La responsabilità medica nel sistema dei criteri di imputazione
Claudio Scognamiglio Professore di Università di Tor Vergata
1. La responsabilità medica: sistema italiano e sistema cinese a confronto. 2. Le graduazioni della colpa. 3. La colpa professionale nell’attività sanitaria: costruzione del giudizio di responsabilità e delimitazione degli obblighi di condotta. 4. La colpa omissiva. 5. Profili processuali.
1. Il tema della responsabilità medica appare di particolare interesse quando si cerchi di proporre un quadro della elaborazione giurisprudenziale e dottrinale italiana in materia attenta anche al quadro della materia nel diritto della Repubblica Popolare Cinese.
Infatti, l’introduzione, all’interno della disciplina della tort liability, contenuta nel testo della Legge sulla responsabilità civile da fatti illeciti della Repubblica Popolare Cinese di un assetto unitario dei danni cagionati da trattamenti medici rappresenta un dato di particolare novità, tale da sciogliere, in un solo colpo, con apprezzabile pragmatismo, il problema della responsabilità del medico, sospingendosi fino alla trattazione della responsabilità per danno da difetto della medicina, di un disinfettante o di uno strumento medico (art. 59: la soluzione è nel senso della responsabilità in solido del produttore e della struttura medica) e per emotrasfusioni (ancora art. 59: anche in questo caso la scelta è nel senso della responsabilità in solido dell’istituzione medica che ha eseguito la trasfusione e dell’ente che ha approntato il sangue).
Si è ritenuto di poter definire pragmatico l’atteggiamento del legislatore cinese, perché esso, pur muovendo evidentemente da una premessa sottintesa, secondo la quale la regola di queste ipotesi di danno deve essere trovata all’interno dell’area del tort, disciplina in maniera esemplarmente analitica (si vedano, in particolare, gli artt. 55 – 57), gli obblighi di condotta che gravano sul medico, recependo largamente le acquisizioni della elaborazione giurisprudenziale più avanzata dei sistemi giuridici europei ed americani, in particolare per quel che concerne gli obblighi di informazione finalizzati al raggiungimento del c.d. consenso informato del paziente; eppure si tratta, com’è noto, e soffermando di nuovo l’attenzione in via esclusiva sull’assetto della materia all’interno del sistema giuridico italiano, di risultati cui si è giunti, in quest’ultimo, sulla premessa della natura di responsabilità da c.d. contatto sociale (e, dunque, non già aquiliana, bensì da inadempimento di un’obbligazione preesistente) di quella gravante sul medico operante in una struttura ospedaliera, nei confronti del paziente che si affida alle sue cure.
Dalle considerazioni fin qui svolte può desumersi l’interesse di una breve ricognizione dello stato della riflessione dottrinale, e dell’elaborazione giurisprudenziale, nel sistema giuridico italiano.
2. L’impostazione tradizionale della materia della colpa considera, in generale, anche la colpa più lieve tale da integrare la fattispecie di responsabilità extracontrattuale; ed è stato notato condivisibilmente in dottrina che, dalla lettura della relazione al codice civile, emerge che non è stata accolta la tesi, accreditata nel vigore del c.c. 1865, secondo la quale uno dei criteri di discrimine tra responsabilità c.d. contrattuale ed extracontrattuale sarebbe stato dato dalla rilevanza, in quest’ultimo ambito, della colpa lievissima. Sotto questo profilo, dunque, l’impostazione, che qui si intende prospettare, nel senso della riconduzione della responsabilità del professionista medico al regime unitario della responsabilità da inadempimento di un’obbligazione preesistente non sembra destinata ad introdurre elementi di novità particolare.
Il parametro di valutazione della colpa utilizzato nel sistema giuridico italiano è quello offerto dal comportamento del buon padre di famiglia, che deve essere tuttavia letto, secondo quanto avremo modo di vedere tra breve, come una regola sufficientemente duttile ed in grado di adattarsi alle circostanze del caso, tra le quali vengono in considerazione la natura dell’attività produttiva di danno, del bene inciso dal fatto e le qualità personali dell’agente.
Dal punto di vista strettamente normativo, peraltro, all’interno del parametro di valutazione costituito dal comportamento del buon padre di famiglia, l’unica graduazione della colpa che il legislatore ha utilizzato è quella che contrappone alla colpa ordinaria la colpa grave, essendovi alcuni casi, normativamente previsti, nei quali la responsabilità può sussistere solo in presenza di colpa grave o dolo.
