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Sandro Schipani:FRONTIERE ATTUALI DEL fatto illecito E RILETTURA DEI DIGESTI.

Sandro Schipani“Sapienza” Università di Roma

  FRONTIERE ATTUALI DEL fatto illecito

  E RILETTURA DEI DIGESTI.

  Sommario: 1. I tre principali momenti della formazione del sistema in materia di fatto illecito.- 2. La maturazione del principio generale della responsabilità extracontrattuale.- 3. Il ruolo dinamico del criterio di responsabilità per colpa. Prevedere/provvedere: la colpa come criterio di imputazione e come strumento di prevenzione per evitare i danni. L’imperizia si ascrive a colpa. L’ignoto e la precauzione.- 4. Fattispecie di responsabilità senza colpa. Altri strumenti per la prevenzione.- 5. Il necessario equilibrio fra: ‘la colpa è da punire’ e ‘il danno e da risarcire’. 6. - Non solo danno alla persona, ma anche offesa alla sua dignità: necessità di concorso cumulativo fra risarcimento e condanna per ciò che è buono ed equo.- 7. Distinzione fra responsabilità da contratto e axtracontrattuale.- 8. Il dovere di diligenza del danneggiato verso se stesso e di cooperare per contenere il danno.- 9. Conclusioni: rileggere i digesti, enucleare i principi, proporli.

  1. I tre principali momenti della formazione del sistema in materia di fatto illecito. Ho affrontato già diverse volte il tema della responsabilità extracontrattuale, anche ponendo in luce come il riferimento al termine-concetto ‘responsabilità’ sia moderno, essendo emerso a partire dal Settecento, affiancando altre formulazioni come ‘essere tenuto’, ‘danno’, ‘colpa’, ‘delitto’/ ‘fatto illecito’ nella individuazione sistematica di un complesso di problemi che hanno avuto momenti fondamentali di elaborazione

  a) nella legge Aquilia, nella cui interpretazione si sviluppa il principio generale della responsabilità extracontrattuale;

  b) nella sistemazione da parte di Gaio delle fonti delle obbligazioni come da contratto o da delitto (Gai. 3,88; impostazione che verrà poi integrata, e che permane alla base della nostra impostazione sistematica della materia), in cui annovera il danno ingiustificato previsto dalla legge Aquilia fra le fonti di obbligazione (Gai. 3,210 ss.), a fianco ad altri ‘delitti’, fra i quali quello di ‘atti ingiusti contro la persona’ (Gai. 3,220 ss.).

  c) nel libro nono dei Digesti di Giustiniano, in cui tale fattispecie di danno prevista dalla legge Aquilia è posta a fianco ad altre: danno arrecato da animali (D. 9,1); danno arrecato o lesione a persona provocata da cose versate o cadute da una casa e pericolo di danno o lesione che può derivare da cosa appese (D. 9,3); delitto arrecato da persone che si trovano nella potestà del padre di famiglia (D. 9,4), e si sistema la materia in un modo attento a richiamare una pluralità di prospettive.

  Ricapitolo ora alcuni punti principali che emergono da questo sviluppo e che ritengo sia importante tenere presenti in relazione all’inquadramento odierno del problema, i cui confini preferisco designare con la espressione ‘fatto illecito’, che è la più aperta.

  2. La maturazione del principio generale della responsabilità extracontrattuale. Dopo alcune norme relative a fattispecie assai ristrette, la responsabilità extracontrattuale è stata regolata nel diritto romano attraverso la legge Aquilia, in relazione alla quale si sono sviluppati una serie di interventi del pretore, e la attività creativa della scienza giuridica.

  La legge prevedeva delle fattispecie tipiche composte da quattro elementi costitutivi: a) un evento di danno, costituito dalla distruzione o dal deterioramento materiale di una cosa; b) una condotta che materialmente produce tale evento con un contatto fisico fra autore e cosa su cui la condotta incide (una tale specifica condotta, a forma strettamente vincolata, rendeva irrilevante ogni analisi dell’elemento soggettivo e del rapporto di causalità); c) la violazione del diritto di proprietà; d) la necessità della ‘ingiustificatezza’ di tale violazione, ossia l’assenza di cause di giustificazione.

