Enrico del Prato
Ordinario di Diritto civile nell’Università Roma Tre
Il contratto all’inizio del XXI secolo: uno sguardo a temi e prospettive
1.Invarianti naturalistiche degli atti di autonomia e trasformazioni nel regime del contratto. 2. Fonti, sussidiarietà, usi, autorità indipendenti, discipline secondarie inderogabili. 3. Nullità speciali e nullità di protezione. 4. Tipologie contrattuali: criteri effettuali e connotazioni di contratti. 5. Il problema della giustizia del contratto. Equilibrio normativo ed equilibrio economico. I contratti del consumatore. L’impari forza contrattuale e il cosiddetto terzo contratto. Il principio di proporzionalità. 6. La stagione delle clausole generali. 7. Unità del sistema. Sussidiarietà. 8. Il contratto nel web.
1. Nel chiudere la prima lezione, sulla natura degli atti di autonomia privata, dicevo che le novità normative postcodicistiche non hanno innovato le caratteristiche salienti di quegli atti. Intendevo riferirmi essenzialmente alle note naturalistiche, cioè all’intrinseco modo di essere degli atti di autonomia, qual è percepito al livello normativo e, conseguentemente, regolato. Ma ciò non deve lasciar presumere che il contesto del contratto sia rimasto statico: esso, al contrario, ha subito profonde trasformazioni da più prospettive, delle quali offrirò ora una sintetica rassegna segnalando alcuni tra i temi che hanno maggiormente intrattenuto dottrina e giurisprudenza.
Da premettere è che le prospettive e le trasformazioni di cui andiamo a parlare sono tutte maturate nel corso del secolo passato e si sono delineate in modo netto negli anni ’90, in cui si registrano variegati e significativi interventi nel regime del contratto. Questa constatazione, però, non consente di adombrare una crisi del contratto. Il problema della crisi degli istituti giuridici è antico e spesso li accompagna nel loro divenire plurisecolare senza che la crisi manifesti qualche sopravvento. L’esempio più eclatante, probabilmente, è dato dallo studio storico del diritto romano, la cui crisi è narrata da decenni senza che, tuttavia, se ne possa negare il consistente peso formativo, la cui miglior conferma ci viene proprio dall’attenzione che vi manifestano gli studiosi cinesi. Di istituti come la proprietà e il contratto tante volte s’è affermata la crisi e si è preconizzato il declino, senza, tuttavia, alcun serio riscontro nella realtà concreta.
Non sarebbe azzardato –forse un po’ irriverente- pensare che queste crisi, piuttosto che degli istituti, siano crisi dei giuristi, citando quanto affermava molti anni fa un eminente romanista (R. Orestano) a proposito della crisi dello studio del diritto romano. Va detto che, su questo piano, molto peso hanno l’atteggiamento ed il gusto dell’interprete, cioè del singolo giurista, e, in particolare, il bisogno di esaltare punti di cesura e trasformazioni di paradigmi o, di contro, la tendenza a mettere in luce i segni di continuità e sistematicità; il desiderio di trarre spunti per qualche originalità da interventi normativi, spesso frettolosi se non improvvisati, e da trasformazioni sociali, o, al contrario, la fiducia riposta nella capacità di assorbimento delle novità normative e sociali da parte dei vari istituti; il bisogno di assecondare mode o la ritrosia a dar credito a frastuoni; infine la tendenza a far risaltare la portata di dati normativi nuovi nonostante la rara emersione giudiziaria degli stessi.
Quest’ultima constatazione ne porta un’altra. Lo scarso riscontro giurisprudenziale di alcuni recenti interventi normativi non attesta la poca rilevanza fattuale dei fenomeni regolati, ma sovente esprime la miglior forza persuasiva e dissuasiva della legge, che riesce a perseguire efficacemente determinate finalità rimuovendo le ragioni di contenzioso, come accade, ad esempio, in tema di contratti dei consumatori, dove l’applicazione della relativa disciplina, ormai quindicinale, ha avuto un relativo approdo alle aule giudiziarie, verosimilmente per la sua spontanea osservanza. Lo stesso può dirsi, in tutt’altra dimensione, per la cosiddetta lex mercatoria, la prassi, che si suole definire spontanea, del commercio internazionale, la cui emersione giudiziaria è pressoché nulla perché anch’esse, piuttosto che essere inoperanti, sono spontaneamente osservate, segnatamente quando sono accreditate da qualche istituzione, come accade, circa il significato delle definizioni, per i cosiddetti incoterms o per il richiamo ai principi Unidroit.
Veniamo, quindi, senza pretesa di completezza, ai temi ed alle questioni alla ribalta della recente riflessione della civilistica italiana, tralasciando i dibattiti sullo jus condendum, e quindi sui vari progetti di disciplina transnazionale uniforme del contratto, che, per quanto densi di interesse, non attengono al diritto vigente. Non bisogna, tuttavia, trascurarne la funzione, che è quella di favorire un importante movimento di idee e di modelli normativi in vista della formazione di un diritto comune europeo del contratto.