Un particolare interesse riveste ovviamente, ai nostri fini, la norma racchiusa nell’art. 2236 c.c., secondo la quale “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d’opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave”: ed infatti è stato notato in dottrina che “per lungo tempo l’idea di colpa professionale è stata ritagliata a misura dell’art. 1176, co. 2° c.c., collegato all’art. 2236 c.c.”, con la conseguenza che essa finiva per identificarsi con il tipo di responsabilità alla quale era soggetto il professionista intellettuale, al di fuori dell’area non ricoperta dalla colpa grave, letta come esimente della responsabilità del professionista in omaggio ad una sorta di privilegio riconosciuto dall’ordinamento”.
Tuttavia, questa impostazione deve tenere conto anche del rilievo, al quale si è già fatto poc’anzi cenno, secondo il quale l’individuazione della regola di comportamento si risolve, in concreto, in una valutazione che deve modellarsi sulle concrete circostanze, dato che la colpa implica la presa in considerazione di una pluralità di fatti: e si tratta di una valutazione che, nell’area della responsabilità professionale medica, secondo quanto attesta l’illustrazione dell’elaborazione giurisprudenziale alla quale tra breve ci volgeremo, si attesta su standards di sempre maggiore rigore.
Non è difficile rendersi conto delle ragioni che hanno determinato lo spostamento su questi – appunto più rigorosi standard – del giudizio di colpa, ove riferito al professionista medico: e non intendiamo certo riferirci alle ragioni, di più immediata percezione sociologica.
Deve essere in particolare rammentato, in tale prospettiva, l’argomento, che di nuovo riceve forza dalla considerazione del peculiare status professionale del medico, secondo il quale da quest’ultimo è ragionevole attendersi una perizia particolare nell’espletamento della sua attività.
Si giustifica allora la considerazione, già da tempo proposta in dottrina, secondo la quale nell’ambito professionale “la colpa assume sempre la forma dell’errore determinato da ‘ignoranza di cognizioni tecniche o da inesperienza professionale, cioè consiste in una imperizia”, questo essendo, del resto, il senso del favor accordato ai professionisti dall’art. 2236 c.c., che non si estende, ovviamente, alla negligenza ed all’imprudenza comuni.
Naturalmente, nell’elaborazione giurisprudenziale, tale direttiva ermeneutica ha portato ad una progressiva riduzione dell’area di incidenza dell’art. 2236 c.c., dato che l’ampiezza del contenuto delle regole professionali riconducibili alla perizia circoscrive i casi in cui sia dato riscontrare problemi di speciale difficoltà e tali da consentire l’esenzione da responsabilità in assenza di colpa grave: in altre parole, l’area di rilevanza della colpa professionale esibisce una tendenza a slittare dalla diligenza alla perizia, dato che soltanto per questa si può porre una questione di speciale difficoltà.
2.1. Qui la ricognizione del dato giurisprudenziale, alla quale pure si dovrà dedicare poi qualche cenno nel successivo sviluppo di questo scritto, non può prescindere da una breve riflessione su un tema classico della responsabilità professionale medica e la cui centralità, al fine di individuare l’ambito della misura di diligenza in concreto esigibile dal debitore della prestazione professionale, parrebbe destinata ad accrescersi proprio all’esito della qualificazione della responsabilità in materia come riconducibile, in ogni caso, all’area della responsabilità da inadempimento.
Si intende alludere, come è evidente, alla distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, che rinveniva il proprio nucleo essenziale, a volerlo individuare in via naturalmente assai sintetica, nell’assunto secondo il quale ai due tipi di obbligazione potessero corrispondere due distinte regole di responsabilità: l’art. 1176 c.c., quanto alle obbligazioni di mezzi e l’art. 1218 c.c., quanto alle obbligazioni di risultato, premessa dalla quale si facevano discendere corollari di assai agevole rilevabilità sul piano del concreto configurarsi del regime probatorio nell’uno e nell’altro caso.
