche quando l'oggetto della causa è semplice e le parti sono soltanto due (o anche una sola). Talvolta, invece, si parla di cause o di questioni policentriche in un senso più specifico, ed in casi particolari nei quali la stessa controversia coinvolge oggetti o questioni diverse, ed interessi differenziati - e talvolta confliggenti - che fanno capo a diversi soggetti.
. Vi sono infatti le parti, i loro avvocati, il giudice o i giudici, i testimoni, i consulenti tecnici, i cancellieri, gli ufficiali giudiziari, e così via. Il processo è soggettivamente policentrico poiché coinvolge soggetti diversi collocandoli in "luoghi" diversi della sequenza procedimentale ed assegnando ad ognuno di essi, nei vari momenti, specifiche funzioni e particolari situazioni soggettive. Il "gioco" del processo (9)

(9) Sull'impiego della metafora del gioco per interpretare alcuni aspetti del processo cfr. già Calamandrei, Il processo come gioco, in Id., Opere giuridiche, I, Napoli, 1965, p. 537 ss. Si tratta tuttavia di un'idea ricorrente, che talvolta si fonda su un'applicazione sistematica di alcune categorie della teoria dei giochi all'analisi del diritto (cfr. ad es. van deKerchove- Ost, Il diritto ovvero i paradossi del gioco, tr. it., Milano, 1995). Il processo si presta in modo particolare ad essere interpretato secondo tali categorie, ed anzi può essere letto secondo modelli di gioco diversi a seconda di come se ne definiscono la funzione e la struttura (cfr. van deKerchove- Ost, op. cit., p. 103 s.).
non è né un solitario né una partita a due (come pure non di rado si pensa), ma una situazione dinamica di gran lunga più complicata, con molti giocatori posti in ruoli diversi, e con una varietà virtualmente infinita di "mosse" - e di sequenze di mosse - possibili. Anche il giudice "gioca", in quanto partecipa al gioco e vi compie varie mosse, benché non vinca e non perda alla fine della partita (10)

(10) Anche il "gioco" giocato dal giudice comporta naturalmente mosse e strategie differenti a seconda del modello di processo nel quale si inserisce: cfr. Damaska, I volti della giustizia, cit., p. 30 ss. e passim; van deKerchove- Ost, op. cit., p. 103.
.
La struttura del processo è dialettica (11)

(11) Cfr. in particolare l'analisi di Calamandrei, op. cit., p. 540 ss.
perché - come risulta estrapolandone il carattere più comune e probabilmente essenziale - si fonda sulla contrapposizione tra due (o, eventualmente, più di due) posizioni, che si manifestano nella presentazione di due (o più) versioni della situazione di fatto e di diritto che costituiscono - in senso molto lato - l'"oggetto" della controversia (12)

(12) Per un'analisi di questa struttura dialettica cfr. Taruffo, Involvement and Detachment in the Presentation of Evidence, in Prescriptive Formality and Normative Rationality in Modern Legal Systems. Festschr. for Robert S. Summers, Krawietz-MacCormick-von Wright eds., Berlin, 1994, p. 389 ss.
. Una recente letteratura, che accentua forse troppo i caratteri narrativi e talvolta persino letterari di queste versioni, parla di stories, ognuna delle quali rappresenta il punto di vista di un "soggetto narrante" intorno a quella situazione (13)

(13) Questa letteratura è ormai molto estesa, sicché non è possibile darne qui indicazioni esaurienti. Tra gli scritti più interessanti, e più direttamente riferiti al processo, cfr. Twining, Lawyers' Stories, in Id., Rethinking Evidence. Exploratory Essays, Oxford, 1990, p. 219 ss. Cfr. inoltre Pennington- Hastie, A Cognitive Theory of Juror Decision Making: The Story Model, in 13 Cardozo L. Rev., 1991, p. 519 ss. Per un approccio ragionevolmente critico cfr. Faber- Sherry, Telling Stories Out of School: An Essay on Legal Narratives, in 45 Stanf. L. Rev., 1993, p. 807 ss. Per una teorizzazione radicalmente "narrativistica" del processo cfr. Jackson, Law, Fact and Narrative Coherence, Merseyside, 1989.
. Questa prospettiva analitica consente di mettere in luce alcuni aspetti interessanti del processo come "gioco di storie" (14)

(14) Esistono "storie" diverse, sia a seconda della collocazione del soggetto nella situazione in cui vengono narrate, sia perché possono avere oggetti diversi: ad es., si possono distinguere "storie di fatto" e "storie di diritto" (cfr. Twining, op. cit., p. 253, n. 20), "storie complete" e "storie parziali", e così via.
, ma questo tema non può essere qui approfondito. È invece opportuno sottolineare che le "storie" non vengono narrate nel processo a fini di intrattenimento o allo scopo di produrre pezzi di letteratura (15)