2. Iniziamo con le fonti. Il modello degli anni ’40 si fonda sull’art. 1 delle disposizioni preliminari al codice civile, le cosiddette preleggi. L’art. 1 enuncia la gerarchia delle fonti enumerando, in ordine gerarchico, la legge, i regolamenti, gli usi. Esso va integrato con l’art. 1374 c.c., che richiama, nella dinamica degli effetti del contratto, le sue fonti di integrazione: la legge, gli usi, l’equità. Legge, nel testo codicistico, non allude solo alle norme primarie, cioè alle norme di legge, ma anche a quelle secondarie: vuol rappresentare, dunque, tutto il diritto scritto promanante da fonti di normazione pubbliche.
La costituzione repubblicana detta norme di rango sovraordinato alla legge primaria, ed il suo naturale primato, quale parametro di legittimità delle norme di legge ordinaria, ha acquistato in incisività mano a mano che si è avvertita la consapevolezza della diretta efficacia nei rapporti intersoggettivi delle disposizioni costituzionali immediatamente precettive.
Sul terreno costituzionale sono poi da considerare, da un lato, il fondamentale avvento delle regole di trattati internazionali mediante l’assorbimento nel tessuto costituzionale (art. 117 cost.); dall’altro l’esplicito ingresso, con una riforma del 2001, del principio di sussidiarietà (artt. 118, 4° comma, e 120, 2° comma, cost.), la cui dimensione sociale –cosiddetta orizzontale-, che una ampia corrente di pensiero riteneva già compresa nel testo del 1948 (artt. 2, 3, 29), vuol proprio demandare alla comunità sociale, e dunque all’iniziativa privata, la competenza e la legittimazione ad assumere decisioni, rilevanti nell’interesse della collettività, commisurate sui titolari degli interessi coinvolti.
Una riflessione sul punto richiederebbe uno spazio non appropriato alla sintesi necessaria in questa rassegna di questioni. Solo una indicazione: la matrice pubblicistica delle normative, primarie o secondarie, non può condizionare l’interprete nel qualificare istituti e regole, la cui corretta percezione richiede un approccio senza preconcetti ed un esame induttivo sulla scorta della funzione che gli uni e le altre esprimono. Sebbene la sede in cui una regola è posta può valere ad imprimerle un senso, nel coglierne la portata applicativa è necessario non chiudersi in una contrapposizione tra “materie” pubblicistiche e diritto privato, e comprendere la funzione delle norme per saggiarne la capacità esplicativa.
Su tale questione torneremo più avanti, quando toccherò la relazione tra diritto privato e diritto amministrativo. Ora vorrei porre in risalto un dato che muove da una delle più antiche fonti di normazione del diritto privato: gli usi ed il loro destino. Senza scendere nei più dibattuti, ma risalenti, problemi in ordine alle demarcazioni che sono operate, anche al livello normativo, tra varie categorie di usi –che, probabilmente, si risolvono in diversi atteggiamenti di una fenomenologia unitaria (usi normativi, usi negoziali, usi aziendali, usi interpretativi: artt. 1, n. 4, e 9 disp. prel. al c.c., 1374, 1340, 1368 c.c.)-, è da menzionarne la progressiva erosione: a cui, peraltro, fa riscontro, almeno nella dimensione del commercio internazionale, un frequente richiamo a forme di normazione apparentemente consuetudinaria e condivisa, rappresentate dalla cosiddetta lex mercatoria, la cui rara apparizione delle aule giudiziarie, dicevamo, può dipendere dalla sua spontanea osservanza.
All’indomani del 2000 una riflessione sulla perenzione delle categorie ordinanti nella sistematica delle fonti si è articolata lungo due versanti che si toccavano per l’incidenza su medesime materie: gli usi ed il proliferare della normativa secondaria imperativa. Due questioni e due movimenti, s’intende, che si toccano per la ragione le seconde tendono a prendere il posto dei primi.
Sul piano del diritto privato italiano si registra un incalzante incremento di normative secondarie imperative –regole cogenti di matrice amministrativa- che regolano anche minuziosamente materie che un tempo erano dominio degli usi. Un esempio, tra i molti possibili, può essere attinto dall’esperienza dei contratti bancari, il cui ambito, sia pure con qualche approssimazione, sino agli inizi degli anni ’90 era dominato dagli usi. La formazione della prassi bancaria, probabilmente, aiuta a comprendere come si formi e cosa sia realmente la consuetudine, e spiega, al contempo, le ragioni del suo declino. Si tratta, in realtà, di una formazione unilaterale, dovuta alla forza economica ed alla organizzazione di chi è capace di imporla, senza indulgere nell’illusione di un bucolico quadretto di una comunità idilliaca che forma collettivamente e spontaneamente una sua dimensione giuridica.
Ciò spiega le ragioni del declino della prassi nelle materie in cui maggiormente è avvertita l’esigenza di protezione dei soggetti economicamente meno attrezzati. Ciò è avvenuto, segnatamente a partire dagli anni ’90, mediante l’attività normativa delle autorità amministrative indipendenti (l’espressione si rintraccia nell’art. 4 della legge 21 luglio 2000 n. 205), che sono pubbliche amministrazioni concepite come centri di regolamentazione e gestione di determinati interessi, con accentuata autonomia dal potere esecutivo e dagli enti pubblici territoriali, che descrivono altrettanti ordinamenti sezionali, in cui la specialità delle materie richiede peculiari competenze tecniche.