Occorre tuttavia dare atto che questa distinzione, già oggetto di una ben nota e raffinata critica in epoca ormai risalente, pare ormai essere entrata definitivamente in crisi anche al livello della elaborazione giurisprudenziale: ed infatti un’ancora recente sentenza delle Sezioni Unite della Suprema Corte ha affermato che la distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato “non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d’opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto altresì che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni”. Corretta appare, in particolare, nell’impostazione di questa sentenza, la notazione, del resto coerente all’intuizione della dottrina alla quale, come si è accennato, si doveva la prima critica della figura, secondo la quale la distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato sconta il limite di non tenere conto della relatività dei concetti di mezzi e di risultato, nel senso che “un fatto valutato come mezzo in ordine ad un fine successivo, rappresenta già un risultato quando sia considerato in sé stesso, come termine finale di una serie teleologica limitata. Le cure del medico sono un mezzo per la guarigione del malato, ma sono un risultato se lo scopo preso in considerazione è quello di essere curato”: e d’altra parte, come è stato efficacemente notato, “è la struttura stessa del rapporto obbligatorio a esigere il risultato, oltre al comportamento dovuto: si trascura spesso, infatti, che la prestazione oggetto dell’obbligazione deve corrispondere ad un interesse, patrimoniale o non, del creditore” con il corollario che “tenendo conto altresì del principio di buona fede oggettiva, oggetto dell’obbligazione è non già un mero agere, un’azione che si esaurisce nella sfera del debitore, ma un bene facere produttivo di un risultato utile per il creditore”.
Né va trascurato che già in precedenza si era osservato, proprio con riferimento alla responsabilità del medico, che l’utilizzazione giurisprudenziale della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato celava in realtà, secondo un modulo argomentativo e decisionale tutt’altro che inusuale, regole da essa del tutto autonome.
In particolare, si era richiamato l’orientamento giurisprudenziale, sul quale si avrà modo di ritornare, che “muove dalla distinzione tra interventi operatori di facile esecuzione ed interventi operatori di difficile esecuzione per consacrate un diverso regime probatorio nel senso che nel primo caso, provata dal paziente la non difficile esecuzione dell’intervento richiesto, spetta al professionista l’onere di dimostrare che l’insuccesso dell’operazione non è dipeso dalla propria negligenza ed imperizia; mentre nel secondo caso, una volta provato dal professionista che l’intervento implica problemi tecnici di particolare difficoltà, è il paziente che deve dimostrare le modalità ritenute non idonee di esecuzione dell’atto e delle prestazioni postoperatorie”. Ed in tale prospettiva si era sottolineato che “la formula della presunzione di colpa applicata agli interventi ‘facili’ rappresenta un espediente retorico anche piuttosto maldestro dietro il quale si cela il fenomeno, assai più significativo che non il mero diverso articolarsi dell’onere della prova, di un mutamento dell’oggetto dell’obbligazione la quale ora si identifica non più con la mera osservanza delle regole dell’arte, ex art. 1176, co. 2° e 2236 c.c., ma con il buon esito dell’operazione”.
Lo sbocco di tale costruzione si coglie, quanto all’area degli interventi che non implichino particolari difficoltà di esecuzione, sul piano della trasformazione dell’obbligazione c.d. (a questo punto) di mezzi in un’obbligazione c.d. di risultato, cosicché sul debitore ricadrà l’onere di provare non già e soltanto di avere agito diligentemente, bensì che il mancato raggiungimento del risultato dovuto sia ascrivibile a cause a lui non imputabili ed al di fuori della sua sfera di controllo e di azione (come ad esempio, una pregressa condizione peculiare patologica del paziente, non suscettibile di essere accertata in sede di anamnesi o attraverso gli strumenti diagnostici del caso).
Nel caso di interventi qualificabili come di difficile esecuzione, invece, il creditore – paziente dovrà dimostrare la colpa grave del medico, poiché essa costituisce oggetto dell’obbligazione: ed infatti, come chiarito dalla dottrina più volte richiamata, gli artt. 1176, co. 2° e 2236 “sotto specie di un limite della responsabilità per inadempimento, fissa(no) piuttosto un limite dell’obbligazione stessa”.
3. La verifica del dato giurisprudenziale alla quale qui appresso ci si volgerà restituisce tuttavia l’immagine di pronunce che, pur in presenza dei principi enunciati dalle Sezioni Unite nella sentenza da ultimo richiamata, faticano ancora a discostarsi, in sede di soluzione dei casi di responsabilità medica, dal modello argomentativo della presunzione di colpa ovvero dall’argomento res ipsa loquitur.