  Gli interventi del pretore e la interpretazione hanno portato ad una fattispecie più articolata e generale composta da sette elementi costituitivi:

  a) l’evento di danno, includente oltre alla distruzione o al deterioramento materiale di una cosa, l’impossibilità di usarla, o la necessità di spese particolari per usarla, ed ogni implicazione patrimoniale, anche connessa ad un evento di deterioramento materiale (ferita, ecc.) di una persona libera (spese per cure; mancato guadagno);

  b) la condotta;

  c) il dolo o la colpa, intendendo questa come “non aver provveduto ciò che la persona diligente avrebbe potuto provvedere, o avervi provveduto troppo tardi” (questa nozione considera la ‘prevedibilità’ dell’evento di danno e la conseguente doverosità di evitarlo; essa può essere anche definita come la negligenza, la imprudenza, l’imperizia, la inosservanza delle norme e discipline che, in relazione alle circostanze, devono essere osservate da chi attua in tali circostanze);

  d) la capacità del soggetto agente / imputabilità;

  e) il rapporto di causalità;

  f) la violazione di un diritto altrui, non solo di proprietà, ma anche di usufrutto, uso, servitù, pegno, ma anche (in modo problematico) di credito (locazione) sulla cosa danneggiata, o diritto alla integrità personale;

  g) l’assenza di cause di giustificazione purché non eccedano con dolo o colpa i limiti ad esse funzionali.

  In sostanza, nei codici di Giustiniano è maturo il principio secondo cui: qualunque condotta dolosa o colposa, ingiustificata, che causi un evento di distruzione o di deterioramento, o la impossibilità di uso o maggiori costi per l’uso di una cosa nei confronti della quale altri ha un diritto, o la uccisione o il ferimento di una persona, con danno patrimoniale ad altri, fa sorgere l’obbligazione a pagare una somma di denaro che costituisce un risarcimento del danno patrimoniale subito.

  Questo è divenuto il principio generale in materia. L’origine di questo principio non è nella elaborazione della Scuola del diritto naturale del Settecento, ma è radicato nelle fonti romane.

  3. Il ruolo dinamico del criterio di responsabilità per colpa. Prevedere/provvedere: la colpa come criterio di imputazione e come strumento di prevenzione per evitare i danni. L’imperizia si ascrive a colpa. L’ignoto e la precauzione. Questo principio generale ha un grande ruolo dinamico nel sistema perché, grazie alla sua non tipicità, include e prevede la pena risarcitoria per ogni situazione nuova di danno che si presenti.

  Il ruolo della colpa, includente il dolo, è fondamentale. La definizione di essa data nelle fonti è di grande valore: “colpa è non avere provveduto a ciò che un uomo diligente avrebbe potuto provvedere, o avere provveduto quando ormai il pericolo non poteva più essere evitato” (D. 9,2,31). In latino provideo significa sia ‘prevedere’ che ‘provvedere’. Il ‘provvedere’ è conseguenza di una possibilità di ‘prevedere’; questa ‘previsione’ però non deve essere necessariamente presente in concreto nel singolo che compie l’attività, ma è frutto dell’esperienza accumulata in rapporto alle diverse circostanze e che produce regole di comportamento proprie a ciascuna, e che possono essere più o meno specializzate in relazione al tipo di attività, dell’uomo comune, o professionalmente qualificata, che viene svolta. Altro è ciò a cui deve ‘provvedere’ il magistrato o il medico o il conducente di animali o colui che porta un carico ecc., altra è la prevedibilità, altro il bagaglio di esperienza di ciascuno. Alla colpa così definita si ascrive la ‘negligenza’, quando si tratta della inosservanza di competenze comuni; la ‘imperizia’, quando invece si tratta di inosservanza delle competenze professionali specifiche richieste per l’attività che si compie. La mancanza di competenze specifiche, od anche una disabilità fisica, di per sé non riprovevole, viene ascritta a ‘imprudenza’, e questa viene ascritta a colpa, se è necessario avere tali competenze o avere una particolare idoneità fisica per compiere una certa attività a cui volontariamente ci si è accinti perché “non si deve cercare di fare ciò per cui capisce, o deve capire che la propria debolezza sarà pericolosa per altri”.

  Sanzionare la colpa ponendola come criterio di imputazione del danno si inserisce in una prospettiva di ‘prevenzione’ del danno, perché porta ad impegno continuo alla diligenza, prudenza, perizia, al fine di non dovere risarcire danni.