La normazione delle autorità indipendenti incide –o, per lo meno, è legittimata ad incidere- autoritativamente sugli assetti di interessi contrattuali, dettando regole che istituiscono nullità, come accade, ad esempio, in tema di polizze assicurative, di fondi comuni di investimento, di contratti bancari. Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
La costituzione di autorità indipendenti è stata suggerita dall’esigenza di valorizzare competenze tecniche specifiche; e spesso alle autorità indipendenti sono stati attribuiti poteri normativi senza una corrispondente demarcazione di limiti, ma con la sola indicazione dei criteri individuati nelle finalità che la singola autorità indipendente deve perseguite. Abbiamo, quindi, una sorta di “dismissione” (cfr. la legge 23 agosto 1988 n. 400) piuttosto che una delega di potere normativo da parte del legislatore ordinario, in un contesto che va sotto il nome di delegificazione: con cui non si vuole alludere alla valorizzazione dell’autonomia privata, ma alla riduzione dell’ambito di operatività della legge ordinaria a vantaggio della normazione secondaria.
Talvolta, inoltre, la funzione normativa è demandata ad organi dell’esecutivo. Ad esempio, nei contratti bancari i criteri per la determinazione degli interessi sugli interessi (il fenomeno dell’anatocismo) sono demandati –da norme ordinarie del 1999- al Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio (C.I.C.R.): dunque una materia su cui dominavano gli usi, e cioè le banche, è confluita nell’ambito della disciplina secondaria imperativa.
In definitiva, al principio gerarchico si è affiancato un principio di competenza, nel senso che la legge ha individuato in determinate “autorità”, indipendenti o meno dall’esecutivo, le fonti di normazione pressoché esclusiva in alcuni specifici settori. Da un lato, dunque, abbiamo assistito all’erosione della legge ordinaria, dall’altro all’erosione degli usi a vantaggio di una frammentazione delle fonti del diritto nell’ambito delle funzioni amministrative.
È da dire, per concludere su questo punto, che, quando sulla specialità della materia si innesta un’esigenza di protezione di categorie di soggetti –i consumatori, gli utenti-, quest’ultima è sovente accreditata dalla determinazione convenzionale del contenuto contrattuale. In effetti il regime inderogabile implica un rigore che può essere esorbitante rispetto alle finalità di protezione che intende perseguire: da qui la ricerca di soluzioni concordate dalle organizzazioni collettive, come accade, ad esempio, in materia bancaria nella redazione della condizioni generali di contratto relative al rapporto banca-cliente, concordate tra l’Associazione Bancaria Italiana ed alcune associazioni di consumatori. Ne scaturisce una forma di eterodeterminazione accreditata dall’autonomia collettiva, che rappresenta una possibile base per la formazione di un uso.
3. Un riflesso di quanto abbiamo considerato sinora si coglie nella proliferazione delle ipotesi di nullità che si registra nella panoramica dei rimedi contro la patologia del contratto. Il regime dell’invalidità, sempre a partire dagli anni ’90, ha conosciuto numerosi innesti di nullità speciali, e talvolta anche di qualche, sia pur sensibilmente più ridotta e verosimilmente inconsapevole, innovazione nell’ambito delle ipotesi di annullabilità (cfr. l’art. 768 sexies c.c., in tema di patto di famiglia, e l’art. 8 della legge 6 maggio 2004 n. 129, in tema di affiliazione commerciale: il cosiddetto franchising).
Precedentemente abbiamo accennato alla nullità di protezione, cioè a tutela del consumatore, dettata dal codice del consumo per le clausole vessatorie. Questa, come tutta la ormai varia, e potenzialmente illimitata, casistica delle nullità, cosiddette speciali, a rilevanza relativa –cioè deducibili solo dal soggetto a cui favore sono previste- ha per scopo, sostanzialmente, di consentire una più spedita tutela stragiudiziale dell’interesse presidiato, diversamente da quanto accadrebbe ove si facesse ricorso a quella fenomenologia che richiede un’impugnativa giudiziale ed è rispecchiata dalle cause di annullabilità (art. 1425 e segg. c.c.) e da altre ipotesi di invalidità (art. 2113 c.c.), che vengono sovente accomunate all’annullabilità per l’esigenza di impugnativa, per lo più giudiziale, entro un determinato termine.
Ciò apre l’orizzonte verso questioni di teoria generale, su cui non intendo indugiare se non per osservare che costituisce un preconcetto omologare all’annullamento –come non di rado accade- tutte le figure di invalidità soggette a decadenza e rilevabili solo ad istanza degli interessati, che la disciplina codicistica conosce da tempo: come le invalidità matrimoniali (artt. 122 e segg. c.c.), le impugnative di deliberazioni assembleari negli enti collettivi (ad esempio: art. 24 c.c. per le associazioni; art. 1137 c.c. per il condominio; art. 2377 c.c. per la società per azioni), che non vedrei alcun ostacolo a considerare nullità soggette a decadenza anziché figure di annullamento, venendo in rilievo, per le deliberazioni, la violazione di norme imperative (art. 1418, 1° comma, e art. 1324 c.c.). Del resto, la riforma delle società di capitali del 2003 ha introdotto un limite temporale alle impugnative di deliberazioni assembleari della società per azioni anche nel caso di impossibilità o illiceità dell’oggetto.