Infatti, e per riagganciarsi subito al tema, da ultimo trattato, della distinzione tra gli interventi di facile esecuzione e quelli che, invece, non possano essere qualificati come tali, tra le regole giurisprudenziali accreditate si può rammentare quella che qualifica in termini di colpa grave la condotta nel caso di organizzazione inadeguata del servizio; ovvero l’altra che perviene ad analoga conclusione quanto alla condotta del medico di fiducia del paziente, che, pur essendosi accorto di una situazione grave nella quale versava il medesimo, abbia omesso di interessarsi ulteriormente al caso, benché il paziente fosse ricoverato in una struttura ospedaliera.
Uno dei principi alla base di queste affermazioni si trova efficacemente sintetizzato in una massima ormai non recentissima, ma dalla quale può essere utile muovere e secondo la quale “la limitazione della responsabilità professionale del medico ai soli casi di dolo o colpa grave a norma dell'art. 2236 c.c. si applica nelle sole ipotesi che presentino problemi tecnici di particolare difficoltà (perché trascendono la preparazione media o perché non sono stati ancora studiati a sufficienza, ovvero dibattuti con riguardo ai metodi da adottare) e, in ogni caso, tale limitazione di responsabilità attiene esclusivamente all'imperizia, non all'imprudenza e alla negligenza, con la conseguenza che risponde anche per colpa lieve il professionista che, nell'esecuzione di un intervento o di una terapia medica provochi un danno per omissione di diligenza ed inadeguata preparazione; la sussistenza della negligenza va valutata in relazione alla specifica diligenza richiesta al debitore qualificato dall'art. 1176, comma 2, c.c. ed il relativo accertamento compete al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato”.
La centralità che assume la valutazione della perizia del professionista medico, individuata alla stregua di parametri tecnici imperniati sulla considerazione dello stato della singola disciplina scientifica, spiega l’orientamento secondo il quale “il comportamento dello specialista ortopedico che adotti pratiche terapeutiche diverse da quelle raccomandate dalla letteratura medica non è conforme al canone della perizia del medico professionista e determina responsabilità per inadempimento indipendentemente dalla circostanza che il sanitario non disponesse, presso la sua struttura ospedaliera, dei mezzi necessari per far ricorso alla migliore tecnica”.
Si tratta di un’enunciazione di particolare importanza, poiché la stessa vale a conformare il giudizio di colpa non soltanto sulla base di standards rigorosamente oggettivi, ma, ancora più precisamente, sulla base di standards desunti dal livello più elevato di conoscenze cui sia giunta, in quel periodo, la scienza medica: in altre parole, nella tensione tra la discrezionalità del medico, nello scegliere le pratiche diagnostiche o terapeutiche da lui ritenute preferibili, ed i dati desumibili dalle best practices della scienza medica prevalgono questi ultimi, in sede di formulazione del giudizio di responsabilità
E’ stato, poi, affermato, già da tempo risalente, e proprio attraverso l’utilizzazione di quella tecnica argomentativa della presunzione di colpa, cui si faceva poc’anzi cenno, che quando l’intervento sia di facile esecuzione poiché rientra tra quelli per i quali la scienza medica ha da tempo conseguito la sicurezza dell’esito e per i quali la statistica offre indici di elevatissima probabilità di successo, il mancato raggiungimento del risultato lascia presumere la negligenza del professionista.
Pertanto, in casi in cui non ricorrano problemi tecnici di particolare difficoltà, l’attore assolve l’onere della prova che gli incombe attraverso la dimostrazione che l’operazione (o il trattamento terapeutico post – operatorio) si configurava come di facile esecuzione e che, ciò nonostante, ne è derivato un risultato peggiorativo; mentre il professionista dovrà provare il contrario e cioè che la prestazione era stata eseguita in maniera adeguata e che l’esito peggiorativo era stato causato dal sopraggiungere di un evento imprevisto ed imprevedibile oppure dalla preesistenza di una peculiare condizione fisica del paziente, non suscettibile di essere accertata con l’ordinaria diligenza professionale.