  Certamente, l’efficacia di questa impostazione è oggi in parte minata dai sistemi di assicurazione, e, in certi casi, da calcoli dei costi-benefici e della possibilità di ‘trasferire’ indirettamente l’onere del risarcimento del danno su altri soggetti. Su entrambi i profili si può operare con meccanismi che rendono più o meno onerosa la assicurazione in relazione ai danni risarciti (bonus-malus), o attraverso considerando il calcolo del vantaggio che ha chi, non dovendo risarcire danni, ha minori costi; ma sono entrambi meccanismi che non danno risposta adeguata in relazione al singolo danno. Per questo, la ‘prevenzione’ deve avvalersi anche di altri strumenti che non rientrano nel quadro della ‘responsabilità per i danni’, ma che mi pare rientrino nell’ambito delle problematiche civilistiche relative al fatto illecito: anche se si interviene spesso con regole di altri ambiti del diritto, il sistema ricorda strumenti propri del diritto civile e una legge sulla materia deve contenere anche delle norme generali relative ad essi (infra sulle azioni popolari).

  La colpa, a cui si ascrive la negligenza, la imprudenza, la imperizia, ha, come detto al suo centro la prevedibilità tradotta in esperienza e dovere di provvedere su tale base; la perizia, la esperienza di settori professionali, la conoscenza delle cose nei suoi diversi settori produce corpi di regole, che vengono assunti dal diritto, ‘regolamenti, discipline, ordini’ che hanno, come fondamento, l’essere guida per evitare danni prevedibili, e “l’imperizia si ascrive a colpa”.

  A volte, inoltre, nelle fonti romane, troviamo qualificata come colpa la violazione di regolamenti, discipline, ordini anche se il fondamento di essi non è la prevedibilità dell’evento di danno. Questa possibilità di estensione del concetto di colpa ha la conseguenza che al concetto di colpa generale, che si espande naturalmente alle circostanze ed eventi che con l’esperienza si vengono conoscendo ed i cui sviluppi diventano prevedibili e pongono il dovere di provvedere al fine di evitare danni, si possano affiancare situazioni tipicamente descritte da regole specifiche. Questa conclusione può trovare applicazione in numerosi casi, ma intendo indicarne uno solo, che oggi è al centro della nostra attenzione.

  Nelle fonti, in riferimento a problemi diversi da quello qui in esame, troviamo affermazioni di carattere generale assai interessanti, cioè che vi sono fatti sempre nuovi, fatti che non sono conoscibili con certezza neppure dai più esperti. Questo limite della esperienza e della conoscenza, della perizia viene oggi percepito in modo acuto di fronte alla accelerazione nella produzione di fatti nuovi attraverso processi tecnologici innovativi e di fronte alla mancanza di conoscenza e prevedibilità in relazione ad essi. Ciò induce a riflettere sulla necessità di ‘precauzione’. ‘Precauzione’ ci riporta ad una idea di ‘garanzia’. È stato affermata la regola secondo cui, in certi ambiti specifici (ambiente), non basta provvedere per prevenire il fatto di danno prevedibile, ma è necessario che si attenda ad operare che vi sia una ‘garanzia’, una conoscenza che garantisca la non dannosità o consenta di misurare la pericolosità; che sia, cioè, prevista la non dannosità, o la misura del pericolo di danno del processo causale che si pone in atto. Questa regola deve guidare la azione della pubblica amministrazione. Però, la violazione di regole che siano state poste a questo fine di precauzione perfezionerebbe la colpa intesa nella estensione sopra vista di violazione di regolamenti, ordini, discipline, ed il principio ora in esame risulta pertanto idoneo ad includere anche questa problematica. In rapporto ad essa, avrebbe, però, il limite di non avere quella capacità di estensione diretta che invece ha per le violazioni del nucleo legato alla prevedibilità.