(15) L'analisi del processo attraverso le stories dei vari soggetti che vi prendono parte rientra nel più ampio movimento detto di Law and Literature, che appunto tende a considerare il diritto, ed in particolare ciò che accade nel processo, come una serie di fenomeni letterari, o almeno analizzabili come se fossero fenomeni letterari. Per una presentazione riassuntiva di questo movimento cfr. Minda, Postmodern Legal Movements. Law and Jurisprudence at the Century's End, New York-London, 1995, p. 149 ss. Fra i "testi sacri" del movimento cfr. White, Justice as Translation: An Essay in Cultural Legal Criticism, New York, 1990; Id., Heracles' Bow: Essays on the Rhetoric and Poetics of the Law, Madison, 1985; Id., The Legal Imagination: Studies in the Nature of Legal Thought and Expression, Boston, 1973, nonché il saggio fondamentale di Levinson, Law and Literature, in 60 Texas L. Rev., 1982, p. 373 ss. Non privo di interesse, per quanto riguarda il processo, è il volume di Solan, The Language of Judges, Chicago-London, 1993.
: il processo può essere pensato in molti modi, ma sarebbe ben strano paragonarlo ad una sorta di premio letterario, nel quale la narrazione più bella (ossia, come dice chi si pone in questa prospettiva, più coerente) (16)

(16) La coerenza della narrazione diventa, in questa prospettiva, il criterio fondamentale per scegliere tra le diverse narrazioni che riguardano la stessa situazione (cfr. Jackson, op. cit., pp. 18 ss., 61 ss., 155 ss. Cfr. inoltre Lenoble, Narrative Coherence and the Limits of the Hermeneutic Paradigm, in Law, Interpretation and Reality. Essays in Epistemology, Hermeneutics and Jurisprudence, ed. by P. Nerhot, Dordrecht-Boston-London, 1990, p. 138 ss.; denBoer, A Linguistic Analysis of Narrative Coherence in the Court Room, ivi, p. 346 ss.; MacCormick, La congruenza nella giustificazione giuridica, tr. it. in L'analisi del ragionamento giuridico, a cura di Comanducci e Guastini, I, Torino, 1987, p. 243 ss.; Bennett- Feldman, Reconstructing Reality in the Courtroom. Justice and Judgment in American Culture, New Brunswick, 1981, pp. 93 ss., 150 ss.). Non è dubbio che la coerenza di una "storia" sia un carattere importante di essa, che può anche farla apparire più credibile di altre: è dubbio invece che essa sia l' unico criterio di scelta fra più versioni dello stesso fatto, se non altro perchè è ovvio che una storia coerente può essere falsa o non avere alcuna rispondenza col mondo dei fenomeni concreti (cfr. Peczenik, On Law and Reason, Dordrecht-Boston-London, 1989, p. 181; Id., Coherence, Truth and Rightness in the Law, in Law, Interpretation and Reality, cit., p. 307). Peraltro, il processo è interessato a produrre decisioni possibilmente fondate su un accertamento veritiero dei fatti, piuttosto che su narrazioni coerenti che nulla hanno a che vedere con la realtà.
finisce col prevalere sulle altre (17)

(17) Sorge qui il problema della scelta fra le diverse "storie", su cui v. infra, n. 3.1.
. Invece: le "storie" vengono usate come "mosse" del gioco in cui il processo si articola. Ciò non accade soltanto alle storie narrate dalle parti, che quasi per definizione sono "parziali" e proprio per questo si contrappongono come mosse giocate da avversari. Anche le storie narrate dai testimoni, pur essendo per definizione "neutrali", diventano mosse del gioco delle parti, poiché vengono usate (e possibilmente inglobate nelle storie di parte) a sostegno della posizione dell'una o dell'altra parte. Questo fatto è più evidente nei processi marcatamente adversary e lo è forse di meno nei processi in cui il dominio delle parti è meno evidente (18)

(18) In generale su questa distinzione cfr. Damaska, I volti della giustizia, cit., p. 30 ss.; Id., Evidence Law Adrift, cit., p. 74 ss.
, ma è con ogni probabilità presente in ogni processo (19)

(19) L'elemento della lotta e della contrapposizione è spesso presente nel gioco (cfr. van deKerchove- Ost, op. cit., pp. 97 ss., 106 ss.). Non a caso - allora - il processo viene ricondotto alla categoria dei giochi di competizione, o dei giochi a somma zero (cfr. van deKerchove- Ost, op. cit., pp. 107 ss., 114).
.
Se poi si esce dalla metafora amichevole e rassicurante del gioco, per avvicinarsi di più alla realtà effettiva del processo, si scopre che le "storie" sono in realtà armi di contrapposizione e di conflitto, nel migliore dei casi di dialogo tra soggetti l'uno dei quali mira a conquistare la prevalenza sull'altro. La dialettica delle storie narrate dalle parti non mira ad assegnare un premio alla storia meglio raccontata, ma a stabilire chi consegue la vittoria in uno scontro ove la posta "in gioco" è costituita da corposi e rilevanti interessi, e talvolta dalla libertà di qualcuno (20)