All’interno dell’indirizzo che si sofferma sulla distinzione tra interventi di facile esecuzione ed interventi che, al contrario, non tollerino una qualificazione in questi termini, una precisazione importante è quella formulata dalla sentenza della Suprema Corte secondo la quale “per qualificare una prestazione professionale come atto implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà rileva sia la novità e speciale complessità dei problemi tecnici, sia il grado di abilità necessaria per affrontarli, sia il margine di rischio che l’esecuzione dell'atto medico comporta, mentre non costituisce certamente circostanza di significato univoco l'alto tasso di esiti negativi di un certo intervento su una certa patologia. L'accertamento relativo alla sussistenza di tali presupposti compete al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato. La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva quale criterio di distribuzione dell'onere della prova, bensì quale criterio per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione sia di particolare difficoltà”. Resta, infatti, confermato, in tal modo, quanto avevamo accennato in sede di approccio agli indirizzi giurisprudenziali in materia di individuazione dell’area degli interventi di facile esecuzione: e cioè che tale criterio rileva appunto sul piano della valutazione del grado di diligenza e del grado di colpa del medico candidato responsabile, così investendo in pieno l’area del problema dell’elemento soggettivo dell’illecito.
I principi, appena illustrati, e che, come accennato, valgono a modulare il concreto contenuto della coppia colpa/diligenza nell’area degli interventi di non particolare difficoltà, hanno trovato concretizzazione assai rigorosa anche nella più recente giurisprudenza della Suprema Corte, secondo la quale “In caso di prestazione professionale medico - chirurgica di "routine", spetta al professionista superare la presunzione che le complicanze siano state determinate da omessa o insufficiente diligenza professionale o da imperizia, dimostrando che siano state, invece, prodotte da un evento imprevisto ed imprevedibile secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento. Ne consegue che il giudice, al fine di escludere la responsabilità del medico nella suddetta ipotesi, non può limitarsi a rilevare l'accertata insorgenza di "complicanze intraoperatorie", ma deve, altresì, verificare la loro eventuale imprevedibilità ed inevitabilità, nonché l'insussistenza del nesso causale tra la tecnica operatoria prescelta e l'insorgenza delle predette complicanze, unitamente all'adeguatezza delle tecniche scelte dal chirurgo per porvi rimedio”.
Una regola operativa analoga, anche se da un angolo visuale diverso, si desume dall’enunciazione secondo la quale “benché l'esecuzione dell'intervento richieda un impegno tecnico professionale speciale, il professionista ha l'obbligo di adottare tutte le precauzioni per impedire prevedibili complicazioni e di adoperare tutta la scrupolosa attenzione che la particolarità del caso richiede, secondo la prudenza e la diligenza esigibili dalla specializzazione posseduta, e per l'inosservanza di tali obblighi risponde anche per colpa lieve. E poiché l'obbligo della prestazione secondo le "leges artis", che il professionista deve provare di aver rispettato, persiste per il chirurgo per tutte le fasi dell'intervento, anche per quelle post-operatorie, egli deve attentamente seguire il paziente anche in relazione a possibili e non del tutto prevedibili eventi che possono intervenire dopo l'intervento, ponendo in essere tutte le precauzioni e i rimedi conosciuti e conoscibili dalla scienza e alla pratica medico specialistica del settore conosciuti e conoscibili in quel dato momento storico”.
E’ agevole constatare, a conferma di quanto poc’anzi si osservava in ordine ai corollari che il sostanziale superamento della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato porta con sé, che le enunciazioni fin qui passate in rassegna si collocano, in effetti, più sul versante della costruzione dell’area degli obblighi gravanti sul professionista medico che non su quello dell’elemento soggettivo dell’illecito: ma anche questo è, in effetti, un aspetto di rilievo sistematico, poiché conferma l’importanza dell’impostazione, la quale costituisce la premessa dalla quale si è preso le mosse in questa sede, che riconduce l’area della responsabilità del professionista medico a quella della responsabilità da inadempimento di un’obbligazione preesistente.
3.1. Il discorso sulla concretizzazione del giudizio di responsabilità – e quello, ad esso strettamente connesso, come ormai dovrebbe essere chiaro – della delimitazione dell’area degli obblighi gravanti sul professionista medico, può opportunamente dedicare un cenno alla considerazione di alcune recente enunciazioni che si soffermano sugli obblighi del professionista medico relativi alla corretta tenuta della cartella sanitaria.