  4. Fattispecie di responsabilità senza colpa. Altri strumenti per la prevenzione. Nel diritto romano, il principio della responsabilità per colpa a cui faccia seguito un danno è affiancato da una serie di altre fattispecie che rimangono tipiche, e che si fondano su criteri di imputazione diversi da quello della colpa in tale principio incluso. Alcune di esse vengono riunite, come sopra indicato, nello stesso libro dei Digesti, a fianco alla legge Aquilia, mettendo in luce la tensione fra le diverse prospettive, ed aprendo la via a sviluppi interpretativi che hanno seguito direzioni opposte, cioè, sia la linea di assimilare queste ipotesi dentro al principi della colpa, sia la linea opposta, che ritengo più corretta, di tenere presente la pluralità maturata attraverso una lunga esperienza e aperta a sviluppi che vanno anche oltre quanto disposto. Questi altri criteri, infatti, sono legati alla considerazione di fondamenti specifici di ciascuna fattispecie, fondamenti che appunto motivano l’abbandono del principio generale: così l’esigenza di ‘sicurezza’ fonda, nella fattispecie delle cose versate giù o cadute da un piano superiore di una casa in una strada o luogo ove la gente passa o si trattiene, l’adozione del criterio di imputazione a colui che abita la casa stessa, indipendentemente anche dall’avere lui tenuto una condotta causante l’evento (D. 9,3). Questa esigenza di ‘sicurezza’ potrebbe intervenire anche in altre circostanze e giustificare anche altre soluzioni. Così, non viene esplicitata la esigenza che sta alla base della responsabilità del proprietario (non dell’utilizzatore) per il danno arrecato dall’animale domestico (D. 9,2). L’affidamento è la ragione specifica che sta alla base della responsabilità del titolare della potestà per i fatti delle persone, figli in potestà e servi, che sono nella potestà dello stesso (D. 9,4). A queste fattispecie, si può affiancare ancora quella della responsabilità degli albergatori, comandanti di navi ecc. per il fatto compiuto dai loro collaboratori ai danni dei viaggiatori, per il quale non vi era loro colpa, e che si avvale di un criterio ancora diverso (D. 4,9; D. 47,5).

  Mi sembra essenziale questa complementarietà fra le due tecniche, cioè: adozione di un principio generale (“la colpa, quando produca un danno, deve essere sanzionata”); affiancamento ad esso di fattispecie tipiche che si avvalgono di diversi criteri di imputazione, che, in relazione a specifiche esigenze che li fondano, derogano al requisito della colpa, e che per questo vengono denominati, nel loro insieme, di responsabilità oggettiva.

  Per le situazioni da ultimo ricordate, in relazione alle quali non viene posto il requisito della colpa, e quindi in assenza del ruolo di stimolo alla prevenzione del danno che esso svolge, si deve ricordare che viene fatto ricorso ad altri strumenti di prevenzione. È il caso, esemplare, delle cose poste o appese ad un cornicione o tettoia in una strada o luogo ove la gente passa o si trattiene, la cui caduta possa recare danno a qualcuno. Viene data una azione popolare contro coloro che tengono tali cose appese; essi vengono condannati al pagamento di una somma di denaro a favore dell’attore. Questo esempio ci mostra la pluralità di linee da tenere presenti in base al diritto romano per attuare l’esigenza di prevenzione del danno nell’ambito del diritto civile in materia di fatti illeciti.

  5. Il necessario equilibrio fra: ‘la colpa è da punire’ e ‘il danno e da risarcire’. Ritengo che si debba altresì sottolineare, quindi, che il sistema non può essere centrato su un polo solo: il danno, o la colpa, come se fossero in opposizione l’uno all’altro: dal diritto romano emerge un equilibrio fra l’uno e l’altro. Centrare tutto il sistema sul principio secondo cui la responsabilità è diretta a punire la colpa dell’autore del danno lascerebbe insoddisfatte alcune esigenze specifiche da ultimo indicate. Ma anche la affermazione opposta, secondo cui il danno è da risarcire, sempre e comunque, cioè che tutti i danni vanno risarciti, non sembra una via percorribile. Ciò non solo perché un sistema fondato su responsabilità e patrimoni personali non può sopportarlo, e si dovrebbe ricorrere ad una sistema di assicurazione obbligatoria per ogni tipo di danno, che ne socializzasse le conseguenze con costi elevatissimi; ma ritengo anche perché il sistema relativo al fatto illecito non ha come fine esclusivo il risarcimento, ma anche, come detto (supra), la prevenzione del danno e il criterio della colpa, del dovere di diligenza sembra ad esso offra un sostegno nell’ambito della misura umana del diritto, che ritengo sia ancora centrale, nonostante i limiti rilevati (supra). In assenza di tale meccanismo, vediamo che è necessario intervenire con altri strumenti sanzionatori o inibitori di diffuso esercizio popolare volti a sviluppare un controllo sociale preventivo che non è da ritenere sia monopolio dello stato e del diritto amministrativo o pubblico. La base del sistema è però orientata ad una bilanciamento fra le due tendenze, il cui corretto punto di equilibrio può variare in relazione a molti fattori propri di ciascun ordinamento.