(20) La rilevanza degli interessi coinvolti e delle conseguenze spesso importantissime che derivano dall'esito dello scontro processuale è spesso trascurata da chi bada solo agli aspetti teatrali della "rappresentazione processuale", e a questi riduce la dinamica del processo (v. ad es. van deKerchove- Ost, op. cit., p. 101 ss., e più ampiamente Garapon, L'ãne portant des reliques. Essai sur le rituel judiciaire, Paris, 1985). Naturalmente non si può negare che nel processo giudiziario - specie in quello penale (cfr. Garapon, op. cit., p. 20) - vi siano aspetti rituali e teatrali, né che questi aspetti possano avere un notevole impatto simbolico sul pubblico (specialmente quando, come talvolta accade, il processo diventa rappresentazione televisiva: cfr. Giglioli- Cavicchioli- Fele, Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani, Bologna, 1997). Tuttavia si tratta di aspetti non facilmente generalizzabili, e che non debbono essere sopravalutati, posto che la dimensione teatrale è assai meno rilevante nel processo civile (cfr. van deKerchove- Ost, op. cit., p. 104; Garapon, op. cit., p. 141) e non mancano ipotesi nelle quali essa è del tutto assente.
. È vero quindi che nel processo si producono e si svolgono narrazioni e si mettono in atto rappresentazioni simboliche, ma la prospettiva "narrativistica" o "teatrale" può risultare troppo monodimensionale - e sostanzialmente deformante e riduttiva - se pretende di esaurire la realtà del processo (21)

(21) In fondo, si può dire della "narrazione" o del "teatro" nel processo ciò che si può dire più in generale del linguaggio, ossia che "il punto cruciale consiste nel conferire al linguaggio l'importanza che gli spetta per il fatto che esso non è tutto e che la sua portata è intrinsecamente limitata" (cfr. Veca, Dell'incertezza. Tre meditazioni filosofiche, Milano, 1997, p. 6).
. Altro è, infatti, dire qualcosa di vero o di interessante intorno al processo, altro è ritenere che questo qualcosa sia tutto e soltanto ciò che vale la pena di dire. La dinamica fondamentale del processo sembra essere - invece - quella della contrapposizione dialettica tra posizioni in conflitto, dell'ipotesi e della controipotesi, della tesi e dell'antitesi, dell'affermazione e della contestazione di ciò che l'avversario afferma. Si tratta, in sostanza, dello scontro tra versioni contrastanti del fatto e del diritto.
Non è un caso, infatti, che proprio nell'idea fondamentale di contraddittorio si vada ravvisando, da parte dei giuristi, il nucleo necessario ed inderogabile di ciò che va propriamente definito come "processo", distinguendone per differentiam specificam gli altri procedimenti nei quali non esiste questo fondamentale nucleo dialettico (22)

(22) Cfr. in particolare Fazzalari, Istituzioni, cit., p. 82 ss.
. Non si tratta solo di riaffermare la inevitabile attuazione della garanzia della difesa (di cui all'art. 24, comma 2°, della costituzione) come principio fondamentale del processo nello Stato moderno (23)

(23) Cfr. per tutti Comoglio, voce Contraddittorio, in Dig. disc. priv., sez. civ., IV, Torino, 1989, p. 1 ss.
. Si tratta soprattutto di capire che la struttura basilare del processo si fonda sulla contrapposizione di due o più ipotesi relative alla situazione di fatto e di diritto che sta alla base della controversia. Occorre - appunto - comprendere che il processo è anzitutto controversia, e che la controversia nasce dal conflitto tra posizioni contrapposte (24)

(24) Cfr. van deKerchove- Ost, op. cit., p. 113 s., ed inoltre Giuliani, La controversia. Contributo alla logica giuridica, Pavia, 1966.
. Sotto un ulteriore e più analitico punto di vista, occorre poi considerare che le "storie" narrate dai vari soggetti possono variare nel corso del processo, anche influenzandosi e condizionandosi a vicenda. Ognuno dei soggetti che prendono parte alla controversia può infatti modificare la propria storia (integrandola o correggendola) in funzione delle storie che vengono proposte da altri soggetti. Si può dunque dire che il processo è anche un meccanismo di individuazione, di selezione e di riformulazione delle ipotesi che inizialmente vengono proposte dalle parti (ed anche, eventualmente, formulate dal giudice), e che tale selezione e riformulazione avviene in funzione dello svolgimento della dialettica processuale e dell'acquisizione di elementi di valutazione di fatto e di diritto (25)

(25) Questa complessa dinamica può essere analizzata ricorrendo alle categorie con cui si spiegano le trasformazioni degli stati epistemici. Per un'analisi di questo genere riferita alle ipotesi che riguardano i fatti della causa cfr. Taruffo, Elementi per un'analisi del giudizio di fatto, in questa rivista, 1995, p. 84 ss.
.
4. - Se si rivolge l'attenzione alla funzione che può essere assegnata al processo, visto come strumento finalizzato alla decisione, si può dire che il processo serve a preparare la decisione finale. Come si è appena accennato, la dialettica processuale non è un gioco sterile e circolare di storie contrapposte, ma un metodo attraverso il quale si assicura da un lato che tutti gli interessati possano far valere le loro ragioni, ma dall'altro lato si tende a far sì che emergano gli elementi sui quali dovrà fondarsi la decisione finale. La funzione preparatoria del processo si esplica in vari modi ed in varie fasi, che qui non occorre esaminare analiticamente, ma che includono la formulazione delle ipotesi relative alle diverse posizioni delle parti, l'eventuale precisazione o mutamento di queste ipotesi nel corso del processo, il loro controllo in itinere attraverso lo svolgimento della dialettica processuale, la raccolta degli elementi destinati a costituire il materiale da utilizzare in sede di decisione finale, e la formulazione definitiva delle ipotesi su cui questa decisione verrà formulata (26)