E’ stato affermato, in particolare, che, “in ambito sanitario, il medico ha l'obbligo di controllare la competenza e l'esattezza delle cartelle cliniche e dei relativi referti allegati, la cui violazione comporta la configurazione di un difetto di diligenza rispetto alla previsione generale contenuta nell’art. 1176, 2° co. c.c. e, quindi, un inesatto adempimento della sua corrispondente prestazione professionale” e nello stesso senso è stato precisato che “in tema di responsabilità professionale del medico, le omissioni nella tenuta della cartella clinica al medesimo imputabili rilevano sia ai fini della figura sintomatica dell'inesatto adempimento, per difetto di diligenza, in relazione alla previsione generale dell'art. 1176, secondo comma, cod. civ., sia come possibilità di fare ricorso alla prova presuntiva, poiché l'imperfetta compilazione della cartella non può, in linea di principio, non tradursi in un danno nei confronti di colui il quale abbia diritto alla prestazione sanitaria”.
L’interesse di tali enunciazioni sta nel fatto che l’inadempimento degli obblighi del medico quanto alla tenuta della cartella rileva, a questa stregua, di per sé come condotta idonea ad incidere sul giudizio di esatta e diligente esecuzione della prestazione, proprio perché lo status del professionista medico rende da lui esigibile, e per lui doverosa, una condotta ispirata all’adempimento scrupoloso degli obblighi di informazione e di documentazione sulla patologia del paziente che si affida alle sue cure.
3.1.1. Un discorso analogo rispetto a quello fin qui svolto (nel senso che si tratta, anche qui, di una specifica modalità della condotta esigibile dal professionista sanitario che permette di costruire il contenuto degli obblighi sullo stesso gravanti) vale per il tema del consenso informato, la cui violazione, implica, di per sé, inadempimento colpevole e, come tale, fonte di responsabilità.
Infatti, nell’elaborazione giurisprudenziale di legittimità è stato da tempo precisato che “la correttezza o meno del trattamento non assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato, in quanto è del tutto indifferente ai fini della configurazione della condotta omissiva dannosa e dell'ingiustizia del fatto, la quale sussiste per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit di informazione, non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni”.
Nello stesso ordine di idee, è stato rilevato, da ultimo, che vi può essere un risarcimento anche nell'ipotesi di una semplice violazione del diritto di autodeterminazione, verificatasi per la mancata informazione da parte del medico sulle conseguenze dell'intervento terapeutico al paziente, pur senza correlativa lesione del diritto alla salute, ricollegabile a quella violazione, per essere stato l'intervento predetto necessario e correttamente eseguito; al contrario, la risarcibilità del danno da lesione della salute che, si verifichi per le non imprevedibili conseguenze dell'intervento medico necessario ed eseguito correttamente, ma senza la preventiva informazione del paziente circa i suoi possibili effetti pregiudizievoli, dunque, in assenza di un consenso consapevolmente prestato, richiede l'accertamento che il paziente avrebbe rifiutato quel determinato intervento se fosse stato adeguatamente informato.
Sulla stessa linea si era già posto il Tribunale di Genova che, dopo aver escluso una colpa professionale “per inadeguata diagnosi o per una non corretta scelta terapeutica”, ha riconosciuto la responsabilità del sanitario per omessa o insufficiente o, comunque, non adeguata informazione e consenso, e ciò partendo dal presupposto che il consenso informato costituisce un diritto fondamentale di rilevanza costituzionale, la lesione del quale costituisce un danno ingiusto per definizione, fonte di risarcimento. In particolare, questa sentenza ha individuato “il bene giuridico che viene offeso nei casi in cui l'attività medica non sia stata preceduta da adeguata informazione e consenso” nella “dignità umana, visto che senza informazione adeguata e rispettosa del paziente, e dunque anche dei suoi limiti culturali e delle sue umanissime paure di fronte all'atto medico, questi non è più "persona", ma oggetto di esperimento o di un'attività professionale che trascura il fattore umano su cui interviene, dequalificando il paziente stesso da "persona" a "cosa”” e nell'“autodeterminazione delle persone”.
Una concretizzazione particolarmente interessante dell’obbligo di informazione, e, dunque, una tecnica di modulazione a sua volta di notevole interesse del giudizio di colpa/diligenza, è quella che si desume dalla elaborazione giurisprudenziale in materia di responsabilità del chirurgo estetico.