4. Una finalità conformativa si rintraccia anche nei criteri di delineazione della tipologia contrattuale. Su questo terreno meritano di essere menzionate, tra le novità degli ultimi decenni, l’emersione di ulteriori criteri di delineazione delle discipline in funzione degli interessi perseguiti, l’elaborazione di discipline trasversali ai tipi, il richiamo normativo a modelli contrattuali elaborati da istituzioni private.
Il processo di tipizzazione dei singoli contratti ha conosciuto, verosimilmente, la sua stagione più ricca nell’elaborazione del codice civile, che ha sensibilmente accresciuto il novero dei tipi (art. 1470-1986 c.c.). L’esperienza successiva, oltre alla legislazione speciale su determinati tipi (ad es. la locazione, con la legge 28 luglio 1978 n. 392) o assetti di interessi (ad es. i rapporti agrari, con la legge 3 maggio 1982 n. 203), si è caratterizzata, segnatamente nei tempi più recenti, per una normazione su profili di contratti o di effetti, o ancora su segmenti di effetti, finanche a prescindere dal loro titolo, come accade, ad esempio, in tema di cessione dei crediti futuri (legge 21 febbraio 1991 n. 52), di contratti di subfornitura (legge 18 giugno 1998 n. 192), di contratti di affiliazione commerciale (cosiddetto franchising) (legge 6 maggio 2004 n. 129).
Ciò incrementa gli approcci funzionali alle discipline dei contratti e la conseguente tendenza ad individuare ed accorpare gruppi di modelli contrattuali (e la nozione di “modello” vuole alludere ad un fenomeno non espressamente tipizzato sul piano normativo) sulla scorta di determinati connotati comuni. Il fenomeno avviene, peraltro, anche mediante l’attribuzione di una specifica competenza normativa –secondo gli schemi prima enunciati- ad autorità amministrative: un esempio è nell’art. 117, 8° comma, del testo unico in materia bancaria e creditizia (d. lgs. 1° settembre 1993 n. 385), che attribuisce alla Banca d’Italia il potere di prescrivere che determinati contratti “o titoli individuati attraverso una particolare denominazione o sulla base di specifici criteri qualificativi abbiano un contenuto tipico determinato” e che, “ in caso di difformità i contratti o i titoli sono nulli”.
Qui –a prescindere dalle questioni alimentate dal fatto che il potere di tipizzazione, di prescrizione del contenuto di contratti e di sanzionare con la nullità le clausole difformi è attribuito alla autorità amministrativa- si configura un potere di tipizzazione materiale, e cioè quanto agli effetti, del contratto: lo “specifico criterio qualificativo” a cui allude la norma citata non si limita a descrivere la formula adoperata dalle parti, ma può individuare un assetto di interessi e colpirlo con la nullità a prescindere dal mezzo impiegato, secondo il modello delle cosiddette norme materiali.
Più recente e meno percepito è il rinvio normativo a modelli contrattuali elaborati da “istituzioni” private, che talvolta sono menzionati da norme di legge, con l’effetto di attestare che quel modello contrattuale, quantunque di fonte privata, se atipico, persegue interessi meritevoli di tutela (art. 1322 c.c.). Un esempio è nel contratto di manutenzione basato sui risultati (cosiddetto global service), uno modelli contrattuali elaborati dall’UNI – Ente Nazionale Italiano di Unificazione -che è un’associazione privata che svolge attività normativa nei settori industriali, commerciali e del terziario-, richiamato dall’art. 28, comma 2 bis, lett. e), della legge 23 dicembre 1998 n. 448.
5. Il tema della giustizia contrattuale si è affacciato a fasi alterne nella riflessione dei civilisti; un’incentivazione degli sforzi si registra a partire dalla fine degli anni ’70, ed ha fatto leva sulle regole codicistiche (segnatamente gli artt. 428, 1384, 1438, 1448 c.c.) sino a quando è stato favorito dagli interventi normativi, che lo hanno portato alla ribalta negli anni ’90, alimentando una cospicua fioritura di contributi, molti dei quali trainati dal corso degli eventi.
Il tentativo di offrire una sintesi di tendenze e risposte dinanzi all’interrogativo circa i rimedi contro il contratto ingiusto richiede qualche preliminare distinzione, che aiuterà a circoscrivere l’ambito del discorso e a tracciare le linee di indirizzo.
È emersa, con la disciplina dei contratti del consumatore, al livello normativo la distinzione, riferita al contenuto contrattuale, tra squilibrio economico e squilibrio normativo: il primo, diversamente dal secondo, insindacabile ai fini della vessatorietà (art. 34, 2° comma, codice del consumo). Tuttavia si tratta di una demarcazione non priva di ambiguità perché anche i profili normativi del contratto determinato un atteggiamento delle prestazioni, e perciò possono incidere sulla misura del corrispettivo. Dovrà, quindi, ritenersi che la prova che il corrispettivo è stato determinato anche in funzione del regime normativo pattizio porti al superamento della presunzione di vessatorietà.