(26) I processualisti individuano di solito una "fase preparatoria" specifica, che nell'ordine del procedimento si colloca dopo l'introduzione della causa e prima dell'acquisizione delle prove, e serve soprattutto alla precisazione dei termini della controversia (v. ad es. Taruffo, La trattazione della causa, in Le riforme della giustizia civile, Torino, 1993, p. 235 ss.; Jacob, La giustizia civile in Inghilterra, tr. it., Bologna, 1995, p. 77 ss.; Hazard- Taruffo, La giustizia civile negli Stati Uniti, Bologna, 1993, p. 125 ss.). Nel testo si allude invece, in senso assai più ampio, alla funzione preparatoria dell'intero processo nei confronti della decisione che lo conclude.
.
La formazione e presentazione degli elementi destinati ad influire sulla decisione riguarda i vari aspetti in cui la decisione può - a seconda dei casi - articolarsi. Con una distinzione piuttosto rozza ma non priva di significato si possono individuare gli elementi di diritto, costituiti da norme, precedenti giudiziari, loci ed argomenti interpretativi, concetti e qualificazioni giuridiche, e gli elementi di fatto, costituiti da enunciati descrittivi delle circostanze ritenute rilevanti e dalle prove, ossia da tutti i dati conoscitivi, le informazioni e i criteri di inferenza che occorrono per fondare l'attendibilità di ipotesi relative ai fatti della causa. Lo svolgimento delle argomentazioni in diritto assume le movenze tipiche del ragionamento giuridico, tra le quali spicca in particolare l'articolazione di argomenti e controargomenti secondo il modello della defeasibility che è stato oggetto di recenti studi (27)

(27) Cfr. ad es. Prakken- Sartor, A Dialectical Model of Assessing Conflicting Arguments in Legal Reasoning, in 4 Artificial Intleligence and Law, 1996, p. 331 ss.; Kowalski- Toni, Abstract Argumentation, ivi, p. 119 ss.; Peczenik, Jumps and Logic in the Law, ivi, p. 141 ss.; Freeman- Fairley, A Model of Argumentation and Its Application to Legal Reasoning, ivi, p. 163 ss.
. Lo svolgimento delle argomentazioni in fatto segue il modello dell'enunciazione di ipotesi e della loro sottoposizione a conferma o a falsificazione in base agli elementi conoscitivi di volta in volta disponibili, ed è analizzabile secondo i modelli concettuali elaborati per lo studio dei flussi di conoscenza (28)

(28) V. supra, nota 24.
.
La preparazione che si svolge nel corso del processo conduce all'esito consistente nella sottoposizione al giudice (ed anche, eventualmente, nella formulazione da parte dello stesso giudice) di ipotesi complesse inerenti ai profili di fatto e di diritto della controversia. Queste ipotesi, che possono essere più o meno numerose e più o meno diverse l'una dall'altra a seconda dei casi, rappresentano l'àmbito (o l'insieme delle alternative) entro il quale verrà individuata quella specifica ipotesi che si trasformerà - per così dire - in "tesi", ossia nella decisione conclusiva.
5. - Quanto alla corrispondenza semantica di "giudizio" e "decisione", esiste nel linguaggio comune un uso banale e superficiale nel quale i due termini vengono intesi come interscambiabili: si ritiene infatti che nel processo giudiziario decidere equivalga sostanzialmente a giudicare, e giudicare equivalga a decidere.
Tale corrispondenza può essere intesa tuttavia in un modo meno rozzo, e più ricco di implicazioni intorno al significato di entrambi i termini. Si tratta di intendere "giudizio" non come generico sinonimo di "decisione", ma come termine che indica soprattutto un metodo di decisione. Il giudizio, allora, diventa una modalità con la quale si può pervenire alla decisione, un procedimento con cui viene posta in essere l'attività del decidere, mentre la decisione in senso stretto ne costituisce il risultato finale. In questo senso "giudizio" allude all'attività di decision making, più che all'esito di tale attività (29)

(29) Naturalmente si può usare "giudizio" - come talvolta accade nel linguaggio corrente - anche per alludere alla "decisione-risultato" che deriva dalla "decisione-attività" (non a caso judgment indica soltanto l'esito del decision making, ossia la decisione finale). È tuttavia utile distinguere questi due possibili sotto-significati di "giudizio" come sinonimo di "decisione", anche perché - come si dice più oltre nel testo - è il giudizio come "decisione-attività" che fornisce spunti di riflessione più interessanti.
.
6. - Questo significato di "giudizio" si può intendere meglio se si considera che ogni decisione-attività implica scelte (di solito una serie complessa e concatenata di scelte) tra diverse possibilità alternative di decisione-risultato (30)