Anche in questo caso, come è stato rilevato pure di recente in dottrina, l’elaborazione giurisprudenziale appare incline a proporre moduli di ragionamento che fanno ancora ricorso alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato, osservandosi che, nel caso in cui il medico abbia garantito un miglioramento estetico, e l’intervento si sia invece risolto in un peggioramento, il medico sarà ritenuto responsabile per l’inadempimento; e dalla constatazione di questa tecnica argomentativa e decisoria si fa discendere il corollario che l’obbligazione resta di mezzi, a meno che il paziente non possa dare la prova che la controparte non aveva adempiuto l’obbligo di informazione ovvero non possa provare che il contenuto dell’oggetto del contratto si estendeva altresì ad un determinato risultato.
La costruzione di queste ipotesi in termini di inversione dell’onere della prova non appare peraltro del tutto persuasiva, anche alla luce di quanto si dirà tra breve sui profili più strettamente processuali della materia: ed infatti l’onere della prova resta modellato sempre allo stesso modo, mentre diverso sarà il contenuto dell’obbligo di prestazione, e soprattutto di informazione, gravante sul chirurgo estetico.
Non appare allora casuale che proprio sul peculiare articolarsi dell’obbligo di informazione del chirurgo estetico ponga l’accento, in effetti, l’elaborazione giurisprudenziale, ravvisandovi il criterio privilegiato di soluzione dei casi di specie.
Possono essere richiamate, in questa prospettiva, le recenti enunciazioni secondo le quali “il dovere di informazione gravante sul chirurgo estetico è più ampio e articolato che nel caso di interventi chirurgici urgenti o comunque strettamente necessari, essendo evidente che il paziente che decide di sottoporsi ad un intervento operatorio di chirurgia estetica intende ottenere esclusivamente un miglioramento del proprio aspetto fisico ed ha pertanto il diritto di conoscere esattamente le modalità, i risultati prevedibili ed i rischi possibili dell'intervento, al fine di esprimere un consenso realmente informato, e dunque una scelta pienamente consapevole”, con le ulteriori precisazioni, del tutto coerenti con i principi anche poc’anzi richiamati, secondo i quali “è ammissibile il risarcimento della lesione alla salute e all'integrità fisica del paziente non correttamente informato, qualora esse, a seguito dell'esecuzione del trattamento, si presentino peggiorate. La mancata acquisizione del consenso informato del paziente costituisce fonte autonoma di responsabilità, a prescindere dal fatto che l'operazione sia stata correttamente eseguita dal punto di vista tecnico”. E la rilevanza decisiva, in sede di formulazione del giudizio di colpa/diligenza del chirurgo estetico, dell’obbligo di informazione risulta anche da un’ancora recente sentenza della Corte di Cassazione, secondo la quale “non si configura un inadempimento contrattuale imputabile al chirurgo estetico, ove risulti accertato che l'operazione è stata eseguita a regola d'arte, che le conseguenze della permanenza di cicatrici erano state indicate come effetto inevitabile dell'intervento, date le condizioni biologiche del paziente, e che quest'ultimo aveva validamente acconsentito con atto scritto alle modalità dell'operazione ed ai suoi esiti cicatrizzanti permanenti”.
4. Costituisce risultato da tempo acquisito quello secondo il quale il fatto colposo può discendere anche dalla violazione di uno specifico obbligo di condotta: trattandosi, in questa prospettiva, di verificare la sussistenza dell'obbligo di attivarsi per la tutela di determinati beni, allo scopo di impedire il verificarsi di un evento dannoso: è il problema della colpa omissiva.
In particolare, dato che ogni individuo è in linea generale libero di astenersi dall’agire e che quindi, diversamente da quanto previsto dall’art. 2043 c.c., non può ritenersi che chiunque abbia la possibilità di intervenire per evitare un evento dannoso sia tenuto a farlo, con la conseguente sanzione del risarcimento in caso di inattività, il nodo da sciogliere è accertate quando tale obbligo invece sussista: e la risposta più immediata - l’omissione è fonte dell’obbligazione risarcitoria quando l’obbligo di impedire l’evento è previsto da una norma di legge o da uno specifico rapporto negoziale – rende evidente che l’argomento merita un cenno per l’area di problemi trattati in questa sede, con riferimento ai quali viene in considerazione la costruzione di obblighi di comportamento del professionista medico, discendenti da uno specifico titolo contrattuale ovvero dallo status professionale del soggetto.