Altra distinzione è tra l’ingiustizia originaria e quella sopravvenuta. Quest’ultima si risolve nel problema, di antica tradizione, dell’attitudine delle sopravvenienze a menomare il vincolo contrattuale, e, sotto alcuni aspetti, tocca le tematiche annoverate sotto il termine “presupposizione”, il cui non agevole inquadramento, per la molteplicità dei fenomeni che evoca, esprime efficacemente le difficoltà di raccordo con gli istituti di stampo normativo, in cui trova un punto di emersione nel regime dell’eccessiva onerosità sopravvenuta (art. 1467 e segg. c.c.). Tale fenomenologia è estranea alle questioni evocate nel dibattito sulla giustizia contrattuale, il quale si occupa, essenzialmente, dei rimedi contro l’ingiustizia coeva al contratto, cioè del contratto che è volto a realizzare un assetto di interessi ingiusto.
Questo problema riguarda le circostanze di fatto che, alterando in varia misura l’attitudine di una delle parti a determinarsi –sia in ragione delle ipotesi tipizzate (errore, dolo, violenza, stato di pericolo, stato di bisogno), sia a causa di qualche disparità di fatto o del diverso potere economico-, generano un assetto di interessi contrattuale che appare iniquo. Esso è evocato, in astratto, con l’espressione contratto “asimmetrico”, alludendo alle varie e disomogenee ipotesi di disparità di forza contrattuale tra le parti: informativa, esistenziale, culturale, economica. Quando l’asimmetria si riscontra tra imprenditori, tanto per conferire un’etichetta, è stata coniata l’espressione “terzo contratto”.
S’intende che, a prescindere dalle etichette, la praticabilità dei rimedi tipici risolve il problema: ma spesso la realtà non ne rispecchia gli schemi, e, pertanto, una volta saggiatone l’ambito (si pensi alla violenza economica, alla violenza politica, alla possibilità di conferire allo stato di bisogno un senso che travalichi l’ambito strettamente economico), occorre chiedersi se possa rintracciarsi qualche rimedio là dove quelli lasciano senza presidio.
Il problema è, spesso, risolto da norme inderogabili, che menomano l’autonomia privata per prevenire od eliminare gli effetti della disparità di forza contrattuale, vietando assetti d’interessi: si tratta di un veicolo classico e di risalente tradizione, che ha segnato la nascita del diritto del lavoro, la cui impronta essenziale è data, appunto, dagli interventi inderogabili dettati a tutela del lavoratore subordinato. L’idea ottocentesca che la miglior tutela contro l’ingiustizia sia apprestata dall’eguaglianza giuridica e dalla autonomia, affermato dagli interpreti francesi nella formula qui dit contratuel dit juste, è stata ampiamente smentita dai fatti, dove l’esercizio dell’autonomia risente ampiamente delle condizioni economiche, culturali, ambientali degli interessati.
Le originarie forme di tutela contro le disparità socio-economiche erano affidate alla formalizzazione dell’accordo: di esse è attestazione il modello dell’art. 1341, 2° comma, c.c. Ora ne sono espressione emblematica gli artt. 41 e 42 del Tr. UE, gli artt. 2 e 3 della legge 10 ottobre 1990 n. 287 (cosiddetta antitrust), tutti in tema di abuso di posizione dominante, e l’art. 9 della legge 18 giugno 1998 n. 192, che vieta l’abuso di dipendenza economica nella subfornitura nelle attività produttive e potremmo considerare l’approdo -per la verità poco applicato nonostante l’opinione dominante, che vi attribuisce portata generale- del moto avviato nel 1990. In questi casi la protezione è data da divieti elastici ed affidati a clausole generali, senza che possano venire in rilievo le disposizioni sulla violenza morale, ricalcate sulla violenza economica, e quella specifica in tema di minaccia di far valere un diritto (art. 1438 c.c.).
Ma là dove questi rimedi non operano, l’asimmetria tra contraenti cade in una terra di nessuno, presidiata in qualche misura dalle regole della responsabilità aquiliana (art. 2043 c.c.) ed in particolare di quella precontrattuale (art. 1337 c.c.). Poiché vengono in considerazione abusi dell’autonomia, è diffuso il richiamo all’abuso del diritto, che negli ultimi cinque anni sembra un tema risalito dalla cantina per una pregnante riscossa. Vi accenneremo più innanzi, in una prospettiva più generale.
È sufficiente rilevare che l’abuso del diritto non esprime una concezione univoca, ma oscilla tra una dimensione puramente emulativa –quella che fa leva sull’art. 833 c.c., che, in tema di proprietà, vieta gli atti emulativi-, ed un’area solidaristica o quanto meno di salvaguardia dell’altrui interesse nei limiti in cui non è menomato un proprio interesse giuridicamente apprezzabile, espressa dalle regola in tema di correttezza e buona fede (artt. 1175, 1337, 1375 c.c.), di cui è espressione il notissimo dibattito sul significato da conferire alla locuzione “malgrado la buona fede” contenuta originariamente nell’art. 1469 bis c.c. ed ora trasfusa nell’art. 33 del codice del consumo. Una terza idea di abuso è parametrata sulla funzionalizzazione del diritto di cui si abusa: se ne ricava un’espressione dal regime della minaccia di far valere un diritto (art. 1438 c.c.).