(30) Per un'analisi della decisione sui fatti come scelta complessa tra ipotesi alternative v. Taruffo, La prova dei fatti giuridici. Nozioni generali, Milano, 1991, p. 217 ss. Non pare azzardato ipotizzare che il modello di decisione come insieme di scelte possa essere esteso, con le necessarie integrazioni, sino a diventare un modello generale di decision making.
. Queste possibilità alternative rappresentano il prodotto del procedimento così come si configura alla fine del suo svolgimento ed appena prima che il giudice si ponga a formulare la decisione conclusiva. Si ha - appunto - decisione in senso proprio in quanto esistano (perché sono emerse nel processo) diverse ipotesi di possibile decisione (sicché appare fondamentale "separare" tali ipotesi e configurarle come possibilità distinte ed alternative). Scegliere significa individuare una ipotesi tra le varie che si configurano in conclusione della trattazione processuale, e quindi all'inizio del ragionamento decisorio, distinguendola (e quindi ancora a fortiori separandola) dalle altre in quanto - secondo criteri riconoscibili e accettati di scelta - questa ipotesi è quella che si può o si deve considerare come "giusta" (31)

(31) Intorno a questi criteri, e ai fattori che possono determinare la giustizia della decisione giudiziaria, cfr. Taruffo, Idee per una teoria della decisione giusta, in questa rivista, 1997, p. 315 ss.
.
Tuttavia, mentre è vero che ogni decisione implica scelte, poiché se non è possibile scegliere è difficile dire sensatamente che si "decide" alcunché, non è vero che ogni decisione implichi o presupponga anche giudizi. Non è infatti difficile individuare nei più diversi campi dell'esperienza, non escluso quello del diritto, esempi di decisione nei quali le scelte vengono fatte con metodi che prescindono dal giudizio. Ad es., una decisione che - come racconta Rabelais - venisse presa lanciando i dadi, implicherebbe comunque una scelta perché porterebbe il giudice a dar ragione ad una parte e torto all'altra, ma forse non sarebbe appropriato dire che essa si fonda su un giudizio. Nel caso in cui la decisione fosse rimessa - come talvolta accade - all'arbitrio incondizionato di un giudice che si ritenesse libero di decidere secondo la propria intuizione, si avrebbe pure una scelta, ma sarebbe ancora difficile sostenere che essa è il frutto di un giudizio. Altrettanto difficile sarebbe ritrovare un giudizio nella decisione di un giudice corrotto, ovvero in quella del giudice che si limitasse a ratificare la vittoria di chi ha più denaro, o di chi prevale in una prova di forza (come accadeva ai tempi del duello giudiziario) o di abilità (come accade nel caso dei peggiori duelli avvocateschi), o di chi gode di uno status privilegiato, o di chi è innocente per definizione per meriti politici, e così via elencando. In questi casi la decisione può esser presentata come se fosse l'esito di un giudizio, ma questo è altro problema, che attiene alla rispondenza al vero di ciò che quel giudice dice (32)

(32) V. qualche accenno al riguardo più oltre, nel n. 3.3.
. Ciò che qui conta sottolineare è che si possono ipotizzare decisioni che non sono il frutto di giudizi in senso proprio, in quanto derivano da criteri di scelta di altra natura (intuizione, forza, denaro, stato sociale, fortuna...). In sostanza, "scelta" non è sinonimo di "giudizio". La decisione, a sua volta, è sempre conseguenza di scelte, ma non è sempre il risultato di giudizi.
In un contesto siffatto ci si potrebbe chiedere se le decisioni fondate sui "giudizi di Dio" siano o no il risultato di un giudizio. La risposta è storicamente e culturalmente relativa: chi credesse che nell'ordalia si manifesta un giudizio di innocenza o colpevolezza formulato dalla divinità sarebbe indotto non solo a ravvisare un giudizio (benché imperscrutabile nei suoi criteri) nell'esito della prova, ma anche a ritenere che questo sia un metodo perfettamente razionale (se non altro nel senso weberiano di rispondenza allo scopo) per giungere alla decisione (33)

(33) Nella vasta letteratura in argomento cfr. ad es., oltre al classico Patetta, Le ordalie, Torino, 1890 (rist. Milano, 1972), l'ampia esposizione di Lea, Forza e superstizione, ossia compurgazione legale, duello giudiziario, ordalia e tortura, Piacenza, 1910. Sull'ordalia come prova irrazionale v. per tutti Lévy- Bruhl, La preuve judiciaire. Etude de sociologie juridique, Paris, 1964, p. 57 ss.
. Chi invece coltivasse inclinazioni scettiche e intinte di razionalismo modernista potrebbe essere indotto a ritenere che nell'ordalia non vi sia alcun giudizio, e che si tratti semplicemente della mascheratura di scelte arbitrarie, utilizzata per renderle accettabili da un ambiente sociale particolarmente ingenuo o appositamente indottrinato. Chi ritenesse storicamente superato il riferimento alle ordalie potrebbe però trovare più aggiornati esempi nei quali la volontà di taluno (l'"uomo della provvidenza" di turno) viene travestita da giudizio per legittimare la decisione che su tale volontà si fonda.
7. - Queste considerazioni inducono a distinguere il giudizio da altri metodi di decisione, in funzione del carattere articolato, possibilmente "visibile" e - in una parola - razionale del giudizio stesso. In altri termini, si può dire che il giudizio è un metodo razionale di decision making(34)