  6. Non solo danno alla persona, ma anche offesa alla sua dignità: necessità di concorso cumulativo fra risarcimento e condanna per ciò che è buono ed equo. Altro punto rilevante in questa problematica è quello relativo ai danni e agli atti ingiusti contro la persona. Questi vengono normalmente inquadrati sotto due profili, quello del danno, e quello del cosiddetto ‘danno morale’. Il diritto romano ammetteva la servitù, e quindi ha elaborato criteri diversi per i liberi e per i servi, ma ugualmente, facendo noi ora riferimento alle persone libere soltanto, il diritto romano ci offre indicazioni su cui riflettere. Esso ha maturato una duplice prospettiva: quella secondo cui la persona può subire un danno patrimoniale, che veniva indicato soprattutto nelle spese mediche, nel mancato guadagno e nell’eventuale permanente riduzione della possibilità di guadagno; e quella secondo cui l’atto ingiusto contro la persona non può essere fatto oggetto di valutazione di ordine patrimoniale, ma da esso può sorgere una obbligazione a favore dell’offeso non per risarcirlo di un danno, ma per il pagamento di una somma di denaro indicata secondo ciò che è ‘buono ed equo’, o per una somma fissa di denaro, come ‘pena’ per l’oggettiva offesa alla dignità della persona.

  Questa prospettiva si scontrerebbe con il principio secondo cui il nostro moderno diritto civile regola i rapporti fra i cittadini come privati e non può avere funzioni ‘punitive’, ma solo di ‘ripartizione’ dei danni, mentre il monopolio della irrogazione di ‘pene’ spetta allo stato che organizza a tale fine un tipo di processo che ha specifiche garanzie.

  Ma è propria del diritto civile la tutela di beni, come i diritti della personalità, che non sono essenzialmente patrimoniali, anche se l’obbligazione che scaturisca è, per sua essenza, sempre riconducibile ad una valutazione patrimoniale. È pertanto necessario uscire da taluni schemi che tendano a ridurre il diritto civile a diritto esclusivamente patrimoniale, e riconoscere che taluni atti di offesa alla dignità della persona non possono essere inquadrati secondo criteri di ripartizione dei danni, ma vanno presi in considerazione secondo la loro natura con criteri ad essa adeguati anche qualora l’obbligazione poi non potesse che consistere nel pagamento di una somma di denaro, o, qualora invece consistesse in un altro tipo di condotta, in caso di inadempimento dovesse essere poi valutata in denaro.

  7. Distinzione fra responsabilità da contratto e axtracontrattuale. La distinzione fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale costituisce un altro punto chiave dell’impostazione romana, anche se la rilettura giusnaturalistica tende invece a superarla, ed anche se vi è stata, e continua ad esserci una comunicazione fra i due complessi di norme.

  8. Il dovere di diligenza del danneggiato verso se stesso e di cooperare per contenere il danno. In questa cornice, vorrei anche riprendere la lettura dei Digesti, a partire da un testo assai semplice, ma che ritengo meriti di essere nuovamente meditato.

  D. 9,2,52pr. Alfenus, libro secundo Digestorum. Si ex plagis servus mortuus esset neque id medici inscientia aut domini neglegentia accidisset, recte de iniuria occiso eo agitur.

  D. 9,2,52pr. Alfeno, nel libro secondo Dei digesti. Se un servo fosse morto per delle ferite, e ciò non fosse accaduto né per negligenza del padrone né per incompetenza del medito, correttamente si agisce perché è stato ucciso ingiustamente.

  In questo esempio, ci troviamo di fronte ad una condotta che produce direttamente delle ferite, alle quali segue, dopo un certo tempo, la morte del servo ferito.

  In questo testo, a differenza che in altri nei quali la condotta produce immediatamente l’evento per il quale si agisce, l’intervallo di tempo fra la condotta e l’evento morte rende necessario approfondire una problematica che Alfeno stesso qualifica come “la soluzione giuridica si trova nella causa”: si tratta, cioè, di individuare quale sia la causa dell’evento morte, ossia, se le ferite continuino ad essere la causa dell’evento morte.