Dicevo poc’anzi che la tutela va essenzialmente rintracciata nelle norme inderogabili. Il nostro sistema non contiene una disposizione ampia come quella contenuta nel par. 138 del BGB, secondo cui è nullo il contratto mediante il quale taluno, approfittando dello stato di bisogno, dell’ignoranza, della leggerezza, dell’inesperienza altrui si fa dare o promettere dall’altra parte o da un terzo una prestazione assolutamente sproporzionata. Nella nostra esperienza gli anni ’90 segnano uno spartiacque tra i tentativi dottrinali dinanzi ad una giurisprudenza sostanzialmente quiescente ed i successivi interventi normativi a cui è corrisposto il risveglio dei giudici.
Risale al 1990 l’analisi volta a verificare le potenzialità esplicative dell’art. 1438 c.c. su questo terreno, ed in particolare, l’interrogativo circa la sua attitudine a porre rimedio alle minacce, cioè alle prospettazioni di avvalersi dell’autonomia, a cui non corrisponda l’esercizio di un diritto. Ma la disposizione non è atta a fornire un presidio contro gli abusi della libertà negoziale indipendenti dall’esercizio di un potere verso l’altro contraente o verso terzi. Qui la protezione contro gli abusi rimane affidata alle norme inderogabili, quelle che ho richiamato in precedenza in tema di abuso di posizione dominante, così come di abuso di dipendenza economica (art. 9 l. 192/98). Quest’ultima sancisce la nullità testuale del “patto attraverso il quale si realizzi l’abuso”, e, per il modo in cui è formulata, si ritiene applicabile a tutti i contratti di impresa. Ma la nullità, in sé, per la radicale inefficacia che la caratterizza, non è un rimedio sufficiente alla protezione dell’imprenditore debole, la quale richiede, in applicazione del modello risarcitorio, di realizzarne in forma specifica l’interesse (art. 2058 c.c.).
In altri casi vi è una nullità “di protezione”, espressamente enunciata nell’art. 36 del codice del consumo (d. lgs. 206/2005), che viene in rilievo mediante la presunzione di abusività di una clausola, ma può essere superata dalla prova di una trattativa sul punto (art. 34 codice del consumo), sebbene la trattativa, in sé, sia lungi dal comportare la pienezza della parità contrattuale.
Le disposizioni in tema di abuso di posizione dominante dettate in sede europea (art. 82 Tr. UE) e interna (art. 3 legge 287/1990) dettano prescrizioni di responsabilità senza stabilirne i riflessi sul terreno degli atti di autonomia: da qui il problema di stabilire se i riflessi della loro violazione sull’assetto di interessi contrattuale si risolvano in una nullità virtuale, accordando alla vittima della violazione un rimedio risarcitorio in forma specifica per garantirgli la realizzazione dell’interesse che avrebbe conseguito se l’assetto di interessi non fosse stato alterato dall’abuso dell’altro contraente.
Un altro approccio alla riflessione sulla giustizia contrattuale è dato dalla costruzione di un principio di proporzionalità nei rapporti tra privati, che renderebbe in sé patologica una sproporzione macroscopica. Il terreno elettivo della proporzionalità è nel diritto pubblico, dove è sorto ed impiegato per valutare l’adeguatezza di una sanzione e la ragionevolezza di un provvedimento in vista dell’interesse perseguito. Esso, dunque, ha una specifica funzione nell’ambito dei rapporti autoritativi, ed in tale ottica, può essere utilmente impiegato negli atti di esercizio delle autorità private, e pertanto sia nell’esecuzione di rapporti contrattuali da cui derivino situazioni autoritative -come accade, ad esempio, nel lavoro subordinato- sia, più in generale nell’esercizio di diritti potestativi e facoltà (cfr., ad esempio, gli artt. 1447, ult. comma, 1450, 1455, 1460, 1467, ult. comma, 1525, 1526 c.c.)
Più difficoltoso è il tentativo di conferirvi qualche rilevanza nella determinazione dell’assetto di interessi nella genesi del contratto. Si richiamano a supporto la prescrizione secondo cui “la penale può essere diminuita equamente dal giudice, se” il suo ammontare “è manifestamente eccessivo, avuto sempre riguardo all’interesse che il creditore aveva all’adempimento” (art. 1384 c.c.), che, sempre dagli anni ’90, la corte di cassazione ritiene applicabile d’ufficio, e quella in tema di riduzione dell’ipoteca legale e giudiziale allorquando “i beni compresi nell’iscrizione hanno un valore che eccede la cautela da somministrarsi o se la somma determinata dal creditore nell’iscrizione eccede di un quinto quella che l’autorità giudiziaria dichiara dovuta” (art. 2874 c.c.).
È, tuttavia, alquanto dubbio che queste regole –così come quelle riferibili alle patologie nell’esecuzione del contratto- possano essere efficacemente richiamate per ravvisare un principio che imponga ai privati di esercitare la loro autonomia in vista di un assetto di interessi oggettivamente equo, superando la regola secondo cui, in condizioni di normalità, sono i contraenti a fissare, nella loro prospettiva soggettiva, qual è la proporzionalità che, in concreto, intendono perseguire. D’altronde, la disposizione in tema di riduzione dell’ipoteca si riferisce solo a quella con titolo legale o giudiziale, mentre non opera in caso di determinazione volontaria della somma per cui è concessa (art. 2873, 1° comma, c.c.), mentre le regole tendenti al ripristino dell’equità dinanzi alle sopravvenienze (cfr. l’art. 1467 c.c.) impongono di commisurare l’equità all’assetto di interessi originariamente previsto dalle parti. La norma sulla offerta di modificazione del contratto rescindibile per ricondurlo ad equità (art. 1450 c.c.), richiede, sì, che l’equità rispecchi l’equilibrio oggettivo tra le prestazioni, e tuttavia si inserisce in una patologia che presuppone anche lo stato di bisogno di una parte e l’approfittamento dell’altra.