(34) Sarebbe azzardato dire che il giudizio è "il" metodo razionale di decisione, perché ciò postulerebbe l'assunzione aprioristica di una specifica concezione della razionalità delle scelte, mentre ne esistono varie e diverse (cfr. ad es. Elster, Razionalità, in Enc. delle scienze sociali, VII, Roma, 1998, p. 23 ss., nonché Id., Ulisse e le sirene. Indagini sulla razionalità e l'irrazionalità, Bologna, 1983 e Uva acerba. Versioni non ortodosse della razionalità, Bologna, 1989). Forse si potrebbe dire che il giudizio è il metodo razionale per la decisione giudiziaria, secondo una razionalità pratica, argomentativa e giustificativa, fondata su inferenze controllabili (per le quali valgono le indicazioni delle note 26, 29 e 30).
. Si può anche dire che negli ordinamenti giuridici moderni ed evoluti la tendenza largamente prevalente è nel senso di considerare accettabili le decisioni giudiziarie solo in quanto esse siano fondate su giudizi, ossia solo in quanto esse si fondino sull'applicazione corretta di criteri riconoscibili e condivisibili di scelta tra le diverse decisioni possibili. Da questo punto di vista il giudizio può allora configurarsi come un metodo necessario di decisione, ossia come una condizione senza la quale la decisione non può aspirare ad essere accettata in un ambiente sociale culturalmente evoluto.
Così inteso, il giudizio presenta almeno due importanti peculiarità che meritano qualche ulteriore considerazione: la complessità e l' aspirazione alla razionalità.
La complessità del giudizio come metodo di decision making deriva dalla circostanza che la decisione giudiziaria implica (certamente nel suo idealtipo, ma spesso anche nella realtà concreta) una concatenazione complicata di scelte distinte ed eterogenee. Si possono allora distinguere le scelte (e i relativi giudizi) che attengono all'individuazione delle norme applicabili al caso di specie, alla loro interpretazione e alla loro applicazione (35)

(35) Si tratta in sostanza della interpretazione-applicazione della legge: su ciè è necessario e sufficiente il rinvio a Tarello, L'interpretazione della legge, Milano, 1980, p. 42 ss.
; le scelte (e i relativi giudizi) che attengono all'individuazione dei fatti rilevanti, alla valutazione delle prove che vertono su questi fatti e all'accertamento della verità o falsità degli enunciati che li riguardano (36)

(36) V. supra, nota 29.
, e - infine - le scelte (e i relativi giudizi) che riguardano la determinazione delle conseguenze che derivano dall'intera concatenazione delle scelte precedenti, e che quindi finiscono col rappresentare la decisione finale, ossia la conclusione del ragionamento decisorio. In questa prospettiva, dunque, il giudizio come decision making consta in realtà di una concatenazione di giudizi tra loro correlati, e organizzati in una sequenza logicamente distinguibile, vertenti su oggetti di volta in volta diversi e formulati secondo criteri di volta in volta appropriati. La complessità del giudizio emerge peraltro a condizione di adottare una metodologia analitica quando si considera la struttura della decisione giudiziaria, poiché solo in sede di analisi è possibile individuare i singoli momenti del decision making, i criteri che li governano, le loro peculiarità e l'ordine in cui si collocano. Nulla di tutto ciò affiora invece quando si adottano prospettive "olistiche" (37)

(37) Sulle concezioni olistiche della decisione giudiziaria v. in particolare Damaska, Atomistic and Holistic Evaluation of Evidence: a Comparative View, in Comparative and Private International Law. Essays in Honor of John H. Merryman, D.S. Clerk ed., Berlin, 1990, p. 91 ss.; Twining, op. cit., p. 219 ss.; Tillers, Webs of Things in the Mind: A New Science of Evidence, in 87 Mich. L. Rev., 1989, p. 1252 ss., nonché Taruffo, La prova, cit., p. 281 ss.
, soprattutto se fondate su visioni meramente intuitive o unilateralmente narrativistiche del giudizio, poiché in tal caso le distinzioni si offuscano, le strutture logiche si perdono di vista, e ciò che conta è soltanto la soggettività imperscrutabile di colui che decide, o l'andamento narrativo della story in cui la decisione finisce con l'essere espressa.
L'aspirazione alla razionalità è un aspetto essenziale del giudizio come metodo di decision making perché la formulazione di un giudizio di per sé implica il riferimento a criteri visibili e controllabili, e l'applicazione coerente, non contraddittoria, logicamente fondata, di questi criteri. È difficile, in altri termini, immaginare un giudizio irrazionale, privo di struttura, non articolato, non fondato su alcun criterio riconoscibile, se non a costo di modificare arbitrariamente il senso profondo di "giudizio". Si potrà dire in questi casi - come si è accennato più sopra - che vengono compiute delle scelte e quindi vengono prese decisioni, ma non si potrà dire che queste decisioni sono fondate su giudizi. Per essere tale, un giudizio non deve essere necessariamente formulato secondo una forma logica specifica o sulla base di criteri o standards rigidi e predeterminati: la struttura formale e i contenuti sostanziali del giudizio possono essere i più diversi a seconda dei casi. Del resto - come pure si è accennato in precedenza - anche nel contesto della decisione è facile individuare numerosi giudizi che hanno caratteristiche molto diverse, e che pure possono combinarsi in una concatenazione coerente. Occorre però, perché si possa parlare sensatamente di "giudizio", che esistano almeno le condizioni minime di razionalità del ragionamento, quali - appunto - l'impiego di criteri riconoscibili, l'uso di argomentazioni razionali, la coerenza interna del ragionamento e la controllabilità intersoggettiva della sua fondatezza. In caso contrario - è forse utile ribadirlo - non di giudizio si tratta, ma di pura opzione soggettiva (38)