  Se la causa della morte è nelle ferite, si agirà “perché il servo è stato ucciso ingiustamente”; diversamente, si agirà solo “perché il servo è stato ingiustamente ferito”. Se, poi, si fosse agito prima per le ferite, ma, successivamente, a seguito di esse, il servo fosse morto, vediamo che un altro testo ci precisa che si può nuovamente agire, per la morte; ma nella condanna del secondo giudizio verrà detratto quanto sia stato già pagato a seguito della condanna nel primo.

  Rispetto a questa sequenza semplice dei fatti si posso avere però delle varianti, che appunto l’esempio evidenzia: la incompetenza del medico o la negligenza del padrone; si può, cioè, avere l’interferenza di altri fattori causali.

  Si noti che, in questo esempio, non ci troviamo di fronte a una pluralità di fattori causali che concorrono contemporaneamente, come invece in altri esempi pure discussi dai giuristi (è l’esempio, sempre di Alfeno, del carro tirato da muli in una strada ripida, o quello riferitoci da Ulpiano di più persone che feriscono contemporaneamente il servo), né viene precisato, come in testi posteriori, che la ferita è “mortale”. In questo esempio di Alfeno, abbiamo una causa sui cui primi effetti possono intervenire successivamente altre cause.

  Si noti altresì che in altri testi si esaminano situazioni simili, nelle quali, mentre il servo è ferito, sopravviene un’altra ferita che lo fa morire prima che maturi effettivamente l’esito della prima ferita, o sopravviene un naufragio o un crollo. Come detto, questi sono però esempi simili, ma non uguali, perché, in essi i fattori sopravvenienti sono fattori causali presentati come distinti e autonomi dalla prima ferita: il naufragio o il crollo, cioè, intervengono dopo, ma non a causa della prima ferita, e così la seconda ferita da parte di colui che definitivamente uccide il servo. Alla eventuale osservazione che, se il servo non fosse stato ferito, forse avrebbe potuto sopravvivere, si potrebbe rispondere con il parere di Labeone che sottolinea che si risponde per ciò che effettivamente viene provocato perché “una condotta suole essere mortale per uno, e non mortale per un altro”. Essendo, inoltre, la prima ferita “mortale”, la rilevanza del sopravvenire di un tale altro fattore causale aveva prodotto un dissenso fra i giuristi, in quanto gli uni ritenevano che solo al secondo fattore causale, che aveva determinato effettivamente la morte, si dovesse porre a carico l’evento morte, mentre l’autore della prima ferita dovesse rispondere solo per la ferita; altri invece consideravano che anche l’autore della prima ferita dovesse rispondere per la morte.

  Nell’esempio in esame, i fattori causali che intervengono successivamente alle ferite sono, invece, conseguenza di esse.

  L’intervento del medico, infatti, non ci sarebbe stato se il servo non fosse stato ferito. Ma l’intervento di un medico si inserisce sempre su dei processi causali che già comportano il deterioramento dell’integrità fisica della persona nei confronti della quale l’intervento si realizza. Il medico, intervenendo, deve essere competente, deve essere perito: una persona, infatti, “non deve cercare di fare ciò per cui capisce, o deve capire” che la sua imperizia sarà pericolosa per altri; la sua incompetenza, la sua imperizia può porre in atto un processo causale nuovo o non interrompere quello esistente che avrebbe potuto essere interrotto. La condotta del medico incompetente è riprovevole, si annovera a colpa, viola il generale dovere di diligenza nel proprio agire, nella sua specifica qualificazione e diventa la causa dell’evento morte di cui egli dovrà allora rispondere. La condotta del medico, comunque, si inserisce come un intervento volontario dello stesso; a volte essa è addirittura oggetto di un contratto e si pone il problema del rapporto fra le due responsabilità. Anche la condotta del proprietario, cioè del danneggiato può costituire un fattore causale e il testo mette in luce che la morte potrebbe dipendere da una sua negligenza, che potrebbe proprio consistere anche nel non aver chiamato il medico. Il punto merita una specifica attenzione, perché la condotta del danneggiato non è come quella del medico che interviene volontariamente sul processo causale in atto, ma si configura come un non attivarsi per contenere, per limitare il danno, mentre, a seguito delle ferite al servo, tale attivarsi sarebbe stato dovuto, ma tale dovere sorge non per volontà di colui che vi è tenuto. Le ferite al servo, cioè, fanno sorgere un obbligo del danneggiato di attivarsi per farle curare al fine di evitare l’evento morte, o di ridurre comunque la gravità di esse. Sotto il profilo del rapporto di causalità naturalisticamente inteso, infatti, la inattività del danneggiato non potrebbe rilevare diversamente dalle restanti circostanze presenti; essa rileva solo in una prospettiva giuridica nella quale è qualificata come riprovevole, come violazione di un dovere, e quindi in quanto vi è un dovere di operare diversamente, di cooperare con il danneggiante per ridurre il danno, o, più genericamente, di operare diligentemente nei confronti di se stesso. Le spese per le cure mediche sono quindi da risarcire anche proprio perché il danneggiato dalle ferite è tenuto ad esse.