6. Nella riflessione sulla giustizia contrattuale è stata impiegata anche la clausola generale della buona fede oggettiva (art. 1375 c.c.), che gli anni ’90 hanno portato alla ribalta della giurisprudenza con dimensioni in passato sconosciute. L’impiego della buona fede come criterio valutativo degli atti di autonomia privata va apprezzato in modo diverso a seconda che si riferisca agli atti unilaterali esecutivi del contratto o estintivi del rapporto o, di contro, alla valutazione dell’assetto di interessi configurato dal contratto.
In quest’ultima dimensione, la buona fede, assurta a criterio valutativo di clausole contrattuali, ha costituito il parametro della nullità di quelle tendenti a perseguire finalità incompatibili con l’assetto di interessi primariamente derivante dal contratto. Lo ha affermato la corte di cassazione (sent. 10926/1998) con riguardo alla clausola del contratto di leasing che fa gravare sull’utilizzatore il rischio della mancata consegna della cosa.
In questa decisione la buona fede gioca un ruolo affine a quello che le viene attribuito, nella disciplina dei contratti del consumatore, dall’art. 33 del codice del consumo, secondo cui sono vessatorie le clausole che “malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”. Ciò solleva l’interrogativo se tale disposizione, lungi dall’essere eccezionale, esprima un principio generale e sia, pertanto, suscettibile di applicazione analogica e, conseguentemente, impiegabile oltre l’ambito dei contratti del consumatore.
La soluzione negativa si fonda su due argomenti. Anzitutto il regime dei contratti del consumatore è caratterizzato da due limiti che ne circoscrivono l’ambito applicativo. Il primo, soggettivo, attiene alla qualità dei contraenti, consumatore l’uno –la persona fisica “che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”; professionista l’altro (“la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale o professionale, ovvero un suo intermediario”). Il secondo limite è oggettivo: esso esclude che la buona fede possa essere utilizzata per sindacare il cuore del contratto e cioè la determinazione del suo oggetto e l’adeguatezza del corrispettivo, “purché tali elementi siano individuati in modo chiaro e comprensibile” (art. 34, 2° comma, codice del consumo).
Il secondo argomento è che la presunzione di abusività di una clausola può essere superata dalla prova che vi è stata sul punto una trattativa individuale (art. 34, 4° comma, codice del consumo). Non viene, quindi, in rilievo la buona fede in sé o il contenuto della clausola (salvo quelle previste nell’art. 36, comma 2, cod. cit.), ma l’effettività di una trattativa sulla clausola: la quale, peraltro, è ben lungi dal significare, sotto il profilo economico e sociale, pienezza della parità contrattuale.
Va invece favorevolmente salutato l’impiego della buona fede quale parametro di valutazione degli atti di autonomia, segnatamente unilaterali, che costituiscono esecuzione del contratto. Essi, infatti, ricadono appieno nello spettro applicativo dell’art. 1375 c.c. La dottrina l’aveva già segnalato in passato; e la corte di cassazione, in una recente sentenza che ha suscitato parecchio fervore (Cass. 20106/2009) ha ritenuto che la validità (o, meglio, l’efficacia) del recesso ad nutum deve essere valutata alla stregua delle ragioni che lo determinano, e dunque secondo buona fede. La contrarietà a quest’ultima rende abusivo l’esercizio della relativa facoltà: e così il richiamo all’abuso del diritto è tornato alla ribalta.
Probabilmente una coincidenza ha voluto che la riflessione sull’abuso del diritto si sia ravvivata anche nella dottrina degli anni più recenti, senza tuttavia che il vetusto tema ne abbia tratto significativo giovamento. Del resto, la constatazione che l’esercizio abusivo di un diritto si risolve in un illecito, contrattuale –nel senso di violazione delle regole che reggono un rapporto obbligatorio-, precontrattuale o extracontrattuale, induce a dubitare della possibilità di conferire all’abuso del diritto l’attitudine a porsi come categoria ordinante e ad acquisire un senso che superi la mera descrizione. Anche la patologia dell’autonomia privata funzionale, a cui l’idea abuso del diritto pare attagliarsi soddisfacentemente, è rispecchiata adeguatamente dalle categorie dell’inadempimento, della responsabilità e dell’inimputabilità di effetti.
La rilevanza delle clausole generali non si ferma qui. Altri criteri, o principi, tradizionalmente acquisiti in ambienti giuridici diversi, sono stati parametrati nella dimensione privatistica. In particolare la ragionevolezza –con il bilanciamento che ne è espressione- è da sempre acquisita nella giurisprudenza costituzionale come parametro di valutazione della legittimità delle disparità di trattamento; la si rintraccia anche nei testi normativi, alla stregua di una clausola generale di valutazione di comportamenti e circostanze. Si è affacciata, nell’ultimo ventennio, nella riflessione della civilistica, che, nelle sue espressioni più recenti, tende ad impiegarla quale criterio per risolvere il conflitto tra norme pariordinate. Del resto il bilanciamento, che scaturisce dall’impiego della ragionevolezza, non consiste -diversamente da quanto l’espressione potrebbe lasciar supporre- nel risolvere un conflitto di diritti, che rispecchia in concreto un conflitto tra norme, mediante una soluzione “transattiva”, ma nella ricerca del diritto, e dunque della norma, a cui attribuire la prevalenza in applicazione dei principi assiologici dell’ordinamento.