(38) Per una penetrante analisi dell'irrazionalismo nella concezione della decisione giudiziaria v. Dreier, Irrationalismus in der Rechtswissenschaft, in Id., Recht- Staat- Vernunft. Studien zur Rechtstheorie 2, Frankfurt am Main, 1991, p. 126 ss.
.
8. - Anche l'emissione "esterna" del giudizio da parte del giudice merita qualche ulteriore considerazione, dovendosi distinguere l'emissione di parole in libertà (che possono essere pronunciate anche dai giudici) dalla enunciazione di giudizi in forme razionali. In proposito il punto fondamentale è che la decisione giudiziaria deve essere controllabile dall'esterno: a tal fine si richiede - con norme anche di rango costituzionale (39)

(39) Cfr. ad es. l'art. 111, comma 1° della costituzione italiana, su cui v. Denti, Art. 111, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca, IV, Bologna, 1987, p. 1 ss., e da ultimo Iacoviello, La motivazione della sentenza penale e il suo controllo in Cassazione, Milano, 1997, p. 4 ss.
- che i giudici giustifichino le loro decisioni motivandole, ossia esprimendo gli argomenti che rappresentano le "buone ragioni" delle loro scelte. Ciò equivale a dire che i giudici debbono esprimere in forme razionalmente accettabili i giudizi di cui la decisione finale rappresenta la conclusione ultima, enunciando i criteri e gli argomenti che fondano questi giudizi (40)

(40) Cfr. ad es. Comanducci, Assaggi di metaetica, Torino, 1992, pp. 220 ss. e 232 ss.; Id., La motivazione in fatto, in La conoscenza del fatto nel processo penale, a cura di Ubertis, Milano, 1992, p. 215 ss.
. Un punto abbastanza discusso è se ed in qual misura gli argomenti che i giudici impiegano per giustificare le loro decisioni riflettano effettivamente o debbano riflettere i giudizi che gli stessi giudici hanno formulato durante l'attività di decision making. Per un verso, l'adozione di un punto di vista radicalmente realistico porterebbe a dire che la sola decisione è quella che il giudice esprime pronunciando la sentenza, e le sole ragioni di essa sono quelle che egli manifestamente adduce nella motivazione, sicché rimane irrilevante (e - soprattutto - inconoscibile) ciò che egli ha davvero pensato, ossia le c.d. ragioni reali della decisione (41)

(41) Per un atteggiamento di questo genere cfr. ad es. Ferrua, Il sindacato di legittimità sul vizio di motivazione nel nuovo codice di procedura penale, in Cass. pen., 1991, p. 967, il quale parla non a caso del carattere meramente retorico-apologetico della motivazione.
. Vi sono poi varie buone ragioni per ritenere che la motivazione della sentenza non sia affatto un resoconto o una trascrizione descrittiva del procedimento psicologico che ha avuto luogo in mente judicis e che ha determinato la decisione finale (42)

(42) Cfr. in proposito Taruffo, La motivazione della sentenza civile, Padova, 1975, pp. 118 ss., 213 ss.
. Per altro verso, tuttavia, non si può negare o sottacere l'esigenza che il decision making venga razionalizzato nel suo svolgersi, e non soltanto ex post, ossia quando il giudice si trova a dover adempiere all'obbligo di motivare ciò che ha deciso (43)

(43) Cfr. ad es. Iacoviello, op. cit., p. 61 ss.; Comanducci, opp. locc. citt.; Taruffo, op. ult. cit., p. 222 ss.
. Quindi sembra ragionevole ammettere che - benché solo in parte ed in modi difficilmente determinabili - la motivazione espressa possa corrispondere alle modalità con cui la decisione è stata conseguita (44)

(44) Cfr. Taruffo, op. ult. cit., pp. 118 ss., 222.
. Ciò consente di non elidere del tutto l'importanza fondamentale della razionalità del giudizio come modalità di decisione. Per un verso, infatti, un decision making che si svolga attraverso giudizi razionali ha maggiori chances di portare ad una decisione giusta, e quindi accettabile, ed ha anche maggiori probabilità di riflettersi in modo abbastanza fedele nella motivazione della sentenza, malgrado le differenze strutturali esistenti tra ragionamento decisorio e argomentazione giustificativa (45)