  Questa problematica ha anche sviluppi assai interessanti ed estesi nell’ambito della responsabilità contrattuale, che qui evidentemente ometto, e che, in Italia, prima che il legislatore dettasse una norma in materia (Ccit./1942, art. 1227 co.2), erano stati appunto affrontati e risolti sulla base del diritto romano. La dottrina fece riferimento a D. 19,1,21,3, e ad altri numerosi testi e la Cassazione, anch’essa con riferimento alla compravendita, interpretò la facoltà riconosciuta al compratore dal Commercio /1882 art. 68 co. 3 di provvedere per conto e a spese del venditore come un dovere di non restare inerte, prospettando l’esistenza di un principio di dovere di cooperazione al fine della riduzione del danno, e che la radice di tale dovere sia nella buona fede. Sembra, però, che il fondamento del dovere predetto possa essere in modo generale, sia per l’ambito extracontrattuale che contrattuale, radicata in un generale dovere di diligenza che riguarda tutti gli uomini nei loro rapporti con gli altri, con una lettura molto più consona alla applicabilità vuoi del principio, vuoi del citato articolo di legge che lo ha codificato, sia all’uno che all’altro ambito.

  9. Conclusioni: rileggere i digesti, enucleare i principi, proporli. Concludendo, vorrei compiere una sintetica osservazione di metodo sull’uso del diritto romano.

  La dottrina non solo prepara i codici, ma può farlo perché, nel nostro sistema, ha il sostegno dei principi di esso.

  Rileggere i Digesti porta ad una riflessione critica per enucleare i principi maturati nella età della formazione del sistema e consolidati nei codici di Giustiniano, e può portare alla individuazione anche di nuovi o diversi possibili sviluppi di essi. Questi principi vanno proposti al confronto con i codici attuali e le impostazioni più recenti presenti nel sistema, e, eventualmente, al di fuori del sistema, per cercare la soluzione “migliore e più equa”, come indicato da Giustiniano.

  Rileggere i Digesti serve quindi anche a guidare nella lettura delle leggi esistenti, e, se necessario, a integrarla. L’ultimo principio che ho richiamato è in questo esemplare: il Ccit./1865, sulla scia del Ccfr./1804 aveva taciuto su un principio che pure era stato elaborato nella età della formazione del sistema, e che viene riscoperto dalla dottrina; ciò porta ad una utlizzazione diretta di esso da parte dei tribunali, e porta, poi, a formulare un articolo nuovo che viene inserito nel Ccit./1942, che va letto e riletto sempre alla luce dei principi, che lo hanno ispirato e che possono aiutare a trarne contributi nuovi.

  Le frontiere del rinnovamento: del ruolo della colpa come strumento di prevenzione del danno incorporato nel principio generale; della individuazione dei limiti della perizia e delle esigenze di precauzione; della individuazione di ambiti nei quali ragioni importanti fondano l’abbandono del principio della colpa e l’adozione di criteri diversi di responsabilità; di altri strumenti civilistici di prevenzione, quali le azioni popolari; della valutazione del danno e delle offese alla integrità e dignità della persona con un concorso cumulativo fra risarcimento e condanna per ciò che è buono ed equo; del corretto equilibrio fra la colpa è da punire’ e ‘il danno e da risarcire’; della conservazione della distinzione fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale; e infine del dovere di diligenza del danneggiato verso se stesso e di cooperazione per il contenimento del danno mi sembrano problemi per quali la rilettura dei Digesti ci consente di dialogare nella ricerca delle soluzioni migliori da offrire a tutto il sistema.

  Testo della relazione svolta al Secondo Corso di Alta formazione sul diritto romano per docenti della Reppubblica Popolare Cinese.

发布时间:2013-03-05  
 

Centro di studio del diritto romano e italiano presso Universita
della Cina di scienze politiche e giurisprudenza
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