7. Verso la fine del secolo passato si è ravvivata anche la tendenza ad una visione unitaria dell’ordinamento giuridico. La sezionalità, rispecchiata dalla frammentazione delle fonti normative di cui abbiamo riferito precedentemente, lungi dall’alimentare la tendenza a ravvisare microsistemi tendenzialmente indipendenti, ha piuttosto favorito quella a percepire e ricostruire le dimensioni della giuridicità a prescindere dalle frammentazioni normative. In altri termini la rilevanza “pubblica” di una determinata materia non menoma la portata generale delle norme che vi ineriscono, e quindi la loro rilevanza nella dimensione privatistica, sia quali eventuali espressioni di principi generali, sia in quanto suscettibili di diretta applicazione, ricorrendone i presupposti.
L’apporto del codice civile e del diritto privato alla giuridicità nel suo complesso sta nell’approntare un diritto comune a tutti i soggetti, privati o pubblici che siano, salve le prescrizioni che pongono prerogative, cioè esenzioni dal diritto comune, in funzione dei determinati interessi. In questa direzione il diritto privato è fonte di principi utilmente impiegabili anche nel diritto amministrativo, la cui magmaticità si sta lentamente affievolendo mediante la formazione di “codici” di settore, da cui si ricavano (come, in particolare, il codice dei contratti pubblici: d. lgs. 12 aprile 2006 n. 163) regole specifiche funzionali all’interesse pubblico. In un’altra prospettiva, la tendenza alla comprensione unitaria del sistema ha anche favorito l’analisi della rilevanza delle norme penali nella dinamica contrattuale.
Un tema, ancora piuttosto inesplorato nei suoi riflessi sull’autonomia privata, è, infine, dato dal principio di sussidiarietà sociale (o orizzontale). Vi ho accennato in precedenza; la sedes materiae –gli artt. 118, 4° comma, e 120, 2° comma, cost., contenuti nel titolo V, relativo agli enti pubblici territoriali, nella parte dedicata all’ordinamento della repubblica- non lascia subito presagire una rilevanza privatistica del principio. E tuttavia la norma secondo cui “Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa di cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” consente, ed anzi impone, di intraprendere qualche indagine volta a sondare i corollari del principio nella fenomenologia del contratto e i modelli di tutela che possono ricavarsene, segnatamente nella relazione tra atti di esercizio dell’autonomia e disciplina inderogabile.
8. La delocalizzazione derivante dall’avvento del web ha favorito, com’era inevitabile, il fiorire di numerosi studi sugli aspetti relativi alla nuova ‘ambientazione’ del contratto. L’impiego di immagini e riquadri precostituiti è il veicolo della manifestazione dell’intento, per il quale ci si avvale di tasti; ne segue il tramonto dell’autografia della sottoscrizione e la nascita della firma digitale, il cui significato sta nell’imputazione degli effetti all’autore del gesto che equivale alla sottoscrizione.
Non credo che il tramonto dell’autografia presagisca il tramonto dell’accordo; ne esce, invece, modificata la dinamica, nel senso che sopravanzano nuovi, e marcatamente oggettivi, presupposti sufficienti all’imputazione dell’intento. L’oggettività che caratterizza questi modelli solleva il problema degli strumenti di tutela contro la mancanza di ponderazione e, più in generale, quello della dimensione del dovere precontrattuale di buona fede. Nella relazione con l’altro mediata dal computer, il dato cognitivo e tecnologico sopravanza quello esistenziale e lascia intravedere, almeno in un primo e forse superficiale approccio, la sua prevalenza sulla dimensione etica.
Sotto il profilo dell’oggetto, le informazioni fornite on line si pongono sul crinale tra servizi e beni, contese tra l’esigenza di garantire la protezione delle risorse immesse in rete –che apre, mediante strumenti di esclusione, un processo tendente all’assimilazione ai beni- e quella di perseguirne la massima fruibilità. La stessa struttura della conoscenza, quando sfocia in opera dell’ingegno, diviene suscettibile di protezione mediante l’esclusiva, secondo le tecniche dei beni immateriali, e sfocia in uno specifico capitolo del diritto d’autore. La new economy è impregnata dall’immediatezza della circolazione delle idee nel mondo, ed è costellata di dispute sui limiti e sulle modalità di una fruizione esclusiva.
Infine, il luogo del web sembra un arcano: il quale si dipana riflettendo che esso non è un punto d’incontro, ma un mezzo di incontro tra soggetti localizzati.
Testo della relazione svolta al Secondo Corso di Alta formazione sul diritto romano per docenti della Reppubblica Popolare Cinese, e pubblicato in cinese, con autorizzazione d’autore, in Digesta (Xue Shuo Hui Zuan), vol. IV, Pechino, 2012.