(45) Queste differenze non riguardano solo la diversa struttura del ragionamento euristico e decisorio (fondata sulla sequenza: configurazione di ipotesi - conferma/falsificazione di esse - inferenze da ipotesi a conclusione - scelta tra ipotesi e conclusioni alternative) e quella del ragionamento giustificativo (fondato sulla sequenza: decisione assunta come tesi - esposizione di argomenti giustificativi) (su questa distinzione v. ancora Taruffo, op. ult. cit., p. 216 ss.). Esse derivano anche da altre circostanze, come ad es. il fatto che il giudice scriva la motivazione della sentenza dopo (a volte settimane o mesi dopo) aver deciso, o che un giudice singolo scriva la motivazione di una sentenza deliberata da un collegio, o addirittura - come nella nostra Corte costituzionale - che vi sia una motivazione collegiale della decisione. Sia le differenze strutturali, sia i fattori pratici e istituzionali che caratterizzano il rapporto tra decisione e motivazione, vengono trascurati da chi sostiene che la motivazione non può che coincidere con il procedimento decisorio o rifletterlo fedelmente: cfr. ad es. Mazzarese, Scoperta vs Giustificazione. Una distinzione dubbia in tema di decisioni giudiziali, in Analisi e diritto, 1995, p. 145 ss.; Iacoviello, op. cit., p. 58 ss.
. Per altro verso, la necessità di giustificare in modo espresso ed argomentato la decisione può indurre il giudice a giudicare per mezzo di giudizi razionali invece che tirando i dadi o con altre inaccettabili modalità di scelta (46)

(46) In questo senso cfr. ad es. Ubertis, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Milano, 1979, p. 53; Iacoviello, op. cit., p. 63.
. In ogni caso, almeno sul piano di ciò che i giudici dicono, esiste l'esigenza di giustificazione razionale delle scelte su cui la decisione si fonda: occorre cioè che il giudizio venga articolato e ne vengano espressi i termini, i criteri e le ragioni.
9. - Dopo aver speso alcune pagine per sottolineare la differenza tra i due principali significati di "giudizio" nel contesto giudiziario, vale forse la pena di sottolineare qualche connessione che può esistere tra i fenomeni ai quali questi si riferiscono.
Per un verso, si può considerare che il giudizio-processo, così come lo si è delineato più sopra, appare una condizione indispensabile perché possa aver luogo il giudizio come modalità razionale di decisione. Scelte razionali secondo criteri accettabili e controllabili sono possibili solo quando esse siano state adeguatamente preparate, ossia quando nel processo si sia compiuta in modo corretto l'individuazione e la selezione delle ipotesi di decisione, nonché degli elementi di fatto e di diritto che occorrono per una scelta razionalmente giustificata tra queste ipotesi. Il giudizio-processo, dunque, rappresenta una condizione necessaria per la possibilità del giudizio-decisione. Si potrebbe anzi dire, passando al piano delle valutazioni e dei contenuti, che un processo valido e corretto è una condizione necessaria di giustizia della decisione finale. In sostanza, un "buon" giudizio-processo è indispensabile perché si possa avere un "buon" giudizio-decisione.
Per altro verso, si può dire che vale la pena di costruire un giudizio-processo che abbia tutte le necessarie caratteristiche di una dialettica "garantita" delle parti (con tutte le complicazioni, le regole ed anche i formalismi che ciò comporta), e che si svolga in modo da preparare la decisione nel migliore dei modi, se si parte dal presupposto che la decisione debba esser presa sulla base di giudizi razionalmente fondati, invece che secondo l'esito del lancio dei dadi o semplicemente ratificando la vittoria del più forte. Per formulare decisioni "senza giudizio", infatti, non occorre celebrare complicati processi né sbandierare garanzie destinate ad essere eluse o a funzionare in vacuo, salvo che di processo e di garanzie si parli solo a fini di legittimazione formale di ciò che comunque viene deciso, o di mascheramento retorico dell'esercizio brutale del potere. In sostanza, vale la pena di disciplinare e mettere in atto un giudizio-processo solo se si vuole avere una decisione fondata su giudizi.
Queste connessioni non hanno senso soltanto sul piano delle enunciazioni di ordine generale, ma possono anche avere concrete implicazioni operative. Così, ad esempio, si può dire che un processo nel quale le ipotesi sui fatti non vengono chiarite, o nel quale non si raccolgono tutte le prove rilevanti, non è idoneo a consentire la formulazione di giudizi attendibili sui fatti in sede di decisione. Di contro, una decisione che non tenga conto degli elementi di conoscenza e di valutazione raccolti nel corso del processo non può configurarsi come una conclusione appropriata e razionale di esso.
I vari significati di "giudizio" sono dunque distinguibili, ma - come si diceva all'inizio - sono anche in vario modo collegati. Di qui la ricchezza e la complessità del significato del termine, e l'impossibilità di ridurre questo significato a poche e scarne relazioni di sinonimia。

a cura di Chen han

发布时间:2009-05-23  
 

Centro di studio del diritto romano e italiano presso Universita
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