Basti rammentare, per restare alla concretizzazione giurisprudenziale che, in questa prospettiva va letto l’orientamento, di recente consacrato nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo il quale “in materia di responsabilità da omessa vigilanza del Ministero della Sanità (ora della Salute), premesso che sul ministero gravava un obbligo di controllo, direttiva e vigilanza sull'impiego di sangue umano per uso terapeutico (emotrasfusioni o preparazione di emoderivati) anche strumentale alle funzioni di programmazione e coordinamento in materia sanitaria, affinché fosse utilizzato sangue non infetto e proveniente da donatori conformi agli standards di esclusione di rischi, il giudice, accertata l'omissione di tali attività, accertata altresì, con riferimento all'epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto ed accertata - infine - l'esistenza di una patologia da virus HIV o HBV o HCV in soggetto emotrasfuso o assuntore di emoderivati, può ritenere, in assenza di altri fattori alternativi, che tale omissione sia stata causa dell'insorgenza della malattia, e che, per converso, la condotta doverosa del Ministero, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la verificazione dell'evento”.
5. Un rapido cenno merita anche il profilo specificamente probatorio e processuale del giudizio di responsabilità gravante sul professionista sanitario: ed è infatti evidente, senza voler a questo punto ritornare sulla distinzione, sulla quale sovente si sofferma la giurisprudenza della Suprema Corte, tra piano del giudizio di negligenza e regime dell’onere della prova, che la concreta applicazione del giudizio di responsabilità presuppone una considerazione del modo in cui le stesse si concretizzano nel processo.
Qui va innanzi tutto rammentato che l’ascrizione della responsabilità del professionista medico all’area della responsabilità da inadempimento di un’obbligazione preesistente consente senz’altro di ritenere applicabile in materia la regola, sul riparto dell’onere della prova, ormai da tempo accreditata nella elaborazione giurisprudenziale delle Sezioni Unite della Suprema Corte: con il corollario che al paziente creditore della prestazione sarà sufficiente provare la fonte, negoziale o derivante dagli obblighi di status professionale, del suo diritto, allegando l’inadempimento del debitore, mentre incomberà su quest’ultimo dimostrare il fatto estintivo dell’altrui pretesa e cioè l’adempimento.
Notevole interesse ai nostri fini presenta anche l’ulteriore corollario che da questa premessa la giurisprudenza delle Sezioni Unite trae, nel senso che “anche nel caso in cui sia dedotto non l'inadempimento dell'obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell'obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l'onere di dimostrare l'avvenuto, esatto adempimento”: ed infatti, a tale stregua, anche gli obblighi accessori di protezione, dei quali il rapporto obbligatorio di cui è termine di riferimento passivo il professionista sanitario.
Tali conclusioni sono naturalmente rafforzate dalla considerazione della regola giurisprudenziale della c.d. vicinanza della prova, che pone a carico della parte ‘più vicina’ al fatto da provare l’onere di dimostrare il fatto costitutivo o il fatto estintivo: è anche sulla premessa di tale regola giurisprudenziale che, nella controversia decisa dalla già menzionata sentenza delle Sezioni Unite in tema di danno da emotrasfusione, in cui il danno da emotrasfusione veniva inquadrato come ipotesi di responsabilità contrattuale del medico e della struttura sanitaria, le Sezioni unite hanno dettato i seguenti principi di diritto: a) in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l'aggravamento della patologia, o l'insorgenza di un'affezione, e allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante;
I cenni al piano probatorio e processuale dell’elemento soggettivo dell’illecito si ricollegano, poi, all’utilizzazione della tecnica argomentativa, cui si è già fatto cenno, della res ipsa loquitur, alla cui stregua, e per mezzo di un richiamo alle regole di comune esperienza, si perviene ad affermare la responsabilità del medico, sulla premessa della ragionevole dipendenza di un certo evento da una data condotta negligente: in altre parole, attraverso questa tecnica, il danneggiato può allegare l’illiceità della condotta del professionista medico che assumeranno il valore di prova, all’esito del giudizio, qualora il medico non ne avrà paralizzato la rilevanza probatoria.
Testo della relazione svolta al Secondo Corso di Alta formazione sul diritto romano per docenti della Reppubblica Popolare Cinese, e pubblicato in cinese, con autorizzazione d’autore, in Digesta (Xue Shuo Hui Zuan), vol. IV, Pechino, 2012